30 giugno 2024

COSA FANNO GLI INTELLETTUALI NEL MONDO D'OGGI

 



Cosa fanno gli intellettuali oggi?

9791281250086_0_536_0_75di Francesco Virga 

Sicuramente il nostro tempo non è quello di Gobetti e Gramsci che, all’indomani della Prima guerra mondiale, con riviste ed iniziative coraggiose animarono un dibattito culturale e politico che ha segnato un’epoca. Non meno lontani appaiono oggi ai nostri occhi figure come Bobbio, Capitini, Dolci, Calamandrei, Vittorini e tanti altri che, nell’ultimo dopoguerra, diedero un contributo decisivo alla crescita culturale e civile dell’Italia. Oggi non si vedono più in giro intellettuali di questo tipo e a nessuno viene in mente di fare una rivista come Il Politecnico. Quindici anni fa Alberto Asor Rosa provò a rompere il silenzio. Ma il suo appello cadde nel vuoto [1].  Italo Calvino aveva già messo una pietra tombale sopra la stagione dell’impegno politico degli intellettuali [2]. 

In questi giorni Gianfranco Perriera ha avuto il coraggio di affrontare l’annosa questione in un saggio snello, di sole 120 pagine, Figure dell’intellettuale. La passione del pensare in tempi scompigliati (Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2024), pur sapendo che sul tema sono stati scritti tanti libri. Lo ha fatto in modo originale alternando pagine di analisi storica e filosofica a pagine di letteratura. Si tratta di un libro scritto più col cuore che con la ragione, d’altra parte Pascal ci ha insegnato che il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce. 

Il filo conduttore del suo lavoro ruota intorno al rapporto esistente tra parola e mondo. Egli si mostra, fin dalle prime pagine, preoccupato del discredito che circonda oggi gli intellettuali. Forse l’immagine complessiva dell’intellettuale che viene fuori dal saggio di Perriera è un po’ romantica e, non a caso, è ricorrente nella sua analisi il paragone con la figura mitica di Cassandra, inascoltata e derisa. Il suo libro si apre con queste parole: 

 «Vivono tempi assai grami gli intellettuali. Nell’epoca della chiacchiera amplificata dai social media […], tutti – e ci fu un tempo in cui si pensava che un tale esito potesse essere una opportuna conquista democratica – dicono più o meno selvaggiamente la propria e trovano un infinito serbatoio di immagini preconfezionate di cui potersi servire. Tutti pontificano e approvano o bistrattano il parere – e più spesso la persona – altrui senza remore. L’opinione pubblica è ridotta a un baldanzoso bailamme […]: il grido, lo sberleffo, la brutalità la fanno da padroni» [3]. 

Indubbiamente la descrizione di quanto avviene oggi, soprattutto nei social media, è calzante ed efficace; Gianfranco, grazie anche alla sua esperienza teatrale, sa descrivere e raccontare bene quello che accade nei nostri giorni: 

«I social media stimolano la fiera dell’esposizione e delle vanità. [...]. Distrarsi, postare foto, impressioni, giudizi sommari e anche contumelie nel Museo virtuale e interattivo, dove tutto sembra ancor più finto di quanto non sia il cosiddetto reale, ma dove, almeno, si ha la sensazione di essere protagonisti della propria fiction, sono le uniche opportunità per sentire di esistere e non crollare nello sconforto» [4]. 

Meno convincente risulta però la spiegazione delle cause che hanno generato questo stato di cose. Certamente la crescita esponenziale del potere tecnologico, di cui parla Perriera citando Adorno e Byung-chul Han, ha influito non poco a trasformare la stessa tecnica da mezzo a fine. Ma non credo che questo basti a spiegare quanto è accaduto.   

catturaSecondo me è sbagliato pensare che gli intellettuali – soprattutto se intesi nel senso lato gramsciano – siano scomparsi o siano diventati improvvisamente muti. Se pensiamo a chi sta dietro le piattaforme dei social media, ai giornalisti televisivi (quelli della carta stampata sembra che siano destinati a scomparire), ai tanti professori universitari di discipline non solo umanistiche, ecc., si comprende meglio cosa fanno nei nostri giorni la maggior parte degli intellettualiFanno esattamente quello che Antonio Gramsci osservava in carcere negli anni trenta del 900: «[gli intellettuali] sono i commessi del gruppo sociale dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale» [5].     

Ma, da buon pensatore dialettico, il sardo sapeva che il rapporto degli intellettuali con le classi di appartenenza e il mondo della produzione non è immediato ma mediato dal complesso delle sovrastrutture (le ideologie) di cui sono funzionari. Ed oggi, infatti, essi assolvono perfettamente questa loro precipua funzione, non tanto predicando, quanto piuttosto facendo parlare le cose, le abbondanti merci prodotte in Occidente, che la pubblicità ci sbatte ogni sera in faccia assicurandoci di vivere nel migliore dei mondi possibili.

Smettiamola allora di pensare e dire che le ideologie sono morte. Il nostro tempo è il tempo più ideologico di tutti i tempi. E non si fa altro, dalla mattina alla sera, che masticare ideologie-false coscienze. 

Per la verità Gianfranco Perriera, nella parte finale del suo lavoro, non manca di ricordare il celebre passo marxiano de L’ideologia tedesca: 

«La classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante […]. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali presi come idee: sono l’espressione che fanno appunto di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee di dominio». 

71e5b9hpwrl-_ac_uf10001000_ql80_Eppure, in queste stesse pagine, Perriera scrive: «Se ideologia, come volevano Marx ed Engels, è mascheramento degli effettivi rapporti materiali dominanti all’intellettuale spetta interpretare tale falsa coscienza». Ma come si fa ad assegnare compiti agli intellettuali che i vincoli di classe non gli consentono di svolgere? Mi sembra questo il punto più debole del libro di Perriera che ignora la grande lezione gramsciana sugli intellettuali che non può essere liquidata nei luoghi comuni che circolano oggi nel web né ridotta al frainteso concetto di intellettuale organico [6]. Ma questa è solo una delle feconde contraddizioni di cui è ricco il suo saggio. 

Theodor W. Adorno è uno degli autori più citati. Perriera sa che, fin dai primi anni cinquanta del secolo scorso, il filosofo e sociologo ebreo-tedesco aveva predetto che la “società di massa” avrebbe reso superflua la riflessione – “Il pensiero disturba il guadagno” – avendo toccato con mano quello che avveniva allora negli Stati Uniti d’America. Adorno era stato costretto ad emigrare negli U.S.A. per sfuggire alla persecuzione nazista, ed anche per questo non ha mai perdonato ad Heidegger il sostegno ideologico dato al nazionalsocialismo. D’altra parte Adorno ha sempre apertamente riconosciuto i suoi debiti nei confronti di Marx e gran parte della sua opera non è altro che uno sviluppo del pensiero critico marxiano [7]. 

Adorno, in effetti, è stato uno dei primi nel 900 a porsi domande cruciali sul destino degli intellettuali in un mondo sempre più dominato dalle leggi del mercato. Ed avendo scritto le sue Meditazioni sulla vita offesa proprio nel Paese che indicava la via da seguire a tutto il mondo occidentale, ha potuto vedere in anticipo cose apparse chiare a tutti, in Europa, solo dopo decenni dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ma Perriera – che, nelle pagine successive, prende le distanze dal retaggio veteromarxiano del filosofo di Francoforte – sembra fraintendere la sua analisi critica riducendola ad una forma di moralismo [8]. 

Eredità dissipate. Gramsci, Pasolini, SciasciaQuesto è un altro tratto caratteristico del saggio che stiamo analizzando: siamo di fronte a un’opera kantiana, con una forte tensione etica dentro, che conduce Perriera a prediligere il dover essere all’essere.  Insomma in tutto il libro le esortazioni prevalgono nettamente sulla fredda analisi della realtà effettuale delle cose. Perriera, non a caso, dedica un intero capitolo del libro alla figura mitica di Cassandra, inascoltata e derisa sia dagli uomini di potere che dal popolo. Egli paragona gli intellettuali odierni alla Cassandra eschilea che col suo profetico linguaggio annuncia catastrofi. 

Ma dove sono oggi gli intellettuali che annunciano catastrofi? Dove li ha visti? L’ultimo, forse, è stato Pasolini ignorato del tutto nel libro. Eppure non mancano nello stesso libro pagine lucide che descrivono in modo crudo la realtà. Si prenda, ad esempio, uno dei capitoli più belli intitolato: “Abitare il negativo”. Qui – dopo aver evocato il “deserto” e le “città bruciate” del profeta biblico Geremia – Perriera riconosce che gli intellettuali non devono invocare o fornire consolazioni: «non devono nascondere o dissimulare la condizione tragica. E’ del negativo che devono saper farsi carico». 

A questo punto il nostro autore, memore dell’educazione teatrale ricevuta dal padre, fa riferimento a Beckett, all’uomo di teatro irlandese, e soprattutto alle sue prime opere (come Finale di partita), cui attribuisce il merito di aver saputo misurarsi con il negativo: 

«Nel negativo deve saper dimorare come Geremia, come Cassandra, il pensare deve saper guardare la catastrofe dritto negli occhi. Della catastrofe deve farsi annunciatore». 

E alle opere di Beckett, Pirandello (bella la sua analisi dell’eresia catara), di V. Havel e Comarc McCarthy, Perriera riconosce il merito di aver saputo abitare il negativo senza aver mai smesso di pensare. Riuscendo alla fine a trovare la via dell’esodo, attraverso il deserto, verso una vita più degna. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024 
Note
[1]  A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali a cura di Simonetta Fiori, Laterza, Bari 2009
[2]  I. Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino 1980 (I edizione).
[3]  G. Perriera, ivi: 7.
[4] Ivi: 85.
[5]  A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione Gerratana, Einaudi 1975, vol. III: 1519
[6]  Perriera cita en passant solo una volta Gramsci, facendo riferimento in modo assai generico alla tanto discussa figura dell’intellettuale organico (op.cit. p.107) che tanti equivoci ha generato intorno alla interpretazione della sua opera. Per l’approfondimento di questo problema rinvio al mio Eredità dissipate. Gramsci Pasolini Sciascia, Diogene Multimedia, Bologna 2023, II edizione ampliata: 19-22; 49-62; 78-80.
[7] T. W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino, I ediz. italiana 1954. La prima edizione tedesca del libro è del 1951. Ma Adorno sapeva che K. Marx, un secolo prima, nell’analizzare la struttura e i meccanismi del sistema di produzione capitalistico, aveva colto la sua inarrestabile tendenza a mercificare tutto. Anche per questo, nel suo Manifesto del 1848, osservava che tra gli uomini ormai non esiste più altro vincolo se non quello del «nudo interesse e del freddo pagamento in contanti».  
[8]  G. Perriera, ivi: 7-8; 60-61; 85; 104; 113; 117.

A MARSALA SI TORNA A PARLARE DI GRAMSCI, PASOLINI e SCIASCIA

 



INTRODUZIONE

A prima vista potrebbe apparire discutibile l' accostamento tra Antonio Gramsci, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia. Si tratta, infatti, di autori che hanno avuto ruoli e pesi diversi nella storia del Novecento.

 Secondo gli schemi tuttora dominanti, il primo – nonostante che di recente sia stato finalmente compreso tra i principali filosofi contemporanei[1] - continua ad essere considerato soprattutto un politico e il suo spazio, nel tempo della frammentazione dei saperi, andrebbe confinato nell'ambito della scienza politica. Mentre gli altri due - pur avendo sempre disprezzato i letterati puri e scritto tanto su giornali e riviste politiche – essendosi occupati prevalentemente di letteratura, cinema e poesia, andrebbero esaminati nell'ambito ristretto della critica d'arte e letteraria.

 

Ma se si leggono attentamente le loro opere e si dà una veloce occhiata alla vasta letteratura critica esistente, soffermandosi particolarmente su quella prodotta nell' ultimo decennio, non si tarda a cogliere il legame profondo e i tratti comuni, pur nelle loro differenze. Gramsci, Pasolini e Sciascia, seppure in modi diversi, hanno riconosciuto il peso determinante avuto dalla cultura (intesa in modo nuovo rispetto alla tradizione) nella storia e colto il legame stretto tra lingua e potere.

 

In specie i tre, seguendo vie e metodi diversi, si sono ritrovati uniti nella critica alle classi dominanti. Così come Gramsci, fin dal 1926, aveva individuato in Giustino Fortunato e Benedetto Croce ( da cui aveva pur appreso tanto) «le chiavi di volta del sistema» e «le due più grandi figure della reazione italiana»[2]; Pasolini è stato il primo in Italia, dopo Gramsci, ad aggiornare la sua analisi critica sugli intellettuali denunciando con forza il loro ruolo servile e subalterno:«Gli intellettuali italiani sono sempre stati cortigiani; sono sempre vissuti “dentro il Palazzo”».[3]

 

Leonardo Sciascia non è stato da meno nel criticare gli «intellettuali organici»[4] ai vari sistemi di potere. Infatti, fin dal 1963, nello scrivere uno dei suoi racconti più belli, Il Consiglio d'Egitto, non risparmia critiche ad archivisti, storici e preti – servi del potere del tempo – che utilizzano le loro competenze per giustificare e legittimare domini e privilegi.

 

Ma in un tempo come il nostro, in cui si parla sempre più spesso di fine della storia e dove la storia sembra davvero uscita dai suoi antichi cardini, sono tanti a pensare che non ci sia più posto per Gramsci, Pasolini e Sciascia.

 

Per questo il capitale prezioso lasciato da questi tre grandi autori rischia oggi di essere disperso e dissipato. Nell' odierna società, appiattita in un eterno presente, tanti vivono ignorando il passato e senza pensare al futuro. Ecco perchè temo, con  Leonardo Sciascia, che la memoria possa persino scomparire.

 

Nel corso delle presentazioni della prima edizione di questo libro si è tanto discusso del suo titolo provocatorio. Credo di aver spiegato alcune delle ragioni che mi hanno spinto a considerare, almeno in parte, dissipata la grande eredità culturale lasciata da Gramsci, Pasolini e Sciascia. I tre, ma­grado il successo che hanno avuto in alcuni momenti della loro vita, sono stati, in gran parte, incompresi dai loro contemporanei.

 

Antonio Gramsci si è sentito isolato e incompreso dai sui stessi compagni di lotta al punto tale che Umberto Terracini - stretto collaboratore del sardo nella redazione de L’Ordine Nuovo, fin dal 1919, e suo compagno di carcere durante la dittatura fascista - è arrivato a scrivere:

“Dal 1930 al 1945 – bisogna pur dirla almeno una volta senza perifrasi questa triste verità – la consegna fu di tacere su di lui salvo che in termini rituali e negli anniversari di prammatica. […]. E come dimenticare che , dietro lo squallido carro funebre che ne trasportò la bara al cimitero, altro non c'era che una scia di vuoto?”[5]

Non parliamo poi di quello che è accaduto in Italia dopo il 1989, quando persino gli stessi dirigenti nazionali del Partito che aveva contribuito a creare hanno apertamente dichiarato di considerarlo inservibile politicamente dopo il crollo del Muro di Berlino e dell' Unione Sovietica.

Se in Europa e in India non avessero ripreso a leggerlo un gruppo di antropologi e sociologi che hanno dato vita ai cosiddetti subaltern studies (utilizzando, fin dal nome, una parola chiave del lessico gramsciano); se, in America Latina, Paolo Freire (il pedagogista gesuita autore della famosa Pedagogia degli oppressi) non l’avesse scoperto insieme ai teologi della liberazione (G. Gutierrez, L. Boff, ecc.); se gli stessi intellettuali argentini di sinistra (vicini al populismo peronista) non avessero contribuito a diffonderne il pen­siero, oggi, forse, non si parlerebbe più di Gramsci nel mondo.

Qualcosa di simile è avvenuto con Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia.

 

La storia di Pasolini è stata, in gran parte, una storia di incomprensioni. Come ha ben visto Gianni Scalia, dopo la sua morte, i mezzi di comunicazione di massa si sono impadroniti di lui: il poeta bolognese è stato «interpretato, giudicato, commemorato: encasillado ( come direbbe Unamuno). Ma non compreso. Chiedeva di essere aiutato nella sua ricerca dei “perchè” della condizione presente […]. Faceva domande e sollecitava risposte[...]. Gli si rispondeva con i silenzi puntuali, le polemiche […], o, come diceva con il “silenzio”» [6].

Negli ultimi anni della sua breve vita tutti i suoi interventi, pubblicati sul Corriere della Sera e su altri giornali e periodici, sono stati accolti in modo ostile, oltre che da tutti gli uomini di potere del regime democristiano, persino da tanti intellettuali di sinistra. Basti ricordare, per tutti, gli scontri e le polemiche avute con Italo Calvino, Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, ecc. ecc.

E le incomprensioni non sono ancora finite. Infatti, malgrado si continui a parlare e a scrivere tanto sulla sua opera, rimangono pochi i contributi critici seri.

 

Leonardo Sciascia è stato uno dei pochi a difenderlo e a restargli vicino nel corso degli anni. Ecco perchè lo scrittore siciliano, dopo la sua morte, dirà: «Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose».[7] E non è casuale che uno dei suoi saggi più discussi, L' affaire Moro, si apra proprio con una citazione di Pasolini, ripresa dal suo famoso articolo sulle lucciole del 1° febbraio 1975.

Per la verità Sciascia, come Pasolini, ha sempre diviso l'opinione pubblica e la classe politica (di governo e di opposizione), insieme alle gerarchie ecclesiastiche, hanno guardato sempre con sospetto al suo spirito eretico. Basti ricordare che, negli anni in cui scriveva sul giornale comunista L'ORA di Palermo, era soprannominato “iena dattilografa” dai suoi stessi colleghi.

Insomma, sarò pure pessimista, ma credo di avere delle buone ragioni per temere che i tre più grandi eretici italiani del 900 rischiano davvero di essere dimenticati in un mondo dove sembra che ci sia sempre meno spazio per il pensiero critico e indipendente. 

Francesco Virga

 


[1]Basti qui ricordare che una recentissima iniziativa editoriale del Corriere della Sera, curata dal Prof. Carlo Sini,  uno dei maggiori studiosi di filosofia contemporanea, ha compreso Antonio Gramsci tra i principali filosofi del novecento accanto ad Heidegger, Popper, Russell, Sartre, Wittgenstein, ecc.

[2]GRAMSCI, Antonio, La questione meridionale, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 150

[3]PASOLINI, Pier Paolo,  Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pp. 93-94.

[4]Questo termine gramsciano è stato sempre fonte di equivoci e malintesi. Cercherò di chiarire il significato che esso assume nel lessico e nella visione del mondo gramsciana più avanti.

[5]TERRACINI Umberto, Prefazione a Laurana Lajolo, Gramsci un uomo sconfitto, Rizzoli, Milano 1980, p. 10. Si rimanda anche ad altri suoi due libri: Intervista sul comunismo difficile , a cura di Arturo Gismondi, Laterza, Bari1978 e Quando diventammo comunisti, a cura di Mario Pendinelli con Prefazione di Davide Lajolo, Rizzoli, Milano 1981

[6]SCALIA Gianni, La mania della verità. Dialogo con Pier Paolo Pasolini, op. cit., pp.50-51

[7]SCIASCIA Leonardo, Nero su nero, Einaudi, Torino 1979, p. 176.

 


29 giugno 2024

IN MEMORIA DEL MIGLIOR DANILO DOLCI: BANDITI A PARTINICO, IERI E OGGI

 



IN MEMORIA DEL MIGLIOR DANILO DOLCI
CONTRO CHI SEMINA MORTE

Diceva Danilo Dolci: "è disonesto usare i soldi dello Stato, che sono anche miei, per seminare morte." (Banditi a Partinico, Laterza 1955, Prefazione di Norberto Bobbio). E, secondo Danilo, non erano tanto i “banditi “ a seminare morte quanto lo Stato.
Alla luce di un recente fatto di cronaca, secondo il quale la maggioranza degli studenti di una scuola di Partinico ha respinto la proposta di intestare la stessa Scuola a Peppino Impastato, mi sembrano tornate attuali le parole che ho usato, qualche lustro fa, in occasione della riedizione di un gran libro di DANILO DOLCI: BANDITI A PARTINICO

Banditi a Partinico, ieri e oggi
E’ stato finalmente ristampato dall’ Editore Sellerio di Palermo un libro di Danilo Dolci degli anni cinquanta, difficile da trovare perfino nelle maggiori biblioteche.
L’opera, che aveva suscitato un clamore straordinario, s’ intitolava Banditi a Partinico ed era stata pubblicata nel 1955 da Laterza. La nuova edizione è corredata dalle originali fotografie di Enzo Sellerio che ne rafforzano il valore documentario, espunte dalla prima per ragioni economiche, e risulta arricchita anche per la bella postfazione di Paolo Varvaro.
Il libro “scritto dalle cose e da tutti”, come Danilo amava definire i suoi libri-inchiesta, si articola in due parti. La prima, corredata anche da sommari dati statistici, ha il carattere dell’analisi sociologica che documenta lo stato di miseria e di abbandono in cui viveva gran parte della popolazione tra Partinico e Trappeto in quegli anni. La seconda, più descrittiva ed emotivamente coinvolgente, raccoglie alcune esemplari storie di vita di persone residenti nella zona che raccontano, con il loro povero ma espressivo linguaggio, le loro amare esperienze ( alcune di queste storie saranno successivamente riprese in Racconti siciliani).
Ci pare utile riproporre dei passi della Prefazione di Norberto Bobbio alla prima edizione che aiutano a capire la forza d’impatto che ebbe il libro:
“Vorrei che queste pagine fossero lette da tutti coloro che, in Italia, hanno una cattedra o un pulpito, e se ne servono per esaltare glorie nazionali magari remote o per flagellare terribilmente i vizi dei cattivi cristiani. Sono pagine che scuotono sia la pigra sicurezza dei ripetitori compiaciuti di formule patriottiche sia il sussiego moralistico degli accusatori secondo le leggi stabilite. (…) Quante volte ciascuno di noi ha rimuginato un lungo e complicato discorso sulla situazione della nostra società e delle nostra cultura, e sui rapporti tra questa società e questa cultura, quali si sono rivelati in modo drammatico negli anni dopo la caduta del fascismo. Queste pagine di Danilo Dolci lo abbreviano singolarmente, portandoci in mezzo alle cose, a quelle cose che non conoscevamo o volevamo non conoscere o fingevamo di non conoscere. E sono, da un lato, la miseria, la fame, la follia, la disperazione di un piccolo quartiere di una cittadina della Sicilia; dall’altro, l’indifferenza, l’incuria, il cinismo, la prepotenza di coloro, grandi e piccoli, che reggono le sorti dello Stato. Sono due facce della stessa medaglia .”
Le belle ed appassionate parole di Bobbio, oltre a fornire la chiave per leggere nel modo migliore l’opera dell’anomalo sociologo triestino, sono preziose anche per ricostruire il dibattito culturale di quel tempo:
“Per molti di noi il crollo del fascismo e la guerra di liberazione sono stati l’occasione per la scoperta di un’Italia segreta e nascosta, dell’Italia non ufficiale, di cui la cultura dominante, tutta affaccendata in polemiche filosofiche o ideologiche o di scuola ( contro il positivismo, contro il pragmatismo, contro l’irrazionalismo, contro l’attivismo e via con mille altri nomi astratti) ci aveva poco o nulla parlato, e di cui la politica dei politici aveva spudoratamente negato l’esistenza. Si cominciò a guardare l’Italia non più dall’alto in basso, ma di sotto in su, dal punto di vista dei poveri, dei diseredati, degli oppressi, di coloro che non erano mai stati protagonisti di storia etico-politica, (…) per la semplice ragione che le loro gesta o non valevano la pena di essere narrate o se venivano tramandate non era attraverso quel segno dell’individuazione che è il nome proprio, ma attraverso nomi collettivi come contadini, braccianti, plebe, massa, soldati, banditi. Proprio per questa scoperta il Cristo si è fermato a Eboli ebbe quella risonanza e quell’influsso che ognuno oggi è disposto a riconoscergli, ed ha un’importanza non soltanto letteraria ma storico-culturale o politica (…).”
Certamente tanta acqua è passata sotto i ponti da allora. Partinico e la Sicilia non sono più quelli descritti da Danilo Dolci mezzo secolo fa. Non esiste più la fame e la miseria di allora. Persistono, comunque, tante altre forme di miseria e, soprattutto, insieme all’immarcescibile sistema di potere clientelare-mafioso, di cui un illustre storico aveva incredibilmente annunciato la fine solo qualche anno fa, sopravvive una classe dirigente (e non mi riferisco solo alla classe politica) parassitaria, arrogante e insipiente che mostra ogni giorno di più di non essere all’altezza del suo compito.

Francesco Virga

28 giugno 2024

VINCENZO CONSOLO INCONTRA IGNAZIO BUTTITTA

 



Malophòros

"Vivu sugnu, /mi viditi? / parru!  (IGNAZIO BUTTITTAL’urtima carta)

«Vicé, Vicé, c’è Vicé!» Samìr al cancello m’aiuta con segni a salire la rampa, a raggiungere la breve spianata sotto la casa. Una casa incastrata dentro la roccia che s’alza diritta nel cielo, piomba sul mare. La macchina strepita, sussulta, sfiora il muro, striscia sui gerani e i capperi che cascano dal terrapieno, s’arresta sullo spiazzo.

«Vicé, Vicé!» Angelina e Ignazio chiamano, salutano. Salgo per una scala a chiocciola, emergo da un buco sopra il terrazzo. Mentre li abbraccio, vedo lì accanto Samìr, che fuma e sorride. Ignazio è bianco, bianco il maglione di lana, bianca la caciotta araba in testa, bianchi i capelli che s’aprono come ali di colombella alle tempie, bianco-ambra la faccia, colore del lievito, in cui spiccano l’azzurro degli occhi e il rosso dei pomelli. Qui all’Aspra, nella sua casa, Ignazio è un Antèo che a contatto della Terra riprende vigore. Era proprio rinato, in pochissimo tempo, da quando l’avevo visto in ospedale malato di cuore, giallo, smagrito. Angelina è sempre scura, terrosa, ma la sua faccia è ora distesa, i suoi fluidi umori di donna energica, attiva, sembra si siano rappresi, fatti di miele. Ed è tutta azzizzata, e odora d’acquananfa. Placata forse, per questo marito che ora, in vecchiaia, s’era capacitato a stare un po’ fermo, lui che per tutta la vita era stato un anìmulo, senza ricetto, sempre fuori per i vari punti del mondo, da Marsala a Peloro a Pachino. Il mare, là in faccia, oltre la strada, oltre la scarpata di pini e olivastri, è un abbaglio, con barche che galleggiano, che corrono trascinando la sciàbica, con nugoli di gabbiani che frullano, gridano sopra le scie. E tutta la costa del golfo, da Capo Zafferano a Monte Pellegrino, è velata di vapori azzurrini.

«Hai mangiato, hai mangiato? Samìr, prepara il caffè» dice Angelina. Entriamo in casa, nel grande soggiorno inondato di luce. Al tavolo, mi mettono davanti ricotta calda, caciocavallo, mafalde incrostate di giuggiulèna. Poi sbuca dalla cucina Samìr col caffè alla turca, si siede con noi, accende subito la sua Marlboro. Ignazio sbuccia con le mani un grosso limone, che mangia senza fare una smorfia.

«Non ti posso guardare!» fa Angelina rabbrividendo.

«Questi mi danno ‘a vita, ‘a vita!» esclama Ignazio. Samìr sorride avvolto nel fumo.

«E l’alìve? Sitròn e alìve, sitròn e alìve. E tomasso, pecorino ‘o puavr’.» Aveva questa sua parlata, il tunisino, ch’era un misto di siciliano e francese. Poi dice che dovrà andare al porto a prendere il pesce, ché le barche stanno tornando.

«Sei migliorato, Samìr» lo canzono.

«Ssìii… Qua con ‘Gnassio non posso mai imparare, si parla sempre siciliano.»

E poi dice che lavorava a Monastìr, in uno degli alberghi sul mare, che è venuto qua a imparare l’italiano, che poi vuole andare in Spagna e forse anche in Germania. Così, con le lingue, potrà trovare in Tunisia un posto migliore.

«Prepara il letto a Vicé» gli dice Angelina, e alza il coperchio d’una cassapanca e tira fuori lenzuola e coperte.

«Dormi su, nella casetta in alto,» mi fa «nella stanza di là dorme Pietro.»

«Pietro?»

«È arrivato ieri sera, ma parte domani. Sempre così, sempre così, lo vedo e non lo vedo» si lamenta.

Arriva Carmela, la nipote, con le bambine Francesca e Fernanda. Carmela è cresciuta come una figlia nella casa di Angelina e Ignazio. E ora sta a Milano, dopo essere stata tanti anni a Parigi. Fernanda, la piccola, i grandissimi occhi azzurri di porcellana, bionda, bella e festosa come un putto del Serpotta, parla come Samìr, un misto di siciliano e francese. Carmela sembra felice di ritrovare qui all’Aspra gli zii, di ritrovarsi nei suoi luoghi, e i suoi occhi nerissimi, il suo viso scarno e gentile di magrebina esprimono con ritegno la gioia.

«Chi c’è, chi c’è, chi c’è?» si sente tuonare dal fondo della casa. E spunta quell’omone che è Pietro. Afferra alla vita Carmela, la tira su in alto, la fa girare velocemente. Fa poi lo stesso con Francesca e Fernanda.

«Sono anni che non ci vediamo!» dice a me.

«Eh, ma io ti sento alla radio, da Varsavia, da Beirut.»

«Anch’io lo sento» dice Angelina «ed è come se parlasse con me… Figlio mio, quand’è che te ne starai tranquillo?»

«Ah, tranquillo!» ribatte Pietrone «Dove si sta tranquilli? Qua, a Roma, a Milano?»

«All’Aspra, non si sta tranquilli?!» protesta Ignazio.

«Ma papà, con tutti i morti ammazzati dalla mafia, con la droga, coi missili di Comiso…»

«Ah, va be’…» dice Ignazio. «Senti, sto facendo una poesia sulla bomba atomica.»

«Dopo, dopo, papà. Ora devo scappare, devo andare a Bagheria.»

Ignazio si toglie il maglione di lana e resta in canottiera.

«Mi faccio la barba» informa.

E invece esce sul terrazzo, s’impala al sole, in faccia al mare. Apre le braccia ad ali, come quando recita in pubblico le sue poesie, rovescia la testa, fa grandi respiri. Poi scalcia, si piega col busto in avanti, indietro.

«Ogni mattina, ogni mattina» fa Angelina. «Qualche volta mi resta là accroccato e mi toccherà portarlo in braccio come un nutrìco.»

Le bambine ridono.

«Io vado al porto» dice Samìr.

«E il letto di Vicé?» domanda Angelina, guardando le lenzuola e le coperte ammucchiate sopra una sedia.

«Doppo, doppo» fa Samìr uscendo.

«Deve avere qualche donna all’Aspra. Ogni scusa è buona per andare in paese. Ma non sta bene, povero figlio. Fuma soltanto, fuma. Caffè e sigarette, caffè e sigarette. Vedi com’è secco?»

Carmela, ch’era molto magra, fumava anche lei tantissimo e in quel momento fumava, scoppia a ridere.

«Anche tu figlia mia, devi smettere, devi ingrassare un pochino. L’aria di Milano non ti gode. Dovete starvene qua per un po’, tu e le tue bambine.»

Poi arriva il postino, arriva il garzone delle bombole, il garzone del pane.

Passa sul terrazzo Ignazio con la capretta al guinzaglio, poi col gallo in braccio. Un gallo grosso e selvaggio che becca chiunque, e una volta aveva beccato alle chiappe, fino a farlo sanguinare, un ragazzo che s’era introdotto in giardino per rubare le arance.

Le bambine di Carmela sono annoiate, vogliono uscire.

«Andiamo nel giardino» dice Carmela.

Era un giardino verticale di aranci e ulivi, tutto a terrazze, nel quale si saliva per una stretta scala di tufo che lo tagliava nel mezzo, una scala infinita, che arrivava in cima all’alta collina. Oltre, sull’altopiano, si stendeva la città fenicia di Solunto.

Ci arrampicammo per la scala. Era la fine di dicembre, e una giornata così limpida, un sole così caldo sembravano d’aprile. C’erano sulle piante frutti e fiori, arance e zagare, sopra vi ronzavano insetti. Sotto, nelle conche attorno ai tronchi, v’erano le campanule gialle dell’acetosella. Le bambine andarono tra gli alberi a raccogliere l’acetosella e masticarne il gambo. Io e Carmela ci sedemmo, a guardare da quell’aerea altezza lo spettacolo, il mare, la costa rocciosa, le cale con i paesini a corona d’intorno, Santa Flavia Sant’Elia Porticello Aspra… Carmela accende la sigaretta, i suoi occhi sono perduti.

«Che bellezza…»

«Oh, basta!» sbotta. «Qui è tutto un orrore, è tutto infestato di cadaveri… No, non bisogna tornare, non bisogna più tornare in questi posti.»

E poi parla con tenerezza dei due vecchi, di Angelina e Ignazio, così giovani, così pieni di vita, a ottant’anni passati. E si chiede come facciano. Si chiede se sono loro, i vecchi, che si sono staccati da tutti per vivere una loro vita che noi non capiamo o se siamo noi a esserci staccati da loro, a esser caduti… E parla ancora di Parigi, di suoi amici vecchi ma giovani, pieni di vita, di Henri e Maurice, e di Manuel che sarebbe diventato anche lui un vecchio giovane se l’incidente d’aereo non gli avesse tolto la vita; e così anche sarebbe diventato Capa, così anche Gerda…

«Forse è solo un fatto di vitalità, che è necessariamente egoismo…»

«Forse. Ma c’è un punto nella vita in cui bisogna decidere, se staccarsi dagli altri o se precipitare con gli altri.»

A tavola, c’erano i pesci portati da Samìr. Pietro parlava in arabo col tunisino, gli chiedeva il pane, il vino; lo si capiva dai gesti che faceva Samìr. Poi si mise a raccontare, Pietro, della vita che, malgrado le atrocità, i massacri quotidiani, trionfava a Beirut, del molto amore che vi si faceva, dei molti bambini che nascevano. E Ignazio allora proclama che la vita è forte, la vita è eterna, che l’uomo è eterno, sì, eterno, che sopravviverà anche all’atomica.

«Volete sentire la mia poesia contro l’atomica?»

Ma in quel momento arrivano Flora e Aurora, le due figlie di Angelina e Ignazio che stanno a Palermo, e Nara, la figlia di Flora. E ancora un poeta, amico d’Ignazio, che si mise a recitare poesie, a cantare, con una bella voce di tenore.

Carmela mi guardava e sorrideva, ma con tristezza. Angelina offriva a tutti pignolata, buccellati, cassata. Samìr andava e veniva dalla cucina col suo caffè alla turca.

Venne quindi il momento della partenza di Pietro; Angelina se ne stette lì in un canto, immobile e muta, con la sua faccia ancora più scura. E se ne andò anche Carmela con le bambine.

«Lo vedi?» mi disse. «Qui con loro la mia infanzia, la mia vita di ragazza è stata una festa, una lunga festa. Ma le feste non durano, finiscono, si dissolvono, come i sogni…»

«La vita è un sogno?»

«Mah, forse la storia è un sogno, questa nostra storia di oggi. Un incubo.»

Ignazio si mise a raccontare la vita di Rosa, la cantante popolare, una vita di disgraziata, di emarginata; di Rosa che accoltella il marito; di Rosa, sagrestana in una chiesa, che ruba i soldi dalla cassetta delle elemosine e scappa a Firenze per assistere al funerale del padre morto impiccato; della forza di Rosa, della vitalità di Rosa.

Arriva poi altra gente che viene a salutare Ignazio, a fargli gli auguri per il nuovo anno. E lui prende i suoi libri disposti a pile su un tavolo come su un banco di vendita, a ognuno fa la dedica in versi.

Quando tutti vanno via, quando resto con Angelina, Ignazio e Samìr, m’accorgo che è tardi. Dico che vado a dormire, che l’indomani dovrò alzarmi presto.

«Non resti con noi? Dove vai?» mi chiede Ignazio.

«A Selinunte.»

«A Selinunte?… Vengo con te.»

«Ma ‘Gnazio,» si lamenta Angelina «è Capodanno. Te ne vai in giro a Capodanno?»

«Vieni anche tu» le dice Ignazio.

«Ma c’è Aurora, c’è Flora, Nara…»

«Vengono anche loro.»

Passammo in mezzo ai templi della collina orientale, fra l’ammasso delle immense pietre del tempio di Zeus, basi tamburi capitelli architravi nel caos immoto d’un terremoto primordiale, e gli altri due templi eretti, dalle colonne dorate e splendenti contro l’azzurro del cielo.

Ignazio, accanto a me, non stava fermo un momento, guardava di qua, di là.

Ci arrestammo davanti alle sbarre del passaggio a livello vicino alla stazione. Queste stazioncine solitarie, remote, di luoghi antichi, sacri, come quella di Segesta, di Carthage-Hannibal, di Pompei o di Olimpia, in quest’era di autostrade, di automobili e di pullman, sono commoventi, hanno ormai anche loro qualcosa di antico, di sacro. Ti rimandano ai tempi di volenterosi e sapienti viaggiatori con baedeker in mano, di globe-trotter con pesantissimi zaini. Mi chiedo cosa avranno provato questi viaggiatori di un’epoca ormai remota a trovarsi in mezzo a queste rovine, ai templi dell’acropoli, in vista di quel mare. E mi chiedo cosa avrà mai provato l’abate Fazello quando, a dorso del suo mulo o cavallo, si trovò per primo a scoprire Selinunte, invasa d’erbe e di rovi, di serpi e uccelli, resa deserta dalla malaria, sepolta da secoli nell’oblìo. Quale terribile emozione, quale estraneamento, quale panico di fronte al titanico caos, all’affastellamento delle enormi rovine di quel tempio di Zeus nel cui centro restava diritta una sola colonna, sfida al tempo e alle furie telluriche, meridiana e rifugio d’ombra ai pastori, guida all’orizzonte di carovane arabe (Rahl’ al’ Asnam, Casale degli Idoli, chiamavano il sito) in transito verso i porti d’Occidente; quale commozione alle cave di Cusa, dove era vivo ancora il taglio dei blocchi di tufo, dove sembrava che rotolassero sotto gli ulivi i rocchi estratti e fossero stati lì appena abbandonati dai selinuntini che fuggivano all’assalto dei cartaginesi di Annibale.

Ci sono ormai posti remoti, intatti, non dissacrati, posti che smemorano del presente, che rapiscono nel passato? Io avevo provato questo rapimento a Tìndari, affacciato alla balaustra della terrazza sul vertiginoso precipizio sotto cui si stende la spiaggia sinuosa coi laghi marini, e sulla strada verso il teatro e il ginnasio, dove davanti alle casupole costruite coi blocchi di arenaria dei ruderi stavano vecchine, tutte nere e con bianchi fazzoletti damascati in testa, a filare come le Parche. L’avevo provato a Segesta, seduto sui gradini del tempio, in faccia all’orrido da cui saliva il gorgoglìo delle acque del Kàggera; nel tragico silenzio di Micene, rotto dal suono di campani di greggi invisibili; nella sperduta piccola Utica, fra gli umili mosaici e il basilico che odorava di cannella; e qui a Selinunte, la prima volta che vi giunsi, in treno appunto, tantissimi anni avanti.

S’udì un fischio e poi passò lentamente un trenino con dentro un gruppo di ragazzi che salutava dai finestrini. Da dove venivano, dove andavano in quest’ultimo giorno dell’anno?

Il custode bonario e gentile, tutto il contrario di quell’inesorabile cerbero incontrato da Cecchi a Tirìnto, ci aprì il cancello. Fermammo le macchine sotto la casa del soprintendente, un’antica torre di guardia sul ciglio del colle dell’acropoli, in faccia a quel Mediterraneo ocra e verdino. Salta giù dalla macchina Ignazio e comincia a vagare. Guarda, annusa, tocca, strappa da terra nepitella e la strofina tra le palme. Angelina invece va in cerca di fiori, rompe talli di gerani, di rose, e li conserva dentro la borsa capace. Flora e le altre sono già sparse fra le rovine, fra le colonne dei templi che assorbono e rimandano la luce rossastra del sole che va scomparendo nel mare.

Ci viene incontro festante il soprintendente, il professor Tusa, ci invita in casa. La grande scala esterna è adorna ai lati di sarcofagi e stele con iscrizioni consunte in greco e in punico. La casa somiglia a una vecchia masseria, con nidi d’uccelli nel ventaglio della porta e nidi di vespe incrostati nell’arco. Dentro, stanzoni quasi disadorni con foto ingiallite alle pareti di gruppi di campagne di scavi, di soprintendenti, archeologi, storici che per questi luoghi, per questa casa sono passati. C’è Cavallari, Salinas, Gàbrici, Kerényi. Ci accolgono la moglie e la figlia di Tusa.

«Vi dovrete accontentare, vi dovrete accontentare. Non c’è molto» dicono.

Lo studio del soprintendente è una stanza con finestre sul mare. Sembra la cabina di comando di questa nave che è la bassa e lunga collina su cui giace Selinunte. Il mare è ora purpureo, fenicio, e sagome scure di navi si vedono all’orizzonte, forse il traghetto Trapani-Tunisi, pescherecci di Mazara del Vallo e navi-cisterna cariche di petrolio. O navi da guerra. A destra e a sinistra si scorgono le due foci del Selìno, il fiume biforcato da Empedocle, dov’erano una volta i due porti, ora sepolti.

Sulla scrivania di Tusa c’è una pila del suo libro appena stampato, La scultura in pietra di Selinunte, con in copertina la testa ricciuta di Eracle, l’Eracle che lotta con l’Amazzone della metopa che decorava il tempio di Hera. L’avevo visto “nascere”, questo libro, la mattina che con l’editore Sellerio ero andato da Milano a Cinisello Balsamo, allo stabilimento tipografico. Nell’immenso capannone, uscivano velocemente dalla macchina grandi fogli quadrati con su impresse a colori le fotografie luminose con le pietre corrose e rameggiate di licheni, il cielo, il mare, le agavi e i lentischi di Selinunte; e le fotografie in bianco e nero di torsi, di statue acefale, di bellissime teste femminili e delle famose metope, quella della quadriga con Demetra e Kore, della Triade Delfica, di Europa sul Toro, di Perseo e la Medusa, di Eracle e i Cercopi…

Era una mattina di novembre. Al di là del capannone, attraverso i vetri polverosi, si scorgeva un piccolo campo, un terreno vago circondato d’altri fabbricati, d’altri capannoni con ciminiere, sfumati dalla nebbia, un campo sulle cui stoppie marcite di granturco gravava una bruma grigiastra, si stendeva una pellicola biancastra di brina gelata. Fu lì, la faccia contro il vetro, gli occhi persi in quel paesaggio, che mi prese nostalgia di Selinunte, che decisi d’andare a Selinunte per le feste natalizie. E mi ricordai del tempo – tempo remotissimo, arcaico – in cui per Omero, i tragici, per Erodoto, Diodoro, Tucidide, ero preso dalla passione per l’antico; del tempo dei miei viaggi alla scoperta dell’archeologia, in cui la Sicilia era un’isola surreale o metafisica, con solo città sepolte, necropoli, latomìe, ipogei pieni di sarcofagi di marmo luminoso, di neri lucidi crateri con dèi ed eroi graffiti; con templi teatri agorai di città morte in luoghi remoti, deserti, incontaminati. Mi ricordai della prima volta che giunsi a Selinunte. Era di marzo. Dopo aver vagato tutto il giorno per le rovine, saltato sulle pietre, sulle colonne riverse, salito sulle mura, sceso nei fossati, corso lungo il Selìno, sulle dune della spiaggia, ero giunto la sera, stanco e affamato, alla locanda di Marinella, un villaggetto di pescatori sotto la collina orientale, ai piedi dei templi. La bettola era al di là della strada, costruita con tavole, latta e cartone incatramato sopra palafitte, sotto cui sbatteva il mare. I padroni, marito e moglie, stavano trattando l’acquisto di sarde, grosse e argentate, che un pescatore gli offriva dentro una cesta col letto di alghe.

«Vuoi le sarde?» mi chiese la donna.

E accesero quindi un bel fuoco di sarmenti davanti alla porta, sulla strada e, quando si formò la brace, vi posero sopra la graticola con le sarde. Voltandole e rivoltandole, l’uomo le spalmava con un mazzetto di origano intinto nella salsa di olio, limone e aglio. Ero il solo avventore, e mangiai al tavolo con loro. E bevvi molto vino, spesso e forte di Castelvetrano. M’addormentai là, con la testa sul tavolo. Dovettero prendermi di peso, marito e moglie, e portarmi fino alla stanza, fin sul letto della locanda di fronte.

Dopo la cena di fine d’anno (avevamo mangiato lenticchie, ricotta e formaggi portati dal pastore di Segesta, bevuto vino di Mozia), scendemmo la mattina per la scala dov’erano i sarcofagi e le stele, ci sedemmo al sole sul basamento d’un tempio. Tusa mi diceva della scoperta di un gruppo di geologi riguardante le tre cave da cui i selinuntini estraevano il tufo, di composizione e consistenza diverse, per usi in progressione di tempo più raffinati, cave poste a distanza dalla città di esatta, come esoterica progressione matematica (5, 10, 20 chilometri): la cava del Landàro per le case; la cava di Cusa per i templi; la cava di Misilbesi, presso Menfi, per le sculture e le metope. Il più compatto e resistente tufo, quest’ultimo, colore del miele, che si chiama calcarenite.

Mi diceva, di questi pionieri, di questi colonizzatori megaresi che, in territorio occupato da indigeni, dominato da Sicani, Elimi e Punici, minacciato dalla potente Cartagine al di là del mare, nell’arco di soli due secoli e mezzo avevano costruito quanto di più splendido, di più grandioso ci fosse in Occidente.

Bisognerebbe capire quale idea politica, quale utopia, quale fede religiosa, qualcosa di simile alla Bibbia dei Padri Pellegrini sbarcati in America, nobilitasse il loro istinto di sopravvivenza, desse significato alla loro vitalità d’emigrati, alla loro forza nel costruire questa città grandiosa, lasciata da tempo la loro patria in Argolide, abbandonata Megara Iblea, la valle dell’ànapo, le pietre di Pantalica, nella parte orientale dell’Isola, e stanziatisi qui, in questa frontiera d’Occidente. Mentre Tusa mi parlava, Ignazio s’era arrampicato su un capitello rovinato a terra, in bilico sopra altre pietre, e lì s’era messo a mulinare le braccia, a saltellare, a fare la sua ginnastica mattutina. Ma sembrava sopra quelle pietre, fra le colonne, con la sua sciascìa bianca in testa, col suo largo trench color crema, un Priamo impazzito di dolore sulle rovine di Troia o un vecchio sacerdote che invocava con insistenza una divinità indifferente.

«’Gnazio, ‘Gnazio,» gli gridava Angelina dal ballatoio della casa «attento, cadi!»

Ci inoltrammo poi in corteo dentro l’acropoli lungo la grande arteria centrale con i templi da una parte, gli altari, le piazze e le case, le botteghe dall’altra. Tusa parlava e indicava con la punta del suo bastone qua e là. Ignazio gli trotterellava davanti, e lo interrogava, gli chiedeva spiegazione d’ogni cosa. Ai piedi dei muri, fra i lastroni della strada sbucavano i cespi di acanto, con le larghe foglie lobate che si piegavano in eleganti volute. Dall’altra parte, sul terrapieno oltre i piloni verticali delle porte di case e botteghe, si stendeva il fitto tappeto dei lentischi. Il cielo era così terso, luminoso, che si scorgeva tutta la valle del Belice e il monte Cronio, dov’erano le terme selinuntine. Giunti in fondo, alle fortificazioni dette d’Ermocrate, con la bella torre rotonda, con i fossati, i camminamenti sotterranei, cominciammo a scendere verso il Selìno. Nella scarpata, le pietre rotolate dall’acropoli, a poco a poco diradavano, il terreno si faceva renoso. Ed era una rena color miele, dello stesso colore del tufo. Sembrava che quei templi dell’acropoli, quelle are, tutto quel bosco di tufo scolpito si fosse formato da solo nel tempo, in un lento processo di agglomerazione, con la forza dei venti, delle acque, del sole; che quel bosco di tufo si facesse e disfacesse, in un ciclo continuo, eterno. Man mano che si scendeva verso il fiume, il sentiero si restringeva, s’inoltrava in mezzo alla fitta macchia di erbe e arbusti, di quercioli e perastri. Le donne erano rimaste indietro, le sentivamo parlottare, esclamare di meraviglia. Erano prese dai fiori che scoprivano lungo il sentiero, in mezzo all’assenzio e all’appio: orchidee spontanee, iris, asfodèli. Corse verso di noi Nara con uno stelo d’orchidea in mano e lo offrì a suo nonno Ignazio.

Si scorgeva ora vicina la foce del Selìno e la spiaggia ondulata di dune. Fra i lentischi e la sabbia v’erano capanni di legni e di frasche, con gente lì davanti e bambini nudi che correvano sulla battigia.

«Sono stranieri» disse Tusa. «Stanno qui a svernare.»

Traversato il ponticello sul fiume, arrivammo alla collina delle divinità catactonie, sotterranee, di Demetra Malophòros, la portatrice di mela, di Persefone, di Ecate Triformis, di Zeus Meilichios, il Benigno: stazione dei cortei funebri verso la vicina necropoli e recinti di culti segreti, di sacri misteri.

S’adagiava, tutta l’area sacra, circondata da mura, sul fianco della collina, partendo dall’alto e digradando fino alla stradina bordata di agavi. Entrammo nell’area, toccammo per prima la bocca di un pozzo rotondo, come il pozzo di Eleusi, detta la base di Ecate. Su per i gradini e il propileo, per il terreno del temenos, ci avvicinammo a poco a poco al recinto più sacro, al megaron della Malophòros. Ma prima incontrammo la grande ara, un altare su cui si sacrificavano maiali, montoni, capre; e altre piccole are d’intorno, pietre macchiate di rosso, fiammate, come se il fuoco dei sacrifici si fosse lì impresso per sempre. E poi un canale scavato nel tufo, che attraversava tutto il recinto, dentro cui scorreva l’acqua d’una sorgente vicina. Entrammo nel tempio. Sulle lastre della soglia v’erano due profonde scanalature semicircolari dove scorrevano le due ante d’una porta pesante. La porta che sigillava il segreto dei riti: riti misterici, inconoscibili. Sembrava, il nostro, per il primo, il secondo e il terzo vano del tempio, un procedere iniziatico o profanatorio. Ci arrestammo di fronte al muro di fondo, in mezzo a cui s’incavava la nicchia. Là dentro era Lei, la grande Dea, la figlia del Tempo, la Signora, la Regina, la madre dolente e ammantata di nero, la Portatrice di spighe, la generosa nutrice.

«Un muro d’indecifrabilità, d’oscurità insondabile si è eretto fino ad oggi in questo luogo. Tutte le nostre domande non hanno trovato risposte. Era questo un luogo di culto pre-greco, pre-colonico? Era un culto indigeno, minoico, fenicio? Era culto delle acque o delle divinità sotterranee?» diceva Tusa. «Qui si sono trovate dodicimila statuette fittili, arule, vasi: tutti segni che danno le risposte più disparate, spesso contrastanti…»

Eravamo seduti nell’area di un tempio da poco scoperto, vicino a quella della Malophòros, con stele intatte, intonacate di bianco e splendenti al sole, che affioravano diritte dal terreno. Dentro questo tempio, di cui ancora non si conosce la divinità a cui era dedicato, sono state trovate statuette di madri in trono che allattano il figlio.

Tusa continuava a parlare, col suo modo chiaro, didascalico, facendo segni col bastone per terra. Accanto a lui Ignazio, con quel ramo d’orchidea in mano, i suoi occhi azzurri fissi, attenti. E accanto Angelina, le mani sul grembo, il capo inclinato, gli occhi socchiusi, scura e terrosa. E tutti noi in cerchio, ad ascoltare in silenzio, nel silenzio immobile di quel luogo. Di fronte, era la collina dell’acropoli, col suo bosco confuso di pietre e colonne. E sul pendìo, verso settentrione, ben disegnati, quadrati e rettangoli di vigne, di orti, di prati su cui pascolavano pecore.

A poco a poco non sentii più le parole di Tusa, guardavo Angelina e Ignazio, questi due giovani vecchi di ottant’anni passati, guardavo Flora, e la giovane Nara… Persone reali, qui con me, su questa collina di Malophòros, in questo radioso mattino del primo giorno dell’anno, che pure a poco a poco svanivano, venivano prese in un vortice, precipitavano con me nel pozzo di Ecate, incontro alle divinità sotterranee, nel mistero e nell’oscurità infinita del Tempo.