Riprendiamo
dal sito http://www.leparoleelecose.it/?p=42460
la lectio magistralis tenuta al Teatro Litta di Milano il 26
settembre in occasione della premiazione del premio Franco Fortini,
assegnato per questa edizione all’opera Noi di
Laura Pugno (Amos Edizioni)
GUERRA
E TEMPO NELLA POESIA DI FORTINI
di
Bernardo De Luca
I
rapporti tra guerra e letteratura sono stati centrali nella
riflessione novecentesca, fino a mettere in dubbio la legittimità
della letteratura stessa, e in particolare della poesia, di fronte
alla barbarie. Successivamente, sono state indagate, con strumenti
critici diversi, le conseguenze effettive che la guerra ha avuto
sulle forme della scrittura. Nell’ambito della poesia italiana, è
certamente la Prima guerra mondiale a rappresentare uno spartiacque.
Sarebbe, ad esempio, difficilmente immaginabile un lavoro come quello
di Andrea Cortellessa, l’antologia Le
notti chiare erano tutte un’alba,[1] per
la Seconda guerra mondiale. A mente fredda, verrebbe da pensare che i
modi della guerra influiscano sulle forme di restituzione dello choc,
e che la guerra di posizione, la trincea, trovava forme più adeguate
nella poesia. Ma questa sarebbe una trasposizione troppo immediata
dei rapporti tra esperienza e letteratura: altri fattori, ovviamente,
intervengono nella storia delle forme poetiche. Come che sia, senza
dubbio nell’immediato secondo dopoguerra il romanzo ebbe, potremmo
dire, non solo maggiore mandato sociale, ma anche il riconoscimento
di una qualità letteraria superiore rispetto a ciò che veniva
restituito in versi. In Il
neorealismo della poesia italiana,
Siti metteva in evidenza i tratti formali che, tra il 1941 e il 1956,
accomunavano una cospicua quantità di testi in versi, che li rendeva
omogenei e, in definitiva, legati all’immediatezza dell’evento:
queste poesie finiscono per essere la testimonianza
dell’articolazione retorica condivisa di quegli anni[2].
Eppure,
per una generazione di poeti, la Seconda guerra mondiale rappresenta
un’esperienza che avrà un impatto decisivo non solo, com’è
ovvio, sulle biografie, ma anche sulla scrittura poetica: in entrambe
le sfere, la guerra veniva a dividere il tempo, innanzitutto come
passaggio alla maturità. Una generazione che avrebbe dato le sue
opere migliori fra gli anni Sessanta e i Settanta, nelle quali sotto
forme tematiche o, più spesso, indirette, la guerra ritornava come
«un’orizzonte permanete»[3].
Raboni ha descritto l’elemento che, pur nella diversità degli
esiti, si situava a monte di molte scritture di questi autori.
Parlando di Bertolucci, Caproni, Sereni e Luzi, il critico e poeta
affermava:
Motivi
anagrafici che è loro altissimo merito aver saputo volgere in
ragioni morali e in pulsioni espressive hanno assegnato insomma a
questi poeti il drammatico privilegio di risultarci esteticamente
vivi e visibili non al
di qua o al
di là di
quel confine, di quello strappo, ma esattamene su
di esso,
nel punto istantaneo e tuttavia incancellabile della sua epifania. E
questa loro fatale duratura, inscindibile contemporaneità alla
tragedia che ha devastato, ma anche formato, la coscienza collettiva
del nostro tempo, e con essa le coscienze di tutti noi che lo
abitiamo, ce li rende, per così dire, doppiamente contemporanei,
testimoni insieme di ciò che siamo e dell’immane “scena
primaria” che ci ha fatti quali siamo.[4]
Al
di là delle tracce belliche evidenti, pur numerosissime, nelle opere
di questi autori, la verticalità del trauma della guerra interviene
innanzitutto a rompere l’illusione della linearità temporale. E
questo è particolarmente evidente in Sereni e Caproni. Diario
d’Algeria e Il
passaggio d’Enea sono
opere che descrivono direttamente l’esperienza di guerra, anche se
attraverso una distanza temporale più o meno estesa; a partire da
questi libri le forme della temporalità si incrinano. Potremmo dire
che iniziano quei paradossali “racconti impossibili”[5] che
ritroveremo nelle opere della maturità: iniziano, insomma, dalla
ripetizione d’esistere del prigioniero nel purgatorio dell’Algeria
e dalla fissità aporetica di un Enea che fugge dalle rovine di Troia
per ritrovarsi fra le rovine di una Genova bombardata.
Nato
pochi anni dopo, Fortini può rientrare – a mio giudizio –
pienamente fra i nomi elencati da Raboni. Introducendo Dieci
inverni,
lo stesso Fortini fa riferimento al potere formativo dell’esperienza
bellica, di una formazione paradossale e, nel suo caso, legata
all’ereticità del suo marxismo: «i fatti decisivi per
la nostra cultura
erano stati l’universo dei campi di concentramento, l’arma
atomica, i processi sovietici»[6].
In questa citazione, è significativo che tra i fatti rievocati
vengano nominate le atrocità di tutti gli attori in campo: i
Nazisti, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Un modo per
descrivere come, durante gli anni della guerra e in quelli
immediatamente successivi, anche i “liberatori” avevano
perpetrato l’orrore. Non bisogna inoltre dimenticare che, a
differenza dei poeti precedentemente citati, l’esordio di Fortini
cade proprio nell’immediato dopoguerra: Foglio
di via e altri versi esce
nel ’46, grazie all’intercessione di Vittorini presso
Einaudi.[7] E
si tratta non solo del suo primo libro poetico, ma dell’intera
produzione intellettuale. Un dato contingente, ma che pure acquista
un suo valore simbolico.
L’imagery bellica
è una costante dell’intera opera poetica fortiniana. Accompagna le
diverse fasi della sua poesia, fino ad apparire come un elemento
della psicologia profonda dell’autore. A tal proposito, recensendo
una plaquette del 1969,[8] Pasolini
leggeva le immagini belliche come un tratto della volontà
dell’autore di sentirsi in guerra:
Tutte
le poesie di Fortini hanno l’aria di essere scritte durante una
“sosta dalla lotta”. […] È chiaro che per lui la metastoricità
dell’atto poetico […] in tanto vale in quanto è ripensamento
della lotta, attraverso un semplice mutamento di registro. […]
Un’ossessione di guerra guerreggiata, dunque: che rispecchia,
contro uno schermo poetico necessariamente ambiguo, l’idea che ha
attualmente Fortini della situazione, come di una situazione di
emergenza: in cui il poeta si deve trasformare in uno stratega, in un
soldato. […] Fortini, io penso, ha bisogno di sentirsi in guerra
perché solo in tal caso egli esiste, e trova una necessità al
proprio esistere. La pace […] è una cosa ch’egli non ha avuto in
sorte […] Come ebreo per necessità, e come uomo politico per
scelta, Fortini non ha mai avuto diritto alla pace. E questo me lo
rende fratello e caro. Ma la sua cecità di fronte alla realtà, e il
fanatismo che non può non derivarne, mi spinge a polemizzare con
lui. Non siamo in guerra.[9]
Sono
gli anni della contestazione del ’68. Ovviamente, questa recensione
si inserisce nella nota polemica che divise i due. Ma qui interessa
come Pasolini legge le immagini belliche che Fortini utilizza nella
sua poesia, anche quando apparentemente queste immagini non
riguardano una guerra reale, ma si presentano, secondo Pasolini, come
metafore ingenue del presente. Senza dubbio, nelle fasi in cui più
chiari si facevano i conflitti sociali, Fortini ricorreva alla
metafora bellica per rappresentare, con versi scolpiti e assertivi,
la necessità di una decisione. I versi a cui fa riferimento Pasolini
fanno parte di componimenti inseriti successivamente in Questo
muro.
Il primo menzionato apre proprio la sezione iniziale del libro del
1973 (La
posizione),
e si intitola La
linea del fuoco[10]:
Le
trincee erano qui.
C’è
ferro ancora tra i sassi.
L’ottobre
lavora nuvole.
La
guerra finì da tanti anni.
L’ossario
è in vetta.
Siamo
venuti di notte
tra
i corpi degli ammazzati.
Con
fretta e con pietà
abbiamo
dato il cambio.
Fra
poco sarà l’assalto.
Sono
due strofe simmetriche di cinque versi brevi; gli elementi sonori
sono tutti affidati alla pronuncia percussiva dei versi-frase, di
matrice brechtiana. La simmetria però non è temporale: nella prima
strofa, il soggetto enunciatore si trova in un paesaggio che porta
ancora i segni della Prima guerra mondiale («le trincee»), dunque
mette in connessione presente e memoria storica. Nella seconda
strofa, invece, abbiamo un salto temporale: il presente passa a
descrivere una vera e propria scena di guerra; il soggetto non è più
singolare, ma è un “noi” evidentemente costituito da soldati. La
scena si fa notturna e ultimativa; dopo un cambio di guardia, si
enuncia l’imminenza dello scontro. Chi è che parla? Sono incline a
pensare che la seconda strofa rappresenti l’improvvisa
visualizzazione del tempo passato, un procedimento non così
frequente nella poesia fortiniana, più legato ai testi
esplicitamente “di maniera”.
La
fusione di temporalità diverse mi pare possa scongiurare di leggere
il testo solo come ingenua metafora del presente. Evidentemente, dato
il forte legame che la poetica fortiniana intrattiene con
l’extratesto, non vi sono dubbi che il titolo di sezione, La
posizione,
faccia riferimento alla situazione socio-politica degli anni
Sessanta. Credo che la prima strofa permetta, però, di
problematizzare l’immediata traslazione. La distanza temporale
posta tra il presente e il passato nella prima strofa consente di
leggere il testo non tanto come una metafora del presente, quanto
piuttosto come una filosofia della storia che può agire anche nella
lettura del presente. D’altro canto, il testo è esplicito: «la
guerra finì da tanti anni». Il presente è la foce di immani
catastrofi; le trincee sono ancora visibili, prima che l’azione
della natura ne disperda i segni e con essi il ricordo. È possibile
allora vedere nella presentificazione della seconda scena, da un lato
l’idea che le svolte del destino si presentano sotto forma di
catastrofe, dall’altro che solo il vivo ricordo di quelle
catastrofi può disvelare la posta in gioco degli scontri del
presente.
È
una forma
mentis che
troviamo in Fortini sin dal suo esordio, sebbene con modalità
diverse.[11] In Foglio
di via,
il presente stesso è saturato dall’evento bellico. Come definita
da un giovane Starobinski, a proposito della lirica resistenziale
francese, la poesia di questi anni non può che essere una poesia
dell’evento.[12] A
differenza, però, di opere come il Diario
d’Algeria e Il
passaggio d’Enea,
il tempo non è bloccato, ma il presente si rovescia nel futuro. La
catastrofe negativa diventa palingenesi: in questo, agiscono su
Fortini il suo sostrato ebraico-protestante e l’esperienza
resistenziale in Val d’Ossola. Ciò non deve far pensare che
l’attimo di rovesciamento sia puramente positivo: possiamo dire,
anzi, che è la dimora nella negatività a suscitare l’immagine di
un avvenire di gioia. Ad esempio, le liriche resistenziali sono
sempre associate, figuralmente, alla morte. La prossimità agli
ammazzati oppure all’annichilimento individuale occupa il presente,
interrompe la continuità temporale, non attraverso l’inceppamento
del divenire, ma grazie alla trasformazione del momento attuale nella
lastra negativa del futuro (A
un’operaia milanese, Coro
di deportati, Valdossola
(16 ottobre 1944), Per
un compagno ucciso, Canto
degli ultimi partigiani)[13].
È probabilmente qui che s’instaura la
figura dell’avvento di
cui parla lo stesso Fortini:
La
figura dell’avvento, tensione verso un avvenire risolutivo e
apocalittico, […] vive propriamente nella immobilità e nel
mutamento, è postulazione rivoluzionaria, coniugata al futuro, è
diniego del presente, sentito, in ogni momento, come passato e come
nullità.[14]
È
possibile, tuttavia, ulteriormente precisare la dialettica
presente/futuro all’altezza della prima raccolta fortiniana. Una
dialettica che muta al modificarsi della situazione politica. Ciò è
particolarmente evidente nelle diverse scelte d’autore tra
l’edizione di Foglio
di via del
’46 e quella del ’67, in particolare nell’aggiunta di
un’ulteriore poesia conclusiva. La princeps si
chiudeva con il Cordo
dell’ultimo atto:
la metafora drammatica suggeriva la chiusura di un percorso
narrativo. Pubblicandola sul «Politecnico», Fortini afferma:
Stava
per aprirsi la scena su di un ultimo atto di tragedia – una vita,
una guerra – e il coro avvertiva la continuità dell’esistenza al
di là della pena personale. Gli anni della guerra ci trascinavano,
come pietre nel torrente, senza scampo, e dicevamo a noi stessi che
saremmo stati egualmente dannati, dopo, alla fatica silenziosa e
umile di vivere, al lavoro, che era la sola dignità dei
disperati.[15]
In
questa poesia, l’esperienza della guerra, il presente del ritorno e
il futuro del ricominciamento sono estremamente prossimi: nell’ultima
strofa («domani sopra i tetti il sole griderà \ le grandi opere
ignude delle montagne \ e noi e voi torneremo al lavoro»)[16],
viene infatti messa in evidenza la pazienza del lavoro piuttosto che
il rovescio utopico dell’avvento, sebbene l’immagine del grido
solare rappresenti la luminosità del destino. Nell’edizione del
’67, invece, dopo il Coro abbiamo
l’inserimento di un ulteriore testo, La
gioia avvenire,
messo in evidenza dal corsivo, così come il testo liminare della
raccolta, E
questo è il sonno.
Questa strategia chiude circolarmente il libro, connettendo incipit
ed explicit. Al passato nichilistico e regressivo di E
questo è il sonno si
oppone ora l’utopia dell’avvenire: la guerra, insomma, ha
disfatto il tempo vuoto e ha instaurato il tempo utopico. A
differenza del Coro,
però, qui presente, passato e futuro appaiono divaricati:
rappresentata con immagini naturali tumultuose nella prima strofa,
poi nella seconda con gesti ed esseri minuti, la “gioia” appare
situata, potremmo dire, alla fine dei tempi. L’elemento di maggiore
articolazione della dialettica temporale è che ora non vi è più un
immediato rovesciamento, ma una vera e propria redenzione del
passato. Se «la scuola della gioia è piena di pianto e sangue»,
l’avvenire allora è un istante che in sé raccoglie gli altri
antecedenti. Non a caso, il “tu” cui si rivolge il testo è
rivolto anche a chi ritiene che la rivoluzione sia un processo
progressivo e lineare («Tu che credi dimenticare vanitoso / o
mascherato di rivoluzione»)[17].
La
differenza fra i due testi va probabilmente ascritta a un diverso
sentimento del tempo; la Resistenza e l’immediato dopoguerra erano
state occasioni in cui il futuro rivoluzionario sembrava prossimo, in
cui le decisioni del presente avevano un immediato effetto sullo
stato di cose, qualcosa di simile all’8 settembre 1943, quando il
vuoto dell’autorità costituita diveniva una chiamata alla
responsabilità, e ogni scelta era decisiva. Ma dal ’46 inizia
invece la lunga stagione dei “dieci inverni”: chiusa la speranza
del rivolgimento, si apre la fase dell’attesa, dello sguardo di chi
veglia alla finestra. L’attenzione del soggetto restringe il
presente, che diventa il punto dal quale auscultare le estensioni
immani del passato e del futuro. Questa nuova facies temporale
investe i testi di Poesia
e errore;
un componimento in particolare ben descrive questa struttura del
tempo: intitolato A
metà,[18] nell’edizione
definitiva del 1969 dà il nome alla sezione che lo accoglie. Le
ultime due quartine di questo testo ricorrono all’immagine bellica
proprio per descrivere «i due orizzonti eguali e assoluti» del
passato e del futuro:
a
metà della strada – quando il comando è lontano
e
il foglio scritto è sbiadito di pioggia
e
la battaglia è un’eco e la notte precipita
e
chi porta il messaggio ha l’affanno del disertore
a
metà della strada – tra due distanze
quando
memoria e previsione hanno taciuto
tra
la fine del fiume e il principio del mare
tra
due orizzonti eguali e assoluti…
Nella
penultima quartina, è evidente il cambiamento rispetto alla prima
raccolta Foglio
di via,
esplicitamente tematizzato nelle immagini del foglio sbiadito e del
disertore: la battaglia è lontana, il messaggio non è più chiaro,
il soggetto è un disertore che ha alle spalle, nel passato, le
macerie della guerra e davanti a sé, nel futuro, la vita alla
macchia. Nell’ultima strofa, invece, il tempo dei “dieci inverni”
appare una sospensione fra due distanze: memoria e previsione non
hanno la forza di agire sul presente e gli spazi del passato e del
futuro diventano contenitori assoluti irraggiungibili, perché il
presente appunto non è in grado di connetterli.
In Poesia
e errore,
data anche la vicinanza con l’esperienza bellica, numerosi sono i
riferimenti alla guerra. In molti testi viene confermato l’assetto
temporale descritto in A
metà.
In Sono
morti ormai,
ad esempio, prigionieri di guerra uccisi restano irredenti, perché
«si crede di aspettare e la speranza si inaridisce / si spera di
ricordare e non si ricorda».[19] Una
sera di settembre,
invece, ritorna alle giornate convulse dell’Armistizio, «quando fu
un urlo unico la paura e la gioia», «e tutto era possibile»[20];
un ricordo però che si è irrimediabilmente allontanato nel passato.
In Ai
nostri caduti di Russia,
la speranza e l’attesa sono l’inganno delle classi dominanti,
paragonabili alla Madonna di stagno distribuita ai combattenti della
campagna di Russia e al ritornello di una canzone popolare trasmessa
dagli altoparlanti per il conforto dei soldati[21].
In V-Day il
ricordo della fine del secondo conflitto mondiale riemerge come un
atto di burocrazia con i «vecchi / nemici»[22].
Se in Fra
parentesi la
volontà del soggetto prova a svelare che si è stati «ingannati» e
ad affermare che «una di queste sere / verrà la verità»
(dicendolo però tra parentesi)[23],
solo nel libro successivo cambierà veramente la posizione del
soggetto di fronte al tempo.
In Una
volta per sempre,
il cambiamento utopico viene percepito sempre a una distanza estesa;
ma ora l’io decide
di assumere questa estensione, di inscriverla nelle forme stesse
della sua poesia, di essere disposto ad accettare i tempi lunghi
dell’attesa, oltre la morte individuale. È la prospettiva che
ritroviamo in una delle più celebri poesie fortiniane, La
gronda.
Proprio dopo questa poesia, abbiamo la sezione eponima del libro, che
si apre con un testo legato agli anni della guerra, intitolato
appunto 1944-1947[24].
Divisa in quattro momenti e costituita dal dialogo con un tu
femminile, la poesia ripercorre, nel primo movimento, gli anni di
guerra; nel secondo quelli della ricostruzione. Nel terzo movimento,
un’immagine naturale e marina descrive l’inabissamento della
verità, che tuttavia dal fondo «aspetta»; nell’ultimo movimento,
infine, il dialogo si fa più intimo, come per verificare la
relazione tra storia individuale e storia universale. Nel rapporto
tra guerra e tempo, è particolarmente interessante l’immagine del
secondo movimento, dopo che nel primo si è descritta la distruzione
dei bombardamenti e l’esilio svizzero:
Vecchi
carri carichi
delle
macerie di Milano andavano
verso
il nostro avvenire che ora è qui,
la
modesta collina del passato
che
agita un poco di verde in questo aprile.
A
mio giudizio, questi versi vanno collegati alla parabola naturale del
terzo movimento: così come la “monaca”, mollusco di colore rosso
viola, cala al fondo e attende (rappresentando la verità che da
allora «tacque» ma «aspetta»), ugualmente la collina del passato
attende di essere guardata con occhi diversi, da un avvenire che non
è quello che ora è qui. Una nota dell’autore specifica, infatti,
che si tratta della collina «di San Siro, formata con le macerie
della città». Le rovine ora celate saranno riscattate in quel
«luogo nostro che è oltre noi due», come recita l’ultimo verso
dello stesso secondo movimento.
In Una
volta per sempre,
nella celebre Traducendo
Brecht,
Fortini sostiene che «la natura \ per imitare le battaglie è troppo
debole»[25].
Negli anni successivi, proprio il tempo ciclico e biologico della
natura interviene a rendere più complessa l’articolazione
temporale della poesia fortiniana. Così come definito e analizzato
da Luca Lenzini,[26] lo
stile tardo di Fortini presume un confronto serrato con la potenza
delle forze naturali, al tempo stesso annichilenti per l’individuo
e indifferenti ai destini generali. In Questo
muro,
abbiamo visto che i riferimenti bellici si infittivano, a rimettere
all’ordine del giorno la questione della scelta e della
responsabilità; la natura invece non era capace di scalzare il
primato del tempo storico; come recita Le
belle querce:
«Il dolce sguardo d’ansia diceva \ che non esistono le belle
querce mai \ ma soltanto creature in attesa»[27].
Paesaggio
con serpente contiene
riferimenti indiretti alla guerra che, spesso, vengono desunti da
storie non appartenenti al vissuto fortiniano. È il caso di liriche
come Gli
anni della violenza e Editto
contro i cantastorie[28],
non a caso due testi contigui che aprono la sezione Circostanze. Gli
anni della violenza è
in parte montaggio di citazioni tratte dai diari di Ernesto «Che»
Guevara, mentre l’Editto
contro i cantastorie è
ambientata in Cina e utilizza passi di scritti di Mao Tse-Tung. Sono
liriche, dunque, che propongono parabole legate ai “paesi
allegorici”. L’Editto fonde
temporalità diverse, descrivendo una Cina attraversata dalle guerre
civili; il potere consolatorio del canto viene rifiutato, perché
ricorda i «poveri morti» riportando il «passato irrecuperabile»:
la comunità non vuole più che la vecchia vita sia «santa e
sopportabile», ma che venga riscattata dalle battaglie del presente.
La messa in discussione di qualsiasi forma di consolazione estetica è
radicale. Ciò non significa che la letteratura non abbia una
funzione in rapporto alla memoria storica. È ciò che emerge in uno
degli Otto
recitativi (Perché
alla fine…)[29],
dove la dialettica non è più tra i soli tempi della storia
dell’uomo, ma tra questi e la natura:
«Perché
alla fine che cos’è
tutto
il genere umano a paragone
della
natura e della universalità delle cose?»
I
ragazzi corrono senza fiato.
Le
pinete scricchiolano al sole.
Di
qui la società è invisibile.
Ma
se continuiamo a non volere la verità
sarà
terribile la nostra via.
È
bene che lo sappiamo una volta per sempre.
La
battaglia ebbe luogo prima del bivio
dove
la strada fa una larga svolta.
Il
nome lo rammenta Livio, lo storico antico.
E
non guardate dove le stelle si riproducono? Non volete
nemmeno
osservare le piccole persone
che
stridono sotto le nostre scarpe?
Come
l’agonizzante diventa sasso lo sapete.
Come
si butta via
die
Leiche il cadavere spezzato l’avete visto.
Le
virgolette che racchiudono i primi tre versi segnalano una citazione
immaginaria; la voce rimpicciolisce la storia umana di fronte
all’immensità e potenza della natura. I tre versi successivi
confermano l’indifferenza della natura verso la società, che
sembra invisibile da questa prospettiva. Con tipico movimento
avversativo, la voce viene smentita dalle constatazioni del soggetto.
Il paesaggio stesso che suscita le riflessioni sull’«universalità
delle cose» è dimora di tragedie storiche: qui, infatti, si
consumarono tremende tragedie e sotto le scarpe stridono i morti in
battaglia. Gli ultimi due versi accostano e fanno confliggere le due
dimensioni, naturale e storica: il divenire inorganico del morto;
l’oblio del cadavere gettato via. Fortini, quindi, sembra ribadire
il primato della verità storica. Ma sono gli anni della sconfitta,
quando le ipotesi nate dal dopoguerra e dalla contestazione sono
state revocate dalla mutazione antropologica; lo stesso Fortini nel
1993 affermava, rispetto ai rivolgimenti del passato: «Furono anni
in cui sentivamo imminente una trasformazione catastrofica […].
Oggi lo sappiamo: quel che avveniva ci mascherò in parte tutta
l’altra trasformazione compiuta dal capitale tecnologico e
finanziario».[30] Ritornando
al testo poetico, e al rapporto tra guerra e temporalità, una spia
credo sia indice di una diversa emersione del tema bellico in
relazione alla chiusura delle ipotesi rivoluzionarie: i riferimenti
bellici non sono più le guerre novecentesche, e in particolare la
Seconda guerra mondiale, che quelle ipotesi avevano in qualche modo
reso possibili; ma sono battaglie – non nominate – del mondo
antico. L’arretramento a un passato remoto e vago è il
corrispettivo del restringersi dell’utopia; quanto più si
allontana la gioia dell’avvenire tanto più il passato che questa
potrebbe redimere sbiadisce.
La
categoria del “remoto” credo sia associabile anche ai testi “di
guerra” dell’ultimo libro poetico di Fortini, Composita
solvantur.
Faccio riferimento alle Sette canzonette
del Golfo,
nelle quali l’ironia amara è in qualche modo specchio
dell’impotenza all’azione: secessione, come ha ben visto Lenzini,
piuttosto che rassegnazione.[31] La
distanza, allora, è qui innanzitutto spaziale: la melodia delle
canzonette è un’eco della guerra resa spettacolo mediatico,
incapace – a differenza delle guerre precedenti – di agire sul
presente dell’Occidente, di delineare una nuova configurazione del
tempo. Nell’Appendice
di light verses e imitazioni,
tuttavia, troviamo una palinodia delle stesse Canzonette.
In Considero
errore… il
poeta rinnega il proprio esperimento comico, riconoscendo alla Guerra
del Golfo una funzione veritativa («la verità non perdona»). La
mesta ironia era un errore, perché il compito di comprendere quegli
avvenimenti, che in ottica fortiniana significa farli reagire con il
futuro, non è del soggetto: per lui, ormai, quell’evento resta
«incomprensibile e senza nome». Con un rovesciamento tipico
di Fortini, l’ultimo verso instaura un nuovo tempo, da cui però il
soggetto è, consapevolmente, escluso: «(Nulla era vero. Voi tutto
dovrete inventare)»[32].
Forse,
questo verso può essere utile per leggere diversamente anche la
celebre affermazione dell’ultima poesia testamentaria, «E
questo è il sonno…» Come lo amavano, il niente:
cioè, «Proteggete le nostre verità». Se tutto è da inventare, e
se la nozione di verità in Fortini è strettamente legata alla
dialettica dei tempi, allora significa che quell’invito è
innanzitutto un invito alla trasformazione. Da questo punto di vista,
ci aspetta un compito arduo. Proprio prima di enunciare l’invito,
vi è l’ultima visualizzazione bellica fortiniana, che ritorna alla
Seconda guerra mondiale: è l’immagine dei ventotto di Panfilov,
attraverso le parole estreme del commissario politico Klockov nel
giorno e nel luogo dell’estrema vicinanza della Wermacht alla
capitale sovietica («Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci.
\ Abbiamo Mosca alle spalle»)[33].
Come mostrato in un recente saggio di Tommaso Di Dio,[34] l’eroico
sacrificio dei ventotto di Panfilov, che a prezzo della vita avevano
fermato fanteria e carri armati tedeschi, si è dimostrato essere un
falso di regime. Nel 2015, documenti dell’Archivio di Stato Russo
hanno svelato che la leggenda era stata in parte costruita dalla
stampa propagandista e che, con l’assenso delle dirigenze
sovietiche, il mito fu alimentato e non smentito: «la storia ha un
modo di ridere che è ripugnante»[35].
Da
questo percorso che ho delineato, possiamo trarre due tipologie di
conclusioni: la prima individua il posto di Fortini all’interno di
quella schiera di poeti rievocati all’inizio; la seconda ci
consente di guardare al nostro presente. Il trauma della guerra nella
poesia del secondo novecento è uno strappo che non permette di
ricucire una storia: frutto della rimozione, i numerosi spettri che
popolano i versi di autori come Sereni e Caproni sono anche la
testimonianza di questa impossibilità. Il fantasma «è un passato
non pacificato [che] risorge inaspettatamente come un vampiro e cerca
di insediarsi nel presente».[36] Per
continuare con la metafora fantasmatica, potremmo dire che Fortini
reduplica lo spettro: a uno che dal passato prova a insediarsi nel
presente, Fortini oppone quello di un futuro in grado di sussumerlo,
così da non bloccare il tempo e tentare una ricucitura, per quanto
spostata in avanti, di una storia. In questo modo, la poesia
fortiniana si sottrae alla natura intermittente della temporalità
lirica: non alternanza di epifanie e ripetizione o la circolarità
aporetica di un tempo dominato dal mutamento di una fissità, ma il
tentativo di tenere connesse le ante del passato e del futuro. Ciò
non significa che ci troviamo davanti a un tempo omogeneo e lineare:
quello è il tempo delle magnifiche
sorti e progressive cui
Fortini si sottrae, non credendo nella inevitabile perfettibilità
dell’uomo. La connessione si dà nell’attesa della catastrofe
trasformativa: potranno cambiare estensione e durata dei tempi, ma la
dialettica principale è questa.
La
seconda conclusione, invece, è legata all’immagine di società che
quella dialettica suscita. Se il passato, come la collina di San
Siro, in qualche modo è sempre nel nostro presente, anche quando
celato, il vero discrimine per Fortini credo sia il futuro. E questo
ci permette anche di vedere chiaramente cosa ci divide da lui.
L’omogeneità lineare e accelerata del tardo capitalismo abita le
nostre menti come una seconda natura. Lo abbiamo visto in questi anni
di pandemia: al netto dei traumi subiti, far fronte alla catastrofe
ha significato ristabilire quanto prima la possibilità che il futuro
sia in continuità con il pre-catastrofe. Sono note le molte
connessioni tra le Tesi
di filosofia della storia di
Benjamin e la dialettica di Fortini. Tra i maggiori punti di
contatto, vi è quella «debole forza messianica» capace di creare
«un appuntamento misterioso tra le generazioni», che permette di
dire: «siamo stati attesi»[37],
come emergeva ancora negli ultimi testi di Composita
solvantur.
Ciò significa che anche i vivi dovrebbero avere la capacità di
porsi in attesa: ma questo può avvenire se vi è una visualizzazione
del futuro, un’ipotesi da immaginare. Noi cosa attendiamo?
Note
[1] A.
Cortellessa (a cura di), Le
notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani
nella Prima guerra mondiale,
Milano, Bruno Mondadori, 1998; nuova edizione riveduta, Milano,
Bompiani, 2018.
[2] W.
Siti, Il
neorealismo nella poesia italiana. 1941-1956,
Torino, Einaudi, 1980.
[3] G.
Alfano, Ciò
che ritorna. Gli effetti della guerra nella letteratura italiana del
Novecento,
Firenze, Franco Cesati, 2014, p. 2014.
[4] G.
Raboni, Il
prima e il dopo,
in Id., La
poesia che si fa. Cronaca e storia del novecento poetico italiano
(1959-2004),
a cura di A. Cortellessa, Milano, Garzanti, 2005, pp. 187-89, a p.
88.
[5] N.
Scaffai, «Il
luogo comune e il suo rovescio»: effetti della storia, forma libro
ed enunciazione negli ‘Strumenti umani’ di Sereni,
in Id., Il
lavoro del poeta. Montale Sereni Caproni,
Roma, Carocci, 2015, pp. 136-71
[6] F.
Fortini, Dieci
inverni. 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista,
a cura di S. Peluso, con un saggio di M. Marchesini, Macerata,
Quodlibet, 2018, p. 30.
[7] Vd.
F. Fortini, Foglio
di via e altri versi,
ed. critica e commentata a cura di B. De Luca, Macerata, Quodlibet,
2018.
[8] F.
Fortini, Venticinque
poesie 1961-1968,
s. e. [1969]
[9] P.P.
Pasolini, Le
ossessioni di Fortini,
in Id., Saggi
sulla politica e sulla società,
a cura di W. Siti e S. De Luade, con un saggio di P. Bellocchio,
Milano, Mondadori, pp. 1189-92.
[10] F.
Fortini, Tutte
le poesie,
a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, p. 300 (d’ora in avanti,
il volume verrà indicato con la sigla TP,
seguita dal numero di pagina).
[11] Sulla
dialettica temporale, mi limito qui a citare alcuni lavori che sono
stati utili per questo percorso: F. Diaco, Dailettica
e speranza. Sulla poesia di Franco Fortini,
Macerata, Quodlibet, 2017; F. Moliterni, Poesia
e tempo in Franco Fortini,
in Id., Una
contesa che dura. Poeti italiani del Novecento e contemporanei,
Quodlibet, 2021, pp. 121-36; G. Nava, Tempo
e memoria nella poesia di Fortini,
in Dieci
inverni senza Fortini. 1994-2004,
Atti delle giornate di studio nel decennale della scomparsa (Siena
14-16 ottobre 2004; Catania 9-10 dicembre 2004), Macerata, Quodlibet,
2006, pp. 357-63.
[12] J.
Staroninski, Introduzione
alla poesia dell’evento (1943),
in «Caffè illustrato», Dossier
Resistenza,
a cura di G. Pedullà, 23, 2005, pp. 40-43.
[13] TP,
15, 18, 20, 21, 24.
[14] F.
Fortini, Le
poesie italiane di questi anni (1960),
in Id., Saggi
ed epigrammi,
a cura e con un saggio introduttivo di L. Lenzini e uno scritto di R.
Rossanda, Milano, Mondadori, 2003, p. 563.
[15] F.
Fortini, Coro
dell’ultimo atto, Imitazione
del Tasso,
in «Il Politecnico», 5, 27 ottobre 1945, p. 3.
[16] TP,
60.
[17] TP,
61.
[18] TP,
102.
[19] TP,
141.
[20] TP,
165.
[21] TP,
166.
[22] TP,
207.
[23] TP,
174.
[24] TP,
261-62.
[25] TP,
238.
[26] L.
Lenzini, Stile
tardo. Poeti italiani del Novecento,
Macerata, Quodlibet, 2008.
[27] TP,
361.
[28] TP,
409, 411.
[29] TP,
446.
[30] F.
Fortini, Fortini:
leggere e scrivere,
a cura di P. Jachia, Firenze, Nardi, 1993, p. 63.
[31] L.
Lenzini, Giacimenti
di futuro. Appunti su ‘Composita solvantur’,
in Id., Il
poeta di nome. Saggi e proposte di lettura,
Lecce, Manni, 1999, p. 221.
[32] TP,
573.
[33] TP,
561-62.
[34] T.
Di Dio, Proteggete
le nostre verità. Una lettura di ‘E questo è il sonno…’ di
Franco Fortini,
in «Siculorum Gymnasium», LXXI, IV, 2018, leggibile anche al
seguente
indirizzo: https://www.ospiteingrato.unisi.it/proteggete-le-nostre-veritauna-lettura-die-questo-sonno-di-franco-fortinitommaso-di-dio/
[35] 27
aprile 1935 (TP,
405).
[36] A.
Assmann, Ricordare.
Forme e mutamenti della memoria culturale,
trad. it. a cura di S. Paparelli, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 194.
[37] W.
Benjamin, Tesi
di filosofia della storia,
in Id., Angelus
novus. Saggi e frammenti,
a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1995, p. 76.