Le parole che infettano: il virus e la pandemia
linguistica
di Armando Vertorano
Lo scorso 11 marzo l’Organizzazione
Mondiale della Sanità ha dichiarato ufficialmente lo stato di pandemia.
Già da qualche giorno si paventava tale possibilità, anche se il termine veniva
ancora usato con discrezione, quasi come una parola tabù, una lemma/vaso di
pandora che non andava rilasciato, per non scatenare tutti i mali sociali
possibili.
E invece l’11 di marzo il vaso è
stato aperto, la pandemia è entrata in pompa magna nel nostro linguaggio
quotidiano, apportando un vero e proprio turning-point percettivo.
Prima di quella parola, la
situazione ci sembrava ancora contenibile, da quel giorno invece nessuno ha più
avuto dubbi sulla serietà del problema. Gli eventi si sarebbero ben presto
aggravati, ma basta un piccolo sforzo di memoria per ricordare che tra il 10 e
l’11 marzo non ci furono differenze epocali, in termini di numeri. È stato il
cambio del significante, il passaggio dall’epidemia alla straordinaria pandemia,
ad acutizzare in un attimo il problema nelle nostre teste.
La parola è dunque entrata in
circolo e ci ha “infettati”, alla stregua di un virus, ha condizionato i nostri
comportamenti e le nostre idee con una capacità di diffusione e di contagio ben
superiore al morbo che le fa da significato.
Insomma: se il Coronavirus ha
risparmiato milioni di persone, il virus lessicale è stato decisamente più
impietoso.
Quel maledetto 11 marzo l’epidemia
linguistica ha toccato il picco (ben prima di quel picco che tutti abbiamo
atteso per giorni), ma il suo percorso è stato parallelo a quello
dell’influenza, altrettanto graduale e inesorabile. A dare inizio al tutto, il
“lemma zero”, è stato lo stesso Coronavirus, in giro da fine gennaio.
Come ogni neologismo è stato accolto in prima battuta come un qualcosa di
esotico, ancor più per la provenienza dal lontano Oriente. Pur se già sulla
bocca di chiunque, non era ancora riuscito a penetrare del tutto. A parte i
pochi germofobici e catastrofisti, per la stragrande maggioranza degli italiani
era ancora un problema lontano, semmai l’occasione per tirare fuori un nuovo
razzismo anticinese, ma nulla più. A distrarre ulteriormente la comunità è
arrivato poi Sanremo coi suoi pronostici e i suoi dissidi Bugo-Morgan.
Ma le infezioni non le fermi certo
con qualche canzonetta, e mentre il virus come un carrarmatino del Risiko
si avvicinava sempre di più alle nostre roccaforti, anche le parole ad esso
correlatesi sono fatte strada, lasciando stavolta tracce ben più profonde.
Quando il coronavirus è arrivato a Codogno, i malati registrati in Italia erano
ancora pochi, ma l’infezione linguistica aveva già preso piede in tutto il
Paese, anche a causa di un giornalismo martellante, pronto a cavalcare
l’allarme, quasi incredulo che per una volta stesse davvero toccando a noi. Il
virus lessicale si è allora moltiplicato rapidamente, la parola coronavirus non
bastava più, e a darle man forte sono esplosi nel linguaggio
comune una serie di termini di ambiente medico, parole come focolaio,
asintomatico, e intubato. La stessa coronavirus è
spesso sostituita dalla più pratica, ma più tecnica, covid.
A tal riguardo il
linguista Luca Serianni – intervistato in una puntata del programma La
lingua batte di Radio Tre – ha parlato di come i termini tecnici della
medicina restino oscuri per noi comuni cittadini fino a quando una malattia non
ci colpisce da vicino: solo allora li impariamo e li usiamo perché ne cogliamo
a pieno la loro efficacia, la loro chiarezza.
Il coronavirus sembra aver sfruttato
a pieno tale capacità di penetrazione, radicandosi a tal punto nelle nostre
conversazioni di quartiere che già da metà febbraio pareva impossibile parlare
d’altro, mentre i passanti in mascherina aumentavano a vista d’occhio, e i
mezzi pubblici si svuotavano. Tutto questo quando, fuori dalla zona Rossa, la
prima, quella limitata al Nord Italia, il numero di malati era molto vicino
allo zero.
Accanto all’introduzione di
neologismi e termini tecnici, si è verificato anche un fenomeno di “cambio di
significante” su significati e concetti piuttosto comuni: gli ingressi al
supermercato non sono più scaglionati ma contingentati, gli oggetti non
si disinfettano ma si sanificano, non ci si chiude in casa ma si entra
in quarantena, o per gli amanti degli anglicismi in lockdown.
Con il crescere dell’allarme,
l’invasione è andata sempre più fuori controllo, e mentre termini come autocertificazione
uscivano dalle polveri del burocratese, alle singole parole hanno cominciato ad
affiancarsi dei sintagmi composti come servizi-di-prima-necessità e malattie-pregresse,
elementi linguistici che hanno trovato terreno fertile in una società
preoccupata, spaventata, reclusa, stanca, annoiata e soprattutto affamata di
contenuti.
Ecco: a proposito di contenuti,
da un punto di vista culturale c’è sempre stata la tendenza ad associare un
valore positivo al potere del linguaggio, alla forza delle parole. La
comunicazione in sé è sempre vista come qualcosa che unisce. Anche quando si
dice che alcune parole fanno male o che ne ferisce più la lingua che la spada
in realtà ci si riferisce ai significati di quelle parole e non ai
significanti. Romanzi, film, serie tv, testi di canzoni veleggiano da sempre in
tal senso: i segni con cui si trasmettono messaggi, sono una cosa buona.
Difficile pensarli a qualcosa che condiziona, che infetta.
Eppure qualche eccezione c’è stata.
A saltare subito alla mente sono due opere, un romanzo e un film, entrambe
piuttosto peculiari e – com’è facile immaginare – lontane dal mainstream.
Il romanzo è L’alfabeto di fuoco (2018),
dello scrittore americano Ben Marcus, pubblicato in Italia da Black Coffee.
In una società straniante e
asettica, priva di riferimenti geografici e temporali, i cittadini adulti sono
minacciati da un morbo misterioso e letale. La malattia non ha un nome, ma di
certo si sa che a diffonderla sono i bambini e gli adolescenti. E non con tosse
o starnuti, ma attraverso le parole. Le parole dei figli infettano
inesorabilmente i padri e le madri. Il protagonista è un uomo piuttosto comune
che è stato contagiato dalle cose “gentili, cattive, stupide” dette da sua
figlia adolescente. Il libro descrive gli effetti della malattia: deperimento,
letargia, chiazze rosse sul corpo. Descrive le vittime come corpi prosciugati,
dissalati. Quando l’epidemia diventa incontrollabile gli adulti vengono
internati in strane strutture, mentre il mondo libero resta nelle mani degli
immuni bambini, di cui a parte qualche immagine rubata, nessuno sa più nulla.
Uno degli aspetti più interessanti
di questo romanzo, dalle molteplici chiavi di lettura, è l’attenzione che esso
pone sul significante a dispetto del significato. Non è importante quello che i
ragazzi dicono, perché la malattia viaggia attraverso la lingua in quanto
codice. In uno dei momenti più paradossali il protagonista partecipa a un
grottesco lavoro di ricerca, in cui sperimenta nuove forme di scrittura nel
tentativo di trovarne una innocua al 100%, e per farlo prova diversi supporti,
diversi materiali, scrive, incide, cancella, codifica, ricodifica, cripta, un
lavoro lungo ed estenuante che non porterà ad alcun risultato. Il linguaggio
non può mai essere del tutto inoffensivo, sembra volerci dire Ben Marcus, in
questa specie di anti-fiaba weird e apocalittica.
Non contento di questa provocazione
già di per sé piuttosto estrema, Marcus getta altra benzina sul fuoco e collega
la patologia linguistica a una delle religioni più legate all’aspetto meramente
fonico del linguaggio, l’ebraismo. I portatori sani del morbo sono infatti
bambini e ragazzi ebrei, come ebreo è il protagonista. Ma si tratta di un
ebraismo grottesco, rintanato nella sua dimensione privata al punto da poter
essere pregato solo di nascosto, all’interno di capanni dall’ubicazione
segreta, al cui interno sono presenti, sepolti, piccoli altoparlanti radio che
trasmettono le prediche di un rabbino di cui non si conosce la vera identità.
Parole di fede costrette a fluire in segreto, inafferrabili come Dio,
pronunciate da una presenza dubbia, immateriale, prive di un conforto
oggettivo. Una religione meccanica che però non può fare a meno del suono, un
suono nascosto in un mondo di parole assassine.
L’idea del linguaggio veicolo
d’infezione era apparsa anche nove anni prima nel film Pontypool – Zitto o
muori (2009) di Bruce McDonald, tratto dal romanzo Pontypool changes
everything di Tony Burgess. Un film indipendente, a basso costo, che gioca
e talvolta irride le dinamiche dello zombie-movie. Il titolo si riferisce a una
cittadina canadese in cui lavora il protagonista Grant Mazzy, uno speaker
radiofonico.
Dal suo scalcagnato studio segue
l’estendersi di una serie di omicidi a catena causati, a quanto pare, da una
strana malattia che rende le persone folli e violente. Restando nella sua
postazione, aiutato dai suoi assistenti, Mazzy scopre che la causa è un virus
capace di diffondersi attraverso alcune parole della lingua inglese. Non tutte
però, solamente alcune. Inutile dire che la stazione radio, un mezzo che oltre
alla musica non ha altro strumento che il linguaggio, finirà per essere
attaccata da un’orda di contagiati impazziti.
Pur avendo un’impostazione
decisamente meno impegnativa di un romanzo come L’alfabeto di fuoco,
questo film offre alcuni spunti interessanti sul potere dei segni linguistici.
Verso la fine ad esempio il protagonista riesce a frenare l’avanzare dei
sintomi della sua collaboratrice convincendola che la parola infettiva “kill”,
uccidere, significa in realtà “kiss”, bacio. Staccando il significante dal
significato,manda il codice linguistico in corto circuito, in questo modo il
segno non è più operativo e i sintomi del virus regrediscono. Il non-senso
allora diventa una specie di cura, o almeno un palliativo, in un mondo reso
folle dalla logica e dalla stringente corrispondenza tra etichetta e contenuto.
Torniamo ora allo scenario che ci si
presenta in questi giorni, fatto di luci accese alle finestre, di strade vuote,
di bollettini delle 18, quasi una versione postmoderna de La peste di
Camus, e proviamo a sovrapporlo alle chiavi di lettura proposte, anni prima del
Coronavirus, da due opere diversissime come L’alfabeto di fuoco e Pontypool.
Appare chiaramente quante e quali convinzioni ormai comuni siano in buona parte
conseguenza del condizionamento linguistico. Le parole sono arrivate anche
laddove la malattia non è giunta, e talvolta con le cattive (terapia-intensiva,
saturimetro, ecc.) talvolta con le buone (gli hashtag che trasformano un
semplice costrutto in un’unica parola/concetto, i vari #andràtuttobene e
#iorestoacasa, privi di spazi, privi di interpretazioni alternative) la
lingua del virus ha contribuito a farci accettare il lockdown più del timore
delle multe, più delle immagini trasmesse dai telegiornali. Grazie ad essa
abbiamo trasformato in abitudine una serie di misure e di restrizioni che – pur
essendo nate allo scopo di preservare la salute dei cittadini – sono piuttosto
pesanti per una generazione viziata come la nostra.
La questione ancora aperta è: il
contagio delle parole ha dunque un aspetto positivo, dal momento che riesce a
far rispettare le regole di contenimento (pur con le molte eccezioni di
asintomatici ribelli), o è pericoloso perché ci rende docili di fronte ai
limiti imposti alle nostre libertà?
E ancora, parafrasando Shakespeare:
se quella che chiamiamo pandemia avesse un altro nome, causerebbe lo
stesso allarme?
Forse, quando saremo tutti guariti,
riusciremo a trovare una risposta.
Photo by alex bracken on Unsplash
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