Giorgio Amico in quest’articolo ci invita a
ripensare la Resistenza come occasione,
allora mancata, di trasformazione radicale della società. Sta a ciascuno di noi
impedire che di nuovo questa Resistenza sia tradita, che di nuovo si debba
parlare di occasione mancata.
Oggi è necessaria una
nuova Resistenza
"Français, encore un effort si
vous voulez être républicains", titolava nel 1795 Donatien-Alphonse-François
de Sade un opuscoletto destinato a mantenere vivo lo spirito rivoluzionario in
una Francia in piena crisi. C'è venuto da pensarci riflettendo sul presente e
sull'avvicinarsi di una festa della Liberazione che si annuncia insolita.
Per la prima volta il 25 aprile sarà
celebrato nell'intimità della propria casa, una necessità dovuta all'emergenza
sanitaria che il paese sta vivendo e che impedisce ogni tipo di cerimonia
pubblica. Un'esperienza nuova, non piacevole e non solo per l'isolamento
forzato e la gravità della situazione, ma anche perché, come il Primo maggio,
il 25 aprile era spesso l'unica occasione di rivedere amici e vecchi compagni.
Quest'anno questo non sarà possibile e ciò contribuisce ad alimentare il senso
di spaesamento che un po' tutti viviamo. La sensazione di un tempo sospeso in
attesa di un futuro che si intravvede con difficoltà e che sicuramente sarà
molto diverso dal nostro recente passato a partire proprio dalle consuetudini
quotidiane.
Un'esperienza nuova e non positiva
ma che può, anzi, dovrebbe, essere occasione di riflessione sul senso della
Resistenza, sulla sua attualità, sul valore che può avere non tanto per noi
nati in quegli anni o immediatamente dopo, ma per le giovani generazioni per le
quali i 75 anni che ci dividono da quegli avvenimenti sono una era geologica e
di quei fatti non hanno spesso più neanche il ricordo dei nonni. Che i nonni
ormai siamo noi che quella storia non la vivemmo, ma la sentimmo raccontare dai
nostri genitori che l'avevano vissuta sulla loro pelle.
Insomma, un 25 aprile domestico
senza la retorica inevitabile delle celebrazioni pubbliche, una occasione di
riflettere sul senso profondo di quegli avvenimenti,su quello che furono, ma
anche avrebbero potuto essere. Un'occasione di andare oltre il mito, che, lo
sappiamo bene, è fondamentale nella formazione di una identità collettiva, ma
che se si cristallizza in luoghi comuni rassicuranti rischia di perdere la sua
carica propulsiva.
"Eravamo partiti che volevamo
la rivoluzione mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione in Italia,
e poi di alcune riforme, e poi di partecipare al Governo, e poi di non esserne
cacciati. Eccoci ormai sulla difensiva: domani saremo ridotti a combattere per
l'esistenza di un partito, e poi magari di un gruppo o di un gruppetto, e poi,
chissà, forse per le nostre persone, per il nostro onore e la nostra anima:
cose sempre più piccole e più lontane, e un'astratta passione, sempre
uguale".
Difficile trovare una riflessione
più amara e più lucida di questa che Carlo Levi, ex partigiano ed ex dirigente
del Partito d'Azione, tira nel 1950 nel suo romanzo L'orologio, resoconto realistico e assai poco romanzato della sua
esperienza politica di rivoluzionario giacobino nella Roma del 1945-46, al
momento della caduta del governo Parri e delle prime manifestazioni di quello
spirito di normalizzazione che avrebbe portato alla restaurazione del vecchio
apparato statale monarchico-fascista, alla riabilitazione dei suoi funzionari
di polizia, dei suoi giudici e dei suoi generali criminali di guerra in Etiopia
e nei Balcani.
Dunque, la Resistenza come
rivoluzione mancata, ma non, intendiamoci subito, nel senso romantico e del
tutto immaginario che gli attribuivamo da ventenni nel 1968. Parliamo di una
rivoluzione non politica, ma civile, che poteva esserci, che doveva esserci e
non ci fu. Di un cambiamento radicale del Paese, del suo modo di pensare, a
partire dai rapporti dello Stato con i cittadini. E non ci si venga a parlare
della Costituzione, che sarà pure come qualcuno dice la più bella del mondo, ma
che fu fin da subito viziata da quell'articolo 7 che, recependo i Patti
Lateranensi, manteneva (e per certi versi pure rafforzava) il carattere
confessionale di una Repubblica che avrebbe dovuto prima di tutto essere
integralmente e radicalmente laica. Una Costituzione che per iniziare ad essere
applicata concretamente dovette attendere per vent'anni una nuova grande ondata
di lotte popolari che imponesse al potere con la forza dei gesti e non la
retorica delle parole di prendere sul serio il diritto costituzionale al
lavoro, all'istruzione, alla salute, alla casa. Diritti tanto proclamati quanto
inapplicati a vantaggio di un sistema che sul basso costo del lavoro e la
mancanza di tutele sociali aveva fondato prima la ricostruzione e poi il boom
economico.
Una rivoluzione che guardasse più a
Mazzini, il grande sconfitto del Risorgimento, che a Stalin. Una iniezione di
etica in un paese che non aveva vissuto, a differenza della parte più avanzata
d'Europa, né una vera rivoluzione borghese, né la Riforma protestante. Insomma,
un paese dove il senso dell'appartenenza manteneva allora (e ancora largamente
mantiene oggi) l'aspetto sordido della consorteria o del familismo, dove il
"mi manda Picone" è la parola d'ordine che apre tutte le porte e
l'idea di una società civile fondata sulla partecipazione collettiva e una
cittadinanza attiva, fatta di diritti e doveri, rischia di restare mera
retorica o aspirazione da "anime belle".
La Resistenza avrebbe potuto essere
questo tipo di rivoluzione, ma non lo fu. Gli Azionisti, i soli a crederci
davvero, sparirono subito dalla scena politica. Gli altri si accontentarono di
sedersi al tavolo del governo, rimandando a un domani indefinito cambiamenti
che allora il vento partigiano che soffiava dal Nord rendeva possibili: la
compartecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, una autentica
riforma agraria al Sud, la sburocratizzazione dello Stato, una epurazione
radicale, la religione ricondotta alla sua natura di fatto interiore, un forte
decentramento che valorizzasse le autonomie locali. Già nel 1947, con
l'estromissione delle sinistre dal governo, era chiaro che quel domani non ci
sarebbe più stato.
Di nuovo ci troviamo oggi di fronte
ad una grande sfida. La crisi sanitaria rischia di trasformarsi in una crisi
economica ancora più devastante di quella del 1929 che, non va dimenticato,
condusse alle barbarie del nazismo e alla tragedia immane della seconda guerra
mondiale. È evidente a chiunque rifletta sul presente che della crisi di una
civiltà si tratta. Stiamo assistendo al declino probabilmente irreversibile di
un modello sociale, fondato sulla produzione di beni di massa spesso inutili se
non nocivi, la distruzione dell'ambiente, l'esaurimento delle risorse naturali.
Come ne usciremo? A livello individuale ha ragione chi sostiene che, come
sempre nelle situazioni di crisi, i migliori ne usciranno migliori e i peggiori
peggiori. Lo si vede già oggi, nel modo di reagire alle limitazioni imposte
dalla situazione. All'eroismo quotidiano del personale sanitario, all'impegno
del volontariato e al senso civico di molti, si affiancano gli egoismi di
tanti, per non parlare delle furberie di chi prova comunque a lucrarci su ,
dalla vendita a peso d'oro delle mascherine alla richiesta di contributi pur
non avendone necessità.
Il problema è allora di capire come
se ne uscirà a livello Paese. E proprio in questo ci pare essenziale la
rimeditazione della Resistenza come occasione, allora mancata, di
trasformazione radicale della società, come grande riforma prima di tutto della
moralità di un popolo. In quest'ottica ci piace pensare ai medici come a nuovi
partigiani, combattenti in prima linea per un'Italia migliore, più solidale,
più inclusiva, più ecologica. Un'ecologia della mente, come già vent'anni fa
profetizzava Bateson, capace di superare la frammentazione crescente di un
mondo ormai fuori controllo. Sta a ciascuno di noi impedire che di nuovo questa
Resistenza sia tradita, che di nuovo si debba parlare di occasione mancata.
Giorgio Amico http://cedocsv.blogspot.com/
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