18 aprile 2020

PANDEMIA LINGUISTICA: LE PAROLE CHE INFETTANO






Le parole che infettano: il virus e la pandemia linguistica
di Armando Vertorano

Lo scorso 11 marzo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato ufficialmente lo stato di pandemia. Già da qualche giorno si paventava tale possibilità, anche se il termine veniva ancora usato con discrezione, quasi come una parola tabù, una lemma/vaso di pandora che non andava rilasciato, per non scatenare tutti i mali sociali possibili.
E invece l’11 di marzo il vaso è stato aperto, la pandemia è entrata in pompa magna nel nostro linguaggio quotidiano, apportando un vero e proprio turning-point percettivo.
Prima di quella parola, la situazione ci sembrava ancora contenibile, da quel giorno invece nessuno ha più avuto dubbi sulla serietà del problema. Gli eventi si sarebbero ben presto aggravati, ma basta un piccolo sforzo di memoria per ricordare che tra il 10 e l’11 marzo non ci furono differenze epocali, in termini di numeri. È stato il cambio del significante, il passaggio dall’epidemia alla straordinaria pandemia, ad acutizzare in un attimo il problema nelle nostre teste.
La parola è dunque entrata in circolo e ci ha “infettati”, alla stregua di un virus, ha condizionato i nostri comportamenti e le nostre idee con una capacità di diffusione e di contagio ben superiore al morbo che le fa da significato.
Insomma: se il Coronavirus ha risparmiato milioni di persone, il virus lessicale è stato decisamente più impietoso.
Quel maledetto 11 marzo l’epidemia linguistica ha toccato il picco (ben prima di quel picco che tutti abbiamo atteso per giorni), ma il suo percorso è stato parallelo a quello dell’influenza, altrettanto graduale e inesorabile. A dare inizio al tutto, il “lemma zero”, è stato lo stesso Coronavirus, in giro da fine gennaio. Come ogni neologismo è stato accolto in prima battuta come un qualcosa di esotico, ancor più per la provenienza dal lontano Oriente. Pur se già sulla bocca di chiunque, non era ancora riuscito a penetrare del tutto. A parte i pochi germofobici e catastrofisti, per la stragrande maggioranza degli italiani era ancora un problema lontano, semmai l’occasione per tirare fuori un nuovo razzismo anticinese, ma nulla più. A distrarre ulteriormente la comunità è arrivato poi Sanremo coi suoi pronostici e i suoi dissidi Bugo-Morgan.
Ma le infezioni non le fermi certo con qualche canzonetta, e mentre il virus come un carrarmatino del Risiko si avvicinava sempre di più alle nostre roccaforti, anche le parole ad esso correlatesi sono fatte strada, lasciando stavolta tracce ben più profonde. Quando il coronavirus è arrivato a Codogno, i malati registrati in Italia erano ancora pochi, ma l’infezione linguistica aveva già preso piede in tutto il Paese, anche a causa di un giornalismo martellante, pronto a cavalcare l’allarme, quasi incredulo che per una volta stesse davvero toccando a noi. Il virus lessicale si è allora moltiplicato rapidamente, la parola coronavirus non bastava più, e a darle man forte sono esplosi nel linguaggio comune una serie di termini di ambiente medico, parole come focolaio, asintomatico, e intubato. La stessa coronavirus è spesso sostituita dalla più pratica, ma più tecnica, covid.
A tal riguardo il linguista Luca Serianni – intervistato in una puntata del programma La lingua batte di Radio Tre – ha parlato di come i termini tecnici della medicina restino oscuri per noi comuni cittadini fino a quando una malattia non ci colpisce da vicino: solo allora li impariamo e li usiamo perché ne cogliamo a pieno la loro efficacia, la loro chiarezza.
Il coronavirus sembra aver sfruttato a pieno tale capacità di penetrazione, radicandosi a tal punto nelle nostre conversazioni di quartiere che già da metà febbraio pareva impossibile parlare d’altro, mentre i passanti in mascherina aumentavano a vista d’occhio, e i mezzi pubblici si svuotavano. Tutto questo quando, fuori dalla zona Rossa, la prima, quella limitata al Nord Italia, il numero di malati era molto vicino allo zero.
Accanto all’introduzione di neologismi e termini tecnici, si è verificato anche un fenomeno di “cambio di significante” su significati e concetti piuttosto comuni: gli ingressi al supermercato non sono più scaglionati ma contingentati, gli oggetti non si disinfettano ma si sanificano, non ci si chiude in casa ma si entra in quarantena, o per gli amanti degli anglicismi in lockdown.
Con il crescere dell’allarme, l’invasione è andata sempre più fuori controllo, e mentre termini come autocertificazione uscivano dalle polveri del burocratese, alle singole parole hanno cominciato ad affiancarsi dei sintagmi composti come servizi-di-prima-necessità e malattie-pregresse, elementi linguistici che hanno trovato terreno fertile in una società preoccupata, spaventata, reclusa, stanca, annoiata e soprattutto affamata di contenuti.
Ecco: a proposito di contenuti, da un punto di vista culturale c’è sempre stata la tendenza ad associare un valore positivo al potere del linguaggio, alla forza delle parole. La comunicazione in sé è sempre vista come qualcosa che unisce. Anche quando si dice che alcune parole fanno male o che ne ferisce più la lingua che la spada in realtà ci si riferisce ai significati di quelle parole e non ai significanti. Romanzi, film, serie tv, testi di canzoni veleggiano da sempre in tal senso: i segni con cui si trasmettono messaggi, sono una cosa buona. Difficile pensarli a qualcosa che condiziona, che infetta.
Eppure qualche eccezione c’è stata. A saltare subito alla mente sono due opere, un romanzo e un film, entrambe piuttosto peculiari e – com’è facile immaginare – lontane dal mainstream.
Il romanzo è L’alfabeto di fuoco (2018), dello scrittore americano Ben Marcus, pubblicato in Italia da Black Coffee.
In una società straniante e asettica, priva di riferimenti geografici e temporali, i cittadini adulti sono minacciati da un morbo misterioso e letale. La malattia non ha un nome, ma di certo si sa che a diffonderla sono i bambini e gli adolescenti. E non con tosse o starnuti, ma attraverso le parole. Le parole dei figli infettano inesorabilmente i padri e le madri. Il protagonista è un uomo piuttosto comune che è stato contagiato dalle cose “gentili, cattive, stupide” dette da sua figlia adolescente. Il libro descrive gli effetti della malattia: deperimento, letargia, chiazze rosse sul corpo. Descrive le vittime come corpi prosciugati, dissalati. Quando l’epidemia diventa incontrollabile gli adulti vengono internati in strane strutture, mentre il mondo libero resta nelle mani degli immuni bambini, di cui a parte qualche immagine rubata, nessuno sa più nulla.
Uno degli aspetti più interessanti di questo romanzo, dalle molteplici chiavi di lettura, è l’attenzione che esso pone sul significante a dispetto del significato. Non è importante quello che i ragazzi dicono, perché la malattia viaggia attraverso la lingua in quanto codice. In uno dei momenti più paradossali il protagonista partecipa a un grottesco lavoro di ricerca, in cui sperimenta nuove forme di scrittura nel tentativo di trovarne una innocua al 100%, e per farlo prova diversi supporti, diversi materiali, scrive, incide, cancella, codifica, ricodifica, cripta, un lavoro lungo ed estenuante che non porterà ad alcun risultato. Il linguaggio non può mai essere del tutto inoffensivo, sembra volerci dire Ben Marcus, in questa specie di anti-fiaba weird e apocalittica.
Non contento di questa provocazione già di per sé piuttosto estrema, Marcus getta altra benzina sul fuoco e collega la patologia linguistica a una delle religioni più legate all’aspetto meramente fonico del linguaggio, l’ebraismo. I portatori sani del morbo sono infatti bambini e ragazzi ebrei, come ebreo è il protagonista. Ma si tratta di un ebraismo grottesco, rintanato nella sua dimensione privata al punto da poter essere pregato solo di nascosto, all’interno di capanni dall’ubicazione segreta, al cui interno sono presenti, sepolti, piccoli altoparlanti radio che trasmettono le prediche di un rabbino di cui non si conosce la vera identità. Parole di fede costrette a fluire in segreto, inafferrabili come Dio, pronunciate da una presenza dubbia, immateriale, prive di un conforto oggettivo. Una religione meccanica che però non può fare a meno del suono, un suono nascosto in un mondo di parole assassine.
L’idea del linguaggio veicolo d’infezione era apparsa anche nove anni prima nel film Pontypool – Zitto o muori (2009) di Bruce McDonald, tratto dal romanzo Pontypool changes everything di Tony Burgess. Un film indipendente, a basso costo, che gioca e talvolta irride le dinamiche dello zombie-movie. Il titolo si riferisce a una cittadina canadese in cui lavora il protagonista Grant Mazzy, uno speaker radiofonico.
Dal suo scalcagnato studio segue l’estendersi di una serie di omicidi a catena causati, a quanto pare, da una strana malattia che rende le persone folli e violente. Restando nella sua postazione, aiutato dai suoi assistenti, Mazzy scopre che la causa è un virus capace di diffondersi attraverso alcune parole della lingua inglese. Non tutte però, solamente alcune. Inutile dire che la stazione radio, un mezzo che oltre alla musica non ha altro strumento che il linguaggio, finirà per essere attaccata da un’orda di contagiati impazziti.
Pur avendo un’impostazione decisamente meno impegnativa di un romanzo come L’alfabeto di fuoco, questo film offre alcuni spunti interessanti sul potere dei segni linguistici. Verso la fine ad esempio il protagonista riesce a frenare l’avanzare dei sintomi della sua collaboratrice convincendola che la parola infettiva “kill”, uccidere, significa in realtà “kiss”, bacio. Staccando il significante dal significato,manda il codice linguistico in corto circuito, in questo modo il segno non è più operativo e i sintomi del virus regrediscono. Il non-senso allora diventa una specie di cura, o almeno un palliativo, in un mondo reso folle dalla logica e dalla stringente corrispondenza tra etichetta e contenuto.
Torniamo ora allo scenario che ci si presenta in questi giorni, fatto di luci accese alle finestre, di strade vuote, di bollettini delle 18, quasi una versione postmoderna de La peste di Camus, e proviamo a sovrapporlo alle chiavi di lettura proposte, anni prima del Coronavirus, da due opere diversissime come L’alfabeto di fuoco e Pontypool. Appare chiaramente quante e quali convinzioni ormai comuni siano in buona parte conseguenza del condizionamento linguistico. Le parole sono arrivate anche laddove la malattia non è giunta, e talvolta con le cattive (terapia-intensiva, saturimetro, ecc.) talvolta con le buone (gli hashtag che trasformano un semplice costrutto in un’unica parola/concetto, i vari #andràtuttobene e #iorestoacasa, privi di spazi, privi di interpretazioni alternative) la lingua del virus ha contribuito a farci accettare il lockdown più del timore delle multe, più delle immagini trasmesse dai telegiornali. Grazie ad essa abbiamo trasformato in abitudine una serie di misure e di restrizioni che – pur essendo nate allo scopo di preservare la salute dei cittadini – sono piuttosto pesanti per una generazione viziata come la nostra.
La questione ancora aperta è: il contagio delle parole ha dunque un aspetto positivo, dal momento che riesce a far rispettare le regole di contenimento (pur con le molte eccezioni di asintomatici ribelli), o è pericoloso perché ci rende docili di fronte ai limiti imposti alle nostre libertà?
E ancora, parafrasando Shakespeare: se quella che chiamiamo pandemia avesse un altro nome, causerebbe lo stesso allarme?
Forse, quando saremo tutti guariti, riusciremo a trovare una risposta.

Pezzo ripreso da: minima&moralia pubblicato sabato, 18 aprile 2020
Photo by alex bracken on Unsplash










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