Trent’anni fa moriva Italo Calvino. Ci piace ricordarlo con questo articolo pubblicato da http://www.leparoleelecose.it/
The Dark Side of the Memos. Il testamento politico di Italo Calvino
di Gabriele Pedullà
Può essere una buona idea cominciare con due affermazioni semplici semplici:
Italo Calvino è uno scrittore italiano, nato a Cuba il 15 ottobre 1923 e morto a Siena il 19 settembre 1985.
Italo Calvino è stato per tutta la vita un militante comunista.
Tutte e due queste frasi sono altrettanto vere, addirittura ovvie; eppure, se usciamo d’Italia, e soprattutto nel circuito delle università anglosassoni, la seconda rischia di apparire persino sorprendente. Calvino? Italo Calvino? Lo scrittore della narrativa combinatoria? L’emulo di Jorge Louis Borges? L’amico di George Perec? Il teorico della «Leggerezza»? Lo stesso Calvino? Comunista? Proprio lui?
Italo Calvino è uno scrittore italiano, nato a Cuba il 15 ottobre 1923 e morto a Siena il 19 settembre 1985.
Italo Calvino è stato per tutta la vita un militante comunista.
Tutte e due queste frasi sono altrettanto vere, addirittura ovvie; eppure, se usciamo d’Italia, e soprattutto nel circuito delle università anglosassoni, la seconda rischia di apparire persino sorprendente. Calvino? Italo Calvino? Lo scrittore della narrativa combinatoria? L’emulo di Jorge Louis Borges? L’amico di George Perec? Il teorico della «Leggerezza»? Lo stesso Calvino? Comunista? Proprio lui?
Almeno in Italia, che Calvino sia stato
comunista non suona ancora come una novità, ma con il passare degli anni
anche qui la sua attività politica e ancora più la carica politica di
tutta la sua opera vengono messe sempre più tra parentesi. In parte,
certo, è quello che succede sempre con i classici. Ma in questo caso si
avverte pure una gran voglia di dimenticare un intero pezzo della nostra
recente storia. Tanto più per questo conviene passare in rassegna
velocemente alcuni semplici fatti.
Calvino era un militante comunista
quando ha fatto la Resistenza in Liguria. Era un militante comunista
quando lavorava per l’edizione torinese de “L’Unità” (allora quotidiano
ufficiale del PCI), tra il 1948 e il 1949. Era un militante comunista
nel 1957, quando difendeva La caduta di Berlino, il film di
propaganda stalinista diretto da Michail Ciaureli sulle imprese
dell’Armata Rossa durante la seconda guerra mondiale. Era un militante
comunista in quello stesso 1957, quando è uscito dal Partito Comunista
Italiano assieme ad alcune centinaia di altri intellettuali, in polemica
contro l’appoggio all’invasione dell’Ungheria. Era un militante
comunista quando si è trasferito a Parigi nel 1968, e si è subito dovuto
confrontare con il “Joli Mai”, in aperta polemica con i Partiti
marxisti ufficiali (ce ne ha lasciato una lettera magnifica e troppo
poco nota, dalla quale vale la pena di citare qualche frase: «Viviamo le
ultime giornate della straordinaria città senza macchine né metro, con
code ai negozi, poi il discorso di De Gaulle, le macchine dei gollisti
clacsonanti che cercano di penetrare nel Quartiere e sono scacciate, la
Sorbona che sembra una fortezza assediata, con katanghesi appostati e i
giovani che s’aspettano il peggio e maledicono i comunisti. Nottate in
cui non si fa che girare a piedi tra continui allarmi in un clima di
eccitazione continua. (…) Mi pare che qualcosa stia davvero cambiando in
Europa. Certo si andrà verso l’organizzazione d’una nuova forza
rivoluzionaria anche operaia, mentre ormai la via dei partiti comunisti è
irreversibile come quella della socialdemocrazia alla vigilia della
prima guerra mondiale. L’interrogativo su fino a che punto la reazione
potrà spingersi sulla via del fascismo sembra non preoccupare i giovani
rivoluzionari: e chissà, forse è giusto, perché viviamo tempi talmente
diversi da quelli del nostro passato e le cose saltano fuori sempre
diversa da come si possono prevedere»). Era un militante comunista
quando nel 1974, sul “Corriere della Sera”, ha ricordato il proprio
stalinismo degli anni Cinquanta con parole serene e tutto sommato niente
affatto apologetiche. Ed era un militante comunista, quando tre anni
dopo, sulle stesse pagine ha elogiato quella che chiamava «la disciplina
militare» del PCI, da lui definita «la sua più preziosa eredità
storica, che speriamo riesca a salvare dagli assalti ideologici»
(sottinteso: della nuova sinistra movimentista e genericamente
libertaria). Ma gli esempi, spero si intuisca, si potrebbero
moltiplicare a piacimento.
Come suggeriscono anche solo questi
frammenti, la storia di Calvino militante comunista si lascia raccontare
da molte prospettive diverse, interne o esterne ai suoi testi. Può
essere interessante però farlo da quella più difficile, cioè partendo
dalla sua opera saggistica più nota nel mondo, sino a diventare una
sorta di manifesto del postmodernismo internazionale: i Six Memos for the Next Millennium,
scritti nel 1985 e apparsi postumi nel 1988. Anche qui infatti, nel
punto apparentemente più distante dall’impegno che lo ha accompagnato
tutta la vita, la passione politica di Calvino emerge in maniera
prepotente, nonostante gli studiosi abbiamo preferito interpretarlo come
il testo di un formalista ormai lontano dalle lotte degli anni
precedenti. A rileggere queste pagine con attenzione ci si rende conto
che le cose stanno in maniera non poco diversa.
* * *
I Six Memos furono
originariamente concepito come serie di lezioni da tenere a Harvard nel
quadro del prestigioso ciclo delle Norton Lectures, proprio nell’anno in
cui Calvino morì. Come è noto, si tratta di una riflessione su sei
virtù letterarie che Calvino, approssimandosi la fine del XX secolo, si
riproponeva di consegnare ai lettori, soprattutto più giovani, del
secolo si sarebbe aperto di lì a poco. Un evento accidentale quanto
irreparabile – la morte dell’autore, quando il manoscritto non era
ancora compiuto – ha determinato la struttura delle così dette Lezioni americane
quali le conosciamo oggi. A conclusione del suo percorso, Calvino aveva
infatti previsto una sesta conferenza dedicata alla «Consistency»
(coerenza), conferenza che progettava di scrivere una volta arrivato in
America e i cui materiali preparatori, se in possesso della famiglia,
non sono mai stati pubblicati.
Questa perdita è un peccato, perché
sarebbe bello sapere qualcosa di più sulle idee di Calvino in merito
alla «Consistency» (mi viene da dire: specialmente in merito alla
«Consistency»), ma è anche un ottimo punto di partenza per parlare dei Six Memos
nel loro complesso. Naturalmente, infatti, non è impossibile provare a
immaginare almeno in parte che cosa Calvino avrebbe scritto in questo
ultimo capitolo. La raccolta standard dei saggi di Calvino occupa circa
quattromila pagine e include non più di due terzi dei testi da lui
pubblicati in vita, forse anche meno. E qualche volta in questi scritti
il valore letterario della coerenza fa capolino.
Può essere interessante rilevare che
almeno in una occasione, in uno dei suoi saggi peraltro più famosi, vale
a dire nella riflessione compiuta “vent’anni dopo” sul suo romanzo
d’esordio, Il sentiero dei nidi di ragno, Calvino prende
espressamente posizione contro la coerenza. Tutti gli amici che avevano
letto il libro prima della pubblicazione – racconta Calvino – gli
avevano rimproverato lo stesso presunto errore. Mentre il resto del
romanzo era narrato dalla prospettiva di un bambino che non comprende
davvero gli eventi grandi e terribili nei quali è stato coinvolto (la
Resistenza italiana), verso la fine del libro Calvino aveva inserito un
improvviso cambio di registro per dare la parola a un più maturo
commissario politico comunista, in modo da spiegare ai lettori quale era
il senso di quella lotta dalla prospettiva più matura dell’autore. In
nome della «omogeneità» gli amici gli suggerirono unanimamente di
tagliare quel capitolo; come scrive Calvino «a quel tempo, l’unità
stilistica era uno di pochi criteri estetici sicuri». Ma Calvino tenne
duro lo stesso, sino a rivendicare a distanza di tanto tempo la
decisione di allora.
Il lettore delle Lezioni americane
non si sorprenderà di questa presa di posizione, ma non dovrà neanche
ricorrere a concetti cari agli storici della letteratura come quelli di
evoluzione, oscillazione o ripensamento per spiegare il presunto
contrasto tra il giudizio del 1964 e il giudizio del 1985. E il lettore
delle Lezioni americane non si sorprenderà perché è lo stesso
Calvino, all’inizio della prima delle sue riflessioni a spiegare con
grande chiarezza che ai sei valori da lui scelti non corrispondono sei
difetti, ma altri sei valori forse altrettanto preziosi. Come scrive
Calvino: «Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza/peso,
e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io
consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza
penso d’avere più cose da dire».
Anche se questa notazione a proposito
della coppia Leggerezza/Peso non viene ripetuta in termini altrettanto
espliciti a proposito delle altre quattro virtù, non c’è motivo di
pensare che le cose siano molto diverse per la Rapidità, l’Esattezza, la
Visibilità e la Molteplicità. Se in questo caso Calvino lo esplicita è
solo perché di tutte le qualità prescelte la più scandalosa era senza
dubbio proprio la Leggerezza, che, nella cultura italiana degli anni
Ottanta, ancora molto politicizzata, veniva fatta coincidere con il
disimpegno. Nelle quattro lezioni successive Calvino si limita infatti a
mostrare come attraverso il valore da lui lodato possa essere
conseguito anche il valore opposto, come nel caso della suprema virtù
della Vaghezza (frutto di una precisione assoluta), o come nel caso
della Molteplicità, che viene interpretata come dominio su caos e sul
caso e capacità di produrre varietà a partire da alcuni principi
ordinatori. Niente sarebbe dunque più sbagliato che scambiare le Lezioni americane per un ricettario molto sofisticato per scrivere buoni racconti, seguendo determinate virtù ed evitando determinati vizi.
In questo modo di procedere c’è anche un
altro aspetto che merita di essere considerato attentamente.
Nell’ordine in cui Calvino dispone le sue sei virtù letterarie, prima
che lui chiarisca in quale accezione le adoperano, alcune sembrerebbero
contraddire la virtù che le precede. Se la Rapidità si sposa bene con la
Leggerezza, nella percezione comune l’Esattezza non sembra andare molto
d’accordo con la Rapidità. Allo stesso modo, mentre la Visibilità e
l’Esattezza sono chiaramente imparentate, la Molteplicità e la Coerenza
si direbbero più difficilmente conciliabili. Definendo con precisione
questi valori, i diversi capitoli mostrano che tali potenziali
contraddizioni dell’indice sono solo apparenti, ma volutamente non
sciolgono la tensione. Per questo, quando provo a fare delle ipotesi
sulla sesta lezione mai scritta, mi piace immaginare Calvino impegnato
in un ipotetico corpo a corpo con il famoso saggio di Leo Spitzer sulla
accumulazione caotica nella tradizione poetica occidentale.
* * *
La morte di Calvino ha contribuito a
fissare il suo lascito intellettuale a quel 1985 come in un fermo
immagine, ridimensionando il cammino tortuoso che lo avevano condotto a
quella sua ultima proposta di poetica. Ma per chi conosce il suo
percorso artistico e politico è impossibile non pensare che per tutta la
sua vita Calvino è stato senza dubbio uno scrittore del Peso: un
intellettuale formatosi negli anni più freddi della Guerra fredda
culturale e che soprattutto non ha mai rinnegato quella stagione, ma ha
piuttosto cercato incessantemente di allargare il proprio sguardo senza
mettere in discussione gli assunti di partenza. Da questo punto di vista
la Leggerezza delle Lezioni americane è una Leggerezza che si
aggiunge al Peso e che lo completa. Ed è la virtù più desiderata perché
anche quella più difficile da conseguire per chi in Italia muoveva da
premesse come quelle di un intellettuale-militante quale Calvino.
Se questa intuizione è giusta e se
dunque Calvino ha pensato sin dall’inizio il suo libro per coppie, le
sei virtù letterarie delle Lezioni americane dialogano
costantemente con i loro opposti. Vale a dire, per l’appunto: Peso –
Lentezza – Vaghezza – Invisibilità (o magari Acusticità) – Singolarità –
Arbitrarietà. Enunciato così, potrebbe essere l’indice di un libro
assai promettente ancora tutto da scrivere. E se, a distanza di quasi
trent’anni dal volume di Calvino, dovessi indicare in cosa consiste il
suo lascito più duraturo, piuttosto che a questo o a quel capitolo, mi
riferirei a questo pensare per coppie.
Mentre buttavo giù l’ultimo paragrafo ho
scritto e poi cancellato un avverbio: dialetticamente. Si tratta di un
punto importante, perché per Calvino quel modo di ragionare per coppie
era una novità e in qualche modo una conquista. Per una generazione di
militanti politici cresciuti a pane e dialettica, il numero magico non
era il due, ma il tre, come i tre momenti della Tesi, dell’Antitesi e
della Sintesi. La storia era fatta di contrapposizioni frontali, ma
queste contrapposizioni acquistavano un senso solo alla luce del loro
superamento in una conciliazione degli opposti.
In una cultura imbevuta di Hegel e di
Marx attraverso Benedetto Croce e Antonio Gramsci si trattava di nozioni
imprescindibili: solo il numero tre assicurava l’uscita da quella che
altrimenti sarebbe stata una paralisi della storia e del pensiero.
Proprio la generazione di Calvino, però, si era trovata sempre più a
disagio con questo auspicato momento sintetico. Calvino era un lettore
infaticabile di filosofia per la casa editrice Einaudi e si era presto
familiarizzato con la riflessione di Theodor Adorno, a cominciare
proprio dal suo rifiuto di ogni esito consolante. La grande arte aveva
direttamente a che fare con l’esperienza della negatività e della
negazione, ma nessuna restaurazione dell’ordine perduto era visibile
all’orizzonte, forse nemmeno auspicabile.
In quegli anni la sfiducia nei confronti
della sintesi andò spesso di pari passo con la crescente disillusione
verso il realismo socialista e verso la stessa Unione Sovietica da parte
dei marxisti italiani. Per molti intellettuali coetanei di Calvino, il
rifiuto dialettica si tradusse a poco a poco nel progressivo
allontanamento da qualsiasi attività politica o al contrario con quella
che si potrebbe definire una sorta di “critica della critica”. È in
particolare il caso di uno scrittore come Leonardo Sciascia. Sciascia
giunse a fare definitivamente i conti con le radici hegeliane della
cultura comunista soprattutto attraverso la lezione di Foucault e la sua
riflessione sui sistemi di controllo, approdando per questa strada a
prendere posizioni ampiamente paradossali in qualità di intellettuale
pubblico, come nella sua dura polemica contro i giudici impegnati in
prima linea nella lotta contro la criminalità organizzata nel Meridione
d’Italia. Una sorta di conferma di come ogni antitesi dell’antitesi
rischi troppo spesso di assomigliare pericolosamente alla tesi che
all’inizio si voleva combattere.
Anche Calvino evidentemente cercava una
via d’uscita, ma non era disposto a rinunciare alla sua scelta di campo.
È in questo clima che occorre collocare l’implicita struttura a coppie
delle Lezioni americane, e in particolare nel contesto del
progetto di una delle tante riviste immaginate (e non realizzate) da
Calvino a partire dagli anni Sessanta. Tra il 1974 e il 1976 Calvino
lavorò intensamente al progetto di una rivista assieme a Claudio
Rugafiori e a Giorgio Agamben. Nei loro piani ogni numero avrebbe dovuto
ruotare attorno a coppie concettuali come Commedia/ Tragedia,
Architettura/ Vaghezza, Lingua materna/ Lingua morta, Biografia/ Favola,
Stile/ Materia, Legge/ Creatura o Filologia/ Diritto. Calvino, allora,
scelse di lavorare attorno ai due concetti di Leggerezza e di Velocità: e
ci sono pochi dubbi sul fatto che dieci anni dopo le Lezioni americane
conservino una traccia di quel modo di procedere binario per coppie
complementari che non implicano nessuna contrapposizione tra virtù e
vizi. Il modello, chiaramente, è quello delle grandi categorie della
linguistica e dello strutturalismo allora di moda: langue/ parole,
paradigma/ sintagma, diacronia/ sincronia. Anche se ad Agamben, Calvino
e Rugafiori si può riconoscere maggiore fantasia nella scelta delle
loro coppie, si può ancora riconoscere l’influenza di Barthes, Greimas e
Benveniste in quel progetto abortito.
L’ultimo libro di Calvino deve
sicuramente moltissimo a quella riflessione. E tuttavia, proprio perché
non procedono per coppie (almeno non in maniera esplicita), le Lezioni americane
testimoniano di un nuovo stadio della riflessione di Calvino,
chiaramente insoddisfatto della dialettica, ma non del tutto a suo agio
con lo strutturalismo e la sua pretesa di abolire il tempo e la storia
(come narratore strutturalista, in effetti, Calvino farà esattamente il
contrario, usando per esempio la griglia dei tarocchi per mettere in
moto un racconto o per far viaggiare con l’immaginazione l’immobile
Kublai Khan).
Le Lezioni americane non sono
prescrittive (come succederebbe se fossero un ricettario per scrivere
buona letteratura), ma non sono nemmeno ecumeniche, perché Calvino non
rinuncia a prendere posizione, cosa che – nel caso delle coppie
strutturaliste – evidentemente non è possibile, perché non avrebbe
nessun senso parteggiare per la langue contro la parole
o per la sincronia contro la diacronia. Nel caso delle conferenze per
Harvard chiaramente non è così. Non tutto si equivale, e l’autore
dichiara immediatamente da che parte ha scelto di collocarsi offrendoci
la sua lista di sei virtù. Ma della lunga familiarità con la dialettica a
Calvino rimane anche nell’ultima opera una particolare passione per il
verso che può sempre contestare il recto e per il valore della
negazione.
* * *
Ogni volta che ho riletto le Lezioni americane
– cosa che è successa più o meno ogni dieci anni, dalla mia adolescenza
in poi – non ho potuto trattenermi dal pensare che il fascino di questo
libro avesse a che fare con la loro capacità di tenere assieme un punto
di vista molto tagliato e personale con una speciale disponibilità a
rimettersi in dubbio a ogni passo e a provare a immaginare le ragioni
dell’altro, piegandole a poco a poco alla propria prospettiva, secondo
un meccanismo che ricorda la teoria gramsciana dell’egemonia, con il suo
costante inglobare le verità dell’avversario e sfruttare a proprio
vantaggio le sue vittorie. Anche questa sarebbe una prova della fedeltà,
consapevole o inconsapevole, alle proprie letture di gioventù. Di certo
possiamo dire che in Calvino l’attenzione al rovescio della medaglia
deriva in maniera eguale dal suo particolare gusto di narratore per
tutte le forme di straniamento letterario (via Bertolt Brecht e Victor
Sklovskij) e dalla sua passione politica per una Storia osservata dalla
prospettiva degli oppressi.
Per una curiosa coincidenza, le Lezioni americane
condividono questa attenzione per il lato invisibile con l’altro grande
libro di teoria della letteratura scritto da un narratore italiano nel
Novecento, vale a dire L’umorismo di Luigi Pirandello. Come è
noto, secondo Pirandello ciò che rende l’umorismo così prezioso e che lo
differenzia dalla pura e semplice comicità è la sua tendenza a
soffermarsi sull’ombra dei personaggi piuttosto che sulla loro figura;
attraverso questo procedimento (che implica una profonda solidarietà
dell’autore con colui che viene preso in giro) chi legge è portato ad
andare oltre la propria stessa risata e a scoprire il dolore che si
annida dietro quei tratti che in un primo momento hanno innescato la sua
ilarità. Le Lezioni americane funzionano un poco allo stesso
modo, perché i valori di Calvino solo tali solo a patto di guardare alla
loro ombra sino al momento in cui siamo pronti a riconoscere la piena
legittimità dei valori opposti.
Tutto questo mi sembra particolarmente
importante per noi – trenta anni dopo il trionfo planetario del
neo-liberalismo. Una vulgata storiografica pretende che le Lezioni americane
siano quasi un atto di abiura rispetto alla produzione precedente di
Calvino o comunque l’esito estremo di un processo di allontanamento
dalla letteratura impegnata cominciato alla fine degli anni Sessanta.
Questo è però un modo di travisare completamente il senso del testamento
intellettuale di Calvino. Nessuna euforia postmodernista attraversa
infatti queste pagine (l’euforia: uno dei sentimenti dominanti del
tempo). Per un marxista italiano rimasto sempre fedele ai propri ideali
di gioventù come Calvino, la modernizzazione degli anni Ottanta stava
portando l’Italia e in generale il mondo occidentale nella direzione
sbagliata. Una tremenda sconfitta si era consumata o si stava
consumando: ed è per questo che le Lezioni americane hanno come humus
non l’euforia postmoderna ma il senso di disfatta che, per gli uomini
della sua generazione e delle sue idee politiche, in quel giro di anni
si faceva sentire con particolare forza in Italia dopo le straordinarie
attese del decennio precedente. Si scrive un testo rivolto al nuovo
millennio perché si pensa di non avere abbastanza interlocutori presso i
propri contemporanei e si cerca di affidare un messaggio nella
bottiglia agli uomini che verranno – esattamente come un secolo prima
avevano fatto Giacomo Leopardi e Stendhal cercando la comprensione
postuma dei lettori del futuro.
La posizione delle Lezioni americane
è tuttavia preziosa oggi perché in Calvino la lucida consapevolezza
della sconfitta si accompagna sempre con la speranza in una futura
riscossa. Anche questo va considerato probabilmente un lascito della
lunga familiarità con le categorie di quella dialettica da cui pure, in
tutta la seconda parte della sua vita, Calvino non aveva fatto che
cercare di affrancarsi. Che i segnali siano tutti così cattivi, non
significa insomma necessariamente che non esistano spazi per l’azione.
Abbiamo molto da imparare dallo spirito
combattivo di Calvino. E qui, per quanto scontata, una citazione appare
obbligatoria. Per dirla con le parole di Marco Polo, alla fine de Le città invisibili:
«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello
che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo
stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce
facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di
non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e
approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in
mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
«Farlo durare, e dagli spazio». Ancora
oggi non ci sono molte altre ricette verosimili. E questo naturalmente
non vale solo per la letteratura.
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