Cosa fanno gli intellettuali oggi?
Sicuramente il nostro tempo non è quello di Gobetti e Gramsci che, all’indomani della Prima guerra mondiale, con riviste ed iniziative coraggiose animarono un dibattito culturale e politico che ha segnato un’epoca. Non meno lontani appaiono oggi ai nostri occhi figure come Bobbio, Capitini, Dolci, Calamandrei, Vittorini e tanti altri che, nell’ultimo dopoguerra, diedero un contributo decisivo alla crescita culturale e civile dell’Italia. Oggi non si vedono più in giro intellettuali di questo tipo e a nessuno viene in mente di fare una rivista come Il Politecnico. Quindici anni fa Alberto Asor Rosa provò a rompere il silenzio. Ma il suo appello cadde nel vuoto [1]. Italo Calvino aveva già messo una pietra tombale sopra la stagione dell’impegno politico degli intellettuali [2].
In questi giorni Gianfranco Perriera ha avuto il coraggio di affrontare l’annosa questione in un saggio snello, di sole 120 pagine, Figure dell’intellettuale. La passione del pensare in tempi scompigliati (Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2024), pur sapendo che sul tema sono stati scritti tanti libri. Lo ha fatto in modo originale alternando pagine di analisi storica e filosofica a pagine di letteratura. Si tratta di un libro scritto più col cuore che con la ragione, d’altra parte Pascal ci ha insegnato che il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce.
Il filo conduttore del suo lavoro ruota intorno al rapporto esistente tra parola e mondo. Egli si mostra, fin dalle prime pagine, preoccupato del discredito che circonda oggi gli intellettuali. Forse l’immagine complessiva dell’intellettuale che viene fuori dal saggio di Perriera è un po’ romantica e, non a caso, è ricorrente nella sua analisi il paragone con la figura mitica di Cassandra, inascoltata e derisa. Il suo libro si apre con queste parole:
«Vivono tempi assai grami gli intellettuali. Nell’epoca della chiacchiera amplificata dai social media […], tutti – e ci fu un tempo in cui si pensava che un tale esito potesse essere una opportuna conquista democratica – dicono più o meno selvaggiamente la propria e trovano un infinito serbatoio di immagini preconfezionate di cui potersi servire. Tutti pontificano e approvano o bistrattano il parere – e più spesso la persona – altrui senza remore. L’opinione pubblica è ridotta a un baldanzoso bailamme […]: il grido, lo sberleffo, la brutalità la fanno da padroni» [3].
Indubbiamente la descrizione di quanto avviene oggi, soprattutto nei social media, è calzante ed efficace; Gianfranco, grazie anche alla sua esperienza teatrale, sa descrivere e raccontare bene quello che accade nei nostri giorni:
«I social media stimolano la fiera dell’esposizione e delle vanità. [...]. Distrarsi, postare foto, impressioni, giudizi sommari e anche contumelie nel Museo virtuale e interattivo, dove tutto sembra ancor più finto di quanto non sia il cosiddetto reale, ma dove, almeno, si ha la sensazione di essere protagonisti della propria fiction, sono le uniche opportunità per sentire di esistere e non crollare nello sconforto» [4].
Meno convincente risulta però la spiegazione delle cause che hanno generato questo stato di cose. Certamente la crescita esponenziale del potere tecnologico, di cui parla Perriera citando Adorno e Byung-chul Han, ha influito non poco a trasformare la stessa tecnica da mezzo a fine. Ma non credo che questo basti a spiegare quanto è accaduto.
Secondo me è sbagliato pensare che gli intellettuali – soprattutto se intesi nel senso lato gramsciano – siano scomparsi o siano diventati improvvisamente muti. Se pensiamo a chi sta dietro le piattaforme dei social media, ai giornalisti televisivi (quelli della carta stampata sembra che siano destinati a scomparire), ai tanti professori universitari di discipline non solo umanistiche, ecc., si comprende meglio cosa fanno nei nostri giorni la maggior parte degli intellettuali. Fanno esattamente quello che Antonio Gramsci osservava in carcere negli anni trenta del 900: «[gli intellettuali] sono i commessi del gruppo sociale dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale» [5].
Ma, da buon pensatore dialettico, il sardo sapeva che il rapporto degli intellettuali con le classi di appartenenza e il mondo della produzione non è immediato ma mediato dal complesso delle sovrastrutture (le ideologie) di cui sono funzionari. Ed oggi, infatti, essi assolvono perfettamente questa loro precipua funzione, non tanto predicando, quanto piuttosto facendo parlare le cose, le abbondanti merci prodotte in Occidente, che la pubblicità ci sbatte ogni sera in faccia assicurandoci di vivere nel migliore dei mondi possibili.
Smettiamola allora di pensare e dire che le ideologie sono morte. Il nostro tempo è il tempo più ideologico di tutti i tempi. E non si fa altro, dalla mattina alla sera, che masticare ideologie-false coscienze.
Per la verità Gianfranco Perriera, nella parte finale del suo lavoro, non manca di ricordare il celebre passo marxiano de L’ideologia tedesca:
«La classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante […]. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali presi come idee: sono l’espressione che fanno appunto di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee di dominio».
Eppure, in queste stesse pagine, Perriera scrive: «Se ideologia, come volevano Marx ed Engels, è mascheramento degli effettivi rapporti materiali dominanti all’intellettuale spetta interpretare tale falsa coscienza». Ma come si fa ad assegnare compiti agli intellettuali che i vincoli di classe non gli consentono di svolgere? Mi sembra questo il punto più debole del libro di Perriera che ignora la grande lezione gramsciana sugli intellettuali che non può essere liquidata nei luoghi comuni che circolano oggi nel web né ridotta al frainteso concetto di intellettuale organico [6]. Ma questa è solo una delle feconde contraddizioni di cui è ricco il suo saggio.
Theodor W. Adorno è uno degli autori più citati. Perriera sa che, fin dai primi anni cinquanta del secolo scorso, il filosofo e sociologo ebreo-tedesco aveva predetto che la “società di massa” avrebbe reso superflua la riflessione – “Il pensiero disturba il guadagno” – avendo toccato con mano quello che avveniva allora negli Stati Uniti d’America. Adorno era stato costretto ad emigrare negli U.S.A. per sfuggire alla persecuzione nazista, ed anche per questo non ha mai perdonato ad Heidegger il sostegno ideologico dato al nazionalsocialismo. D’altra parte Adorno ha sempre apertamente riconosciuto i suoi debiti nei confronti di Marx e gran parte della sua opera non è altro che uno sviluppo del pensiero critico marxiano [7].
Adorno, in effetti, è stato uno dei primi nel 900 a porsi domande cruciali sul destino degli intellettuali in un mondo sempre più dominato dalle leggi del mercato. Ed avendo scritto le sue Meditazioni sulla vita offesa proprio nel Paese che indicava la via da seguire a tutto il mondo occidentale, ha potuto vedere in anticipo cose apparse chiare a tutti, in Europa, solo dopo decenni dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ma Perriera – che, nelle pagine successive, prende le distanze dal retaggio veteromarxiano del filosofo di Francoforte – sembra fraintendere la sua analisi critica riducendola ad una forma di moralismo [8].
Questo è un altro tratto caratteristico del saggio che stiamo analizzando: siamo di fronte a un’opera kantiana, con una forte tensione etica dentro, che conduce Perriera a prediligere il dover essere all’essere. Insomma in tutto il libro le esortazioni prevalgono nettamente sulla fredda analisi della realtà effettuale delle cose. Perriera, non a caso, dedica un intero capitolo del libro alla figura mitica di Cassandra, inascoltata e derisa sia dagli uomini di potere che dal popolo. Egli paragona gli intellettuali odierni alla Cassandra eschilea che col suo profetico linguaggio annuncia catastrofi.
Ma dove sono oggi gli intellettuali che annunciano catastrofi? Dove li ha visti? L’ultimo, forse, è stato Pasolini ignorato del tutto nel libro. Eppure non mancano nello stesso libro pagine lucide che descrivono in modo crudo la realtà. Si prenda, ad esempio, uno dei capitoli più belli intitolato: “Abitare il negativo”. Qui – dopo aver evocato il “deserto” e le “città bruciate” del profeta biblico Geremia – Perriera riconosce che gli intellettuali non devono invocare o fornire consolazioni: «non devono nascondere o dissimulare la condizione tragica. E’ del negativo che devono saper farsi carico».
A questo punto il nostro autore, memore dell’educazione teatrale ricevuta dal padre, fa riferimento a Beckett, all’uomo di teatro irlandese, e soprattutto alle sue prime opere (come Finale di partita), cui attribuisce il merito di aver saputo misurarsi con il negativo:
«Nel negativo deve saper dimorare come Geremia, come Cassandra, il pensare deve saper guardare la catastrofe dritto negli occhi. Della catastrofe deve farsi annunciatore».
E alle opere di Beckett, Pirandello (bella la sua analisi dell’eresia catara), di V. Havel e Comarc McCarthy, Perriera riconosce il merito di aver saputo abitare il negativo senza aver mai smesso di pensare. Riuscendo alla fine a trovare la via dell’esodo, attraverso il deserto, verso una vita più degna.
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