06 aprile 2020

SCIASCIA E LA CULTURA POPOLARE SICILIANA



Leonardo Sciascia: il rapporto con il territorio
di Marina Castiglione

La fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta sono contrassegnati da un intenso dibattito legato alla cosiddetta ‘morte dei dialetti’, ma anche alla ‘morte’ della cultura popolare e ciò anima, almeno tra gli intellettuali più sensibili, un sentimento diffuso di perdita di un mondo che all’improvviso deve essere preservato, custodito, raccolto, musealizzato, difeso dalla tecnologia e dall’omologazione degli stili di vita. Alcune discipline umanistiche si fanno carico di questo recupero, in particolare le discipline etno-antropologiche e quelle linguistiche, la dialettologia in primis. Leonardo Sciascia – sin dagli esordi – sembra non poter fare a meno di staccarsi dalla sua Racalmuto che diventa paradigma esistenziale universale e, non a caso, introduce il Congresso palermitano I Mestieri. Organizzazione Tecniche Linguaggi (26-29 marzo 1980) scrivendo: «negli anni della mia infanzia, in un piccolo paese, tante parole erano cose; e tante delle cose che erano parole s’appartenevano ai mestieri».
Un addio dolente a quel connubio di materia e suono, di funzione e definizione, di valore-uso e valore-segno che aveva contrassegnato secoli di storia della Sicilia e di tutte le civiltà tradizionali. Dunque, in particolare in Sicilia, si creò un fermento culturale e politico concretamente proiettato a intercettare, in un momento di passaggio epocale, i segni viventi o agonizzanti di una millenaria stagione di processi produttivi, di sistemi linguistici, di rapporti comunitari. Lo scrittore racalmutese non aveva mai mancato di costruire i suoi testi a partire da fatti e comportamenti antropologicamente connotati. Nella sua prima opera teatrale, ad esempio, L’onorevole (1965), si confrontano due visioni opposte: quella del contadino che chiede una legge a supporto della vendita del grano duro e quella dell’onorevole che, infastidito, modifica un piano regolatore per interesse di una consorteria paramafiosa. Nel 1971 ripubblica per la Sellerio e introduce (e forse ordina) i centosei Mimi siciliani di Francesco Lanza, piccole gemme di saperi e stereotipi.
Non stupisce, dunque, che anche la più avvertita editoria contribuisca attivamente a focalizzare questo scollamento sempre più accelerato che ha i suoi prodromi nel dopoguerra: la casa editrice Sellerio affida appunto al suo intellettuale e scrittore di punta, Leonardo Sciascia, la ricostruzione e lettura del mondo che fu, assegnandogli la collana «La Memoria».
Esce nel 1982 Kermesse (in parte ripreso in Occhio di capra due anni dopo) e lo stesso Sciascia, nel risvolto di copertina, collegò questo titolo alla narrazione della vita popolare della sua Racalmuto, via Regalpetra: «poiché “kermesse” è, nei Paesi Bassi e nel settentrione della Francia, la festa della parrocchia». La parrocchia viene narrata da Sciascia attraverso 65 brevi paragrafetti organizzati in ordine alfabetico e titolati con modi di dire, proverbi, voci dialettali, soprannomi, così da ripercorrere a ritroso una narrazione antropologica e, insieme, filologica del tempo passato. Uno di questi modi di dire rimanda alla cultura zolfifera e, in qualche modo, alla sua inamovibilità:
IU SURFARU SUGNU. Nel senso io non mi muovo, sono pesante come zolfo. All’origine del detto è un mimo. A un carrettiere che trasportava zolfo dalla miniera a Porto Empedocle, un contadino chiede un passaggio. Per fargli posto sul carretto e a che il mulo non tiri un peso più grave del solito, il carrettiere butta giù tre o quattro «balate» (forma a piramide tronca del peso di una ventina di chili ciascuna). Ma ad un certo punto, in salita, il mulo non ce la fa. Il carrettiere scende e dice al contadino di fare altrettanto. Ma il contadino, tranquillamente: «iu surfaru sugnu», io viaggio al posto dello zolfo. È da presumere avesse pagato il passaggio, ché il carrettiere (violenti e rissosi erano i carrettieri) lo avrebbero preso a «zuttati» («zotta» era la frusta, di cordicella intrecciata e infiocchettata). Si dice «iu surfaru sugnu» in senso fisico quando non ci si vuole scomodare; in senso morale quando non si vuol dare opinione su un dato argomento, specie se controverso e rischioso.
A volere cercare un interesse prevalente, del mondo della sua infanzia sembrano attirarlo antichi detti sapienziali e campanilismi antichi ma innocui. Gli scontri tra ‘parrocchie’ limitrofe, registrati attraverso lo strumento del blasone popolare, alimentano le identità e le alterità e costituiscono la sintesi onomastica di conflittualità legate a stereotipie prevedibili (ricchi vs poveri; evoluti vs arretrati; onesti vs disonesti). A essere immortalati sulla pagina letteraria sono, ovviamente, i comuni limitrofi a Racalmuto, Favara, Grotte, Naro, Bompensiere (Naduri).
FAVARISI. Favaresi. Di Favara, grosso paese a circa venti chilometri da Racalmuto. Si dice: «Favarisi, tutti ‘mpisi» (favaresi, tutti da impiccare). E meno si allude alla mafia, che vi è endemica e prospera, e più alle faide tra famiglie, continue ed atroci fino a pochi anni addietro.
NADURISI. Col nome di Naduri (certamente arabo) i racalmutesi hanno sempre chiamato Bompensiere, piccolo paese in provincia di Caltanissetta e distante una diecina di chilometri da Racalmuto. Nadurisi, quindi, gli abitanti. Venire dal Naduri era come venire da una sperduta contrada di campagna: essere dunque zotici e sprovveduti.
Tra le voci che risuonano tra le pagine di Kermesse e che oggi ci stupiscono per la profezia (quasi) auto-avverata, va ricordata quella della nonna di Sciascia, in cui si abbinano straordinariamente il destino dell’asino e quello del nipote di cui non poteva conoscere la futura carriera, ma di cui prevedeva la tendenza al contraddittorio, determinata dal profondo senso di giustizia e di vocazione civile:
LU SCECCU ZUOPPU SI GODI LA VIA / LA MEGLIU GIOVINTÙ A LA VICARIA. L’asino zoppo si gode il cammino / la meglio gioventù finisce alla Vicaria (la prigione palermitana d’epoca borbonica). Questo distico ammonitore generazioni di giovani se lo sono sentito ripetere dai genitori, dai nonni, dagli zii, dagli amici di famiglia e dagli insegnanti: a raccomandazione di prudenza nei riguardi del governo, della polizia, della religione e di chiunque avesse autorità. A me lo ripeteva la mia nonna materna, negli ultimi anni del fascismo. Non sono finito alla Vicaria (che sarebbe stata la Vicaria Nuova, e cioè il carcere dell’Ucciardone); ma non è detta l’ultima parola, in fatto di governo, di polizie e di religioni che non tollerano dissenso.
E, a proposito, di previsioni future, Leonardo Sciascia registra un proverbio che i contadini racalmutesi, abituati a messi annuali, rivolgevano alla coltivazione dell’olivo, albero amato ma raramente piantato per la lentezza della crescita “non a misura di vita umana”, e che aveva perciò a che fare più con la fede, che con la perizia ergologica. Da ciò il proverbio «ci voli fidi puru a chiantari un pedi d’auliva» (ci vuole fede anche a piantare un ulivo). Persino un testo come l’Affaire Moro non prescinde da questo contatto con il territorio e con la memoria e si apre con un maestoso incipit che riconduce alle poetiche “cannileddi di picuraru”, quelle lucciole che anche Pasolini aveva considerato metafora di un mondo scomparso, e alle mura in gesso delle case, luccicanti e materiche:
"Ieri sera per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola. Non ne vedevo, in questa campagna, da almeno quarant’anni: e perciò credetti dapprima si trattasse di uno schisto del gesso con cui erano state murate le pietre o di una scaglia di specchio; e che la luce della luna, ricamandosi tra le fronde, ne traesse quei riflessi verdastri. Non potevo subito pensare a un ritorno delle lucciole, dopo tanti anni che erano scomparse. Erano ormai un ricordo: dell’infanzia allora attenta alle piccole cose della natura che di quelle cose sapeva fare giuoco e gioia. Le lucciole le chiamavamo cannileddi di picuraru, così i contadini le chiamavano. Tanto consideravano greve la vita del pecoraio, le notti passate a guardia della mandria, che gli largivano le lucciole come reliquia o memoria di luce nella paurosa oscurità. Paurosa per gli abigeati frequenti. Paurosa perché bambini erano di solito quelli che si lasciavano a guardia delle pecore. Le candeline del pecoraio dunque. E ogni tanto ne prendevamo qualcuna, la tenevamo delicatamente chiusa nel pugno per poi aprirne a sorpresa, tra i più piccoli di noi, quella fosforescenza smeraldina. Era proprio una lucciola, nella crepa del muro. Ne ebbi una gioia intensa. E come doppia. E come sdoppiata. La gioia di un tempo ritrovato l’infanzia, i ricordi, questo stesso luogo ora silenzioso pieno di voci e di giuochi – e di un tempo da trovare, da inventare."




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