L’IDEALE DELLA LIBERTA’ E
LIMITI DELLA DEMOCRAZIA REALE: UN’ANALISI TRA KELSEN E BOBBIO
di Jacopo Moretti
Quest’anno ricorrono quarant’anni dalla pubblicazione di uno degli articoli
di maggior successo di Norberto Bobbio: Il futuro della democrazia, un
lavoro importante dal momento che «alcune grandi questioni del nostro tempo
possono utilmente essere inquadrate e affrontate a partire dal pensiero di
Bobbio» nonostante egli abbia «sempre avuto verso il futuro un atteggiamento di
preoccupata diffidenza» (Bovero 2011, Introduzione). Il filosofo torinese in
questo che è «il suo libro forse più famoso» (Bovero 2011, Introduzione)
approfondisce l’analisi degli esiti strutturali della teoria democratica,
mettendo alla prova i fatti, cioè valutando se nella pratica la democrazia
abbia o meno rispettato i suoi presupposti teorici. Egli individua quindi sei
promesse non mantenute, che permettono di riflettere efficacemente «sul divario
tra gli ideali democratici e la democrazia reale» (Bobbio 1995, 8) vale a dire
quel divario tra la metafisica astratta dove abitano i nostri concetti, e la
materia grezza di cui è fatto il mondo.
Il più rilevante di questi concetti, in relazione ai valori della
democrazia, è l’ideale della libertà. Bobbio rintraccia gli esiti empirici
dell’assorbimento di questo ideale in quella che lui chiama la rozza materia
che alimenta il mondo, e che invischia le nostre idee più importanti: anche la
libertà non è sfuggita a questo assorbimento ed è stata perciò in gran parte
asservita dalla realtà e dalle sue regole. Comprendere queste limitazioni però
sembra essere anche uno strumento positivo di consapevolezza e
miglioramento della coscienza democratica, e non semplicemente una
pessimistica valutazione dell’attualità politica. Per tale ragione in questo
articolo metterò a confronto il lavoro di Bobbio con alcune delle riflessioni
sulla democrazia svolte da Hans Kelsen in Vom Wesen und Wert Demokratie.
In questo testo classico della riflessione politica dello scorso secolo (la
prima edizione è del 1920 e la seconda del ‘29) Kelsen affronta la questione
della libertà in modo più isolato, cioè dando maggiore importanza al suo ruolo
nella teoria in abstracto, pur partendo però da un’urgenza storica
tanto concreta quanto non eliminabile. Gli anni venti rappresentano una fase
storica particolarmente critica per il valore della democrazia, minacciata in
Europa dal fascismo e in Russia dal bolscevismo. Fu quindi la necessità dei
tempi a spingere il grande giurista praghese «ad una revisione di questo valore
politico» (Kelsen 2023, 44). Ciò che accomuna in ogni caso questi due grandi
interpreti, che partono da prospettive differenti, è che entrambi abbracciano una
concezione formale-procedurale della democrazia (tanto che per certi versi il
testo di Bobbio potrebbe essere letto come il tentativo di mettere alla prova
il modello di Kelsen nella realtà politica degli anni ‘80 dello stesso secolo)
ma soprattutto che entrambi hanno cercato di fornire delle coordinate utili per
aiutarci a capire cos’è che chiamiamo democrazia, e cosa lo è in verità solo
apparentemente perché ne contraddice i presupposti teorici fondamentali.
Bobbio incomincia la sua disamina individuando quelle caratteristiche di
base che forniscono una definizione minima della democrazia, vale a dire degli
elementi senza i quali sarebbe impossibile parlare di governo democratico.
Questo governo poggia infatti sull’idea che il cittadino debba essere un
individuo sovrano a cui viene consegnato il diritto di poter concorrere, in
egual misura agli altri, alla formazione della volontà dello Stato, volontà
autorizzata da decisioni collettive prese secondo specifiche procedure. Non a
caso anche Kelsen afferma che la democrazia è tesa a tutelare e realizzare il
più importante dei due istinti indicati dalla ragion pratica e che
caratterizzano la natura umana: l’istinto alla libertà, che trova espressione
nel voto che segue il principio di maggioranza. Ma quest’idea di
massimizzazione della libertà da parte della democrazia, secondo Bobbio, si
scontra con la realtà e le sue limitazioni. La prima è l’impossibilità da parte
dell’individuo di potersi autodeterminare nel voto senza mediazioni di poteri
di altro tipo. Significa che il cittadino democratico non è realmente capace di
far valere la propria libertà politica dal momento che le decisioni che
vorrebbe prendere subiscono l’urto delle spinte agonistiche esercitate dai
corpi intermedi, ovvero i maggiori gruppi, le più influenti associazioni, i
partiti, che costituiscono delle sacche di potere non eludibile nella vita
politica di un paese. Questi corpi sono più incidenti degli individui isolati,
e perciò di fatto rappresentano i veri protagonisti della vita politica di una
democrazia, costringendo il cittadino, se vuole provare veramente ad
influenzare la legislazione, a scegliere uno di questi gruppi come
rappresentante dei suoi interessi. Si tratta di fatto di delegare la propria
volontà ad un altro, un gruppo, un partito, un leader, un sindacato, senza la
possibilità di poter esercitare direttamente ed autonomamente la propria
libertà politica, rinunciando al progetto, a questo punto utopico, di «uno
stato senza corpi intermedi […] una società politica in cui tra il popolo
sovrano composto da tanti individui (una testa, un voto) e i suoi
rappresentanti non vi fossero le società particolari deprecate da Rousseau»
(Bobbio 1995, 10). Questa frantumazione dell’esercizio del potere costruisce
una società poliarchica, «centrifuga» (ibidem, 10), con più centri di
potere, divisa in gruppi con interessi differenziati e contrastanti, che rende
più complesso il raggiungimento di una sintesi comune delle volontà, aumentando
invece le probabilità di conflitto ed isolamento di alcune categorie. È però
nello stesso tempo, e sarebbe un errore non sottolinearlo, una inevitabile
conseguenza della eterogeneità del demos, ovvero della pluralità
etnica, religiosa, culturale, linguistica, che già sempre contraddistingue
società molto ampie. A meno di non trovarsi in un contesto sociale marcatamente
omogeneo (come poteva darsi ad esempio in una polis del V secolo a.C.), i cittadini
sono sempre molto diversi tra loro, perché hanno interessi, obiettivi, visioni
del mondo differenti, e quindi si associano e si riuniscono a partire dalle
loro affinità, secondo un diritto irrinunciabile delle moderne democrazie
liberali.
D’altronde la necessità della formazione di gruppi e fazioni politiche è
sottolineata dallo stesso Bobbio proprio per ragioni procedurali di
organizzazione della rappresentanza politica. Viene così sorpassata quella
concezione individualistica della società, in cui il cittadino mantiene un
rapporto personale e diretto con il potere, che pure costituisce il terreno
teorico di nascita della democrazia moderna. Secondo questa nuova prospettiva
poliarchica infatti «l’esistenza di una molteplicità di partiti, sindacati,
gruppi, in effetti, altro non è che il risultato dell’esercizio delle libertà
di riunione e di associazione, libertà ‘negative’ senza le quali la stessa
libertà ‘positiva’ (intesa come autonomia) risulta svuotata e vanificata» (Pazé
2005, 139). Kelsen stesso sottolinea il ruolo centrale dei partiti nella vita
di una democrazia: essi, raggruppando cittadini della medesima opinione o
favorendo l’aggregarsi di opinioni reciprocamente assimilabili, garantiscono
loro un effettivo influsso sulla gestione degli affari pubblici. L’individuo da
solo non conta nulla nella volontà statale, ha bisogno di un partito che funga
da centro di aggregazione e in cui le persone possano sentirsi rappresentate. I
corpi intermedi sono quindi per Kelsen i portavoce delle diverse istanze
sociali ed ideali che innervano il tessuto collettivo di una democrazia,
concepita da lui soprattutto in senso pluralista. Sembrerebbe quindi mancare
l’elemento critico nei confronti dei partiti presente in Bobbio, eppure anche
il filosofo praghese più avanti sosterrà in parte la critica mossa da Bobbio, e
lo farà menzionando l’idea della «finzione della rappresentanza» (Kelsen 2023,
76). Al di là delle promesse infatti Kelsen rileva che «quanto più grande è la
collettività statale, tanto meno il popolo sembra in grado di svolgere
immediatamente l’attività veramente creatrice della formazione della volontà
dello Stato» (ibidem, 76) sia perché deve appoggiarsi ai già citati
partiti, sia perché a loro volta i partiti debbono inserirsi nel meccanismo
collegiale del Parlamento. E allora, continua Kelsen, «si fa ricorso, a questo
scopo, alla finzione della rappresentanza, all’idea, cioè, che il Parlamento
sia solo un rappresentante del popolo, che il popolo possa esprimere la propria
volontà soltanto nel Parlamento attraverso il Parlamento» quando si tratta
invece di una «evidente finzione destinata a dissimulare il reale colpo essenziale
che viene inferto al principio di libertà dal Parlamento» (Kelsen 2023, 77). La
libertà in questo senso deve adattarsi all’impianto definitivo che la sfera di
tali limitazioni assume nella strutturazione di uno stato di società,
all’interno del quale l’agire dell’individuo non può più determinarsi
indipendentemente dall’accordo con la ragione del nomos, stabilita
collegialmente e appoggiandosi a poteri indiretti, la quale rappresenta il
nuovo ordine morale dell’umanità aggregata.
L’uguaglianza, come detto, rappresenta per Kelsen uno dei due istinti
antecedenti la costituzione dell’ordine democratico. Questi istinti,
termine ripreso da Rousseau «forse il più importante teorico della democrazia»
(Kelsen 2023, 47), o postulati, con Kant, suggeriscono una
condizione congenita, naturale, che investe interiormente l’essere umano e lo
spinge a ricercare o rifiutare spontaneamente certi comportamenti. La
democrazia e le sue istituzioni salvaguardano e valorizzano queste due esigenze
– essere liberi e non avere padroni – meglio di quanto riescano a fare altre
forme di governo. Il livellamento operato dalle istituzioni democratiche,
rispetto a cui tutti i cittadini sono uguali, dato che sono trattati secondo le
medesime procedure impersonali ed astratte, viene però definito da Kelsen
«antieroico» (Kelsen 2023, 43) perché a partire da questa uguaglianza
l’individuo rinuncia alla forza incontrastata della sua volontà, e si costringe
ad abbassarsi dove stanno tutti gli altri, a neutralizzarsi al di sotto di un
comando collettivo, percependosi così indebolito. La natura che si agita in lui
si sente tradita, essa insegue il suo trionfo, cioè l’accrescimento
inarginabile della sua forza sull’intero esistente, la sovranità assoluta su
ogni cosa che riesce a raggiungere.
La nuova uguaglianza che ha in mente Kelsen invece rappresenta una
strategia di neutralizzazione delle forze oppositive che alimentano i conflitti
che da sempre minacciano l’equilibrio degli ordini politici. Essa non ha nulla
a che vedere con quella dei giusnaturalisti, non è inscritta nelle cose, ma è
un traguardo, indicato anticipatamente dalla kantiana ragione pratica, di mutua
sottomissione ad un soggetto impersonale del potere, che in una democrazia poi
sono i cittadini stessi a selezionare. Solo così tale potere può risultare
apprezzabile, e venir rispettato da tutti senza sentirsi usurpati. C’è bisogno
quindi del sostegno di un riconosciuto diritto a comandare, un diritto che
viene condiviso ed accettato nella sua pubblica funzione perché conferito dai
cittadini stessi attraverso il voto. In tal modo allora è possibile
contemporaneamente legittimare, insieme al diritto, anche un’idea di
uguaglianza. Essa infatti fuoriesce solo dal diritto, ed è, in ultimo,
uguaglianza di fronte al nomos. Credere nel nomos perciò
significa credere che un diritto oggettivo possa fornire finalmente la risposta
al problema dell’ordine e del conflitto del potere, mettendo gli individui in
rapporto di parità rispetto ad esso. È questa la ragione per cui la democrazia
deve impegnarsi a salvaguardare ad ogni costo i suoi ideali originari:
uguaglianza e libertà sono l’una il presupposto dell’altra, solo se tutti gli
individui sono uguali di fronte alla legge hanno anche pari possibilità di
autodeterminarsi politicamente nel voto.
Secondo Bobbio questa idea di pari trattamento dei cittadini di fronte alla
legge, e della loro eguale influenza nelle decisioni prese, rappresenta
un’altra delle promesse non mantenute dalla democrazia. Ciò è dimostrato dalla
persistenza dei poteri oligarchici, ovvero élite che
esercitano un’enorme influenza sulle istituzioni dello Stato attraverso il
mantenimento di un potere smisurato che fa saltare qualunque garanzia di pari
capacità dei cittadini nella formazione della volontà generale. Queste ‘caste’
spesso si accordano reciprocamente trattamenti di favore a svantaggio del
cittadino comune, o riescono ad organizzarsi in modo da non essere
«adeguatamente sottoposte a controllo democratico» (Piromalli 2016, 333). Tale
esito è facilitato dal fatto che «molti processi e organismi politici si
proiettano oggi su scala sovranazionale, ma, in assenza di strutture
democratiche consolidate, sono spesso rimessi alle decisioni di élite non
elette e raramente neutrali» (ivi). Evidentemente questo fenomeno provoca tra
le altre cose l’indebolimento del potere politico dei cittadini, che viene
subordinato alla volontà di un gruppo ristretto di persone, con la conseguenza
che:
L’attuale oligarchizzarsi della politica non può non avere effetti negativi
sulla disposizione dei cittadini alla partecipazione pubblica e sul complesso
della società civile, effetti che rischiano di danneggiare in permanenza il
tessuto democratico della nostra società (Piromalli 2016, 334)
Bobbio sembra addirittura dare questo esito per certo, tanto da asserire:
«non ho bisogno di insistere ancora su questo punto perché è un tema molto
trattato e poco controverso» (Bobbio 1995, 13). Citando Mosca egli
probabilmente intende suffragare la tesi per cui la democrazia ha dimostrato di
potersi differenziare dagli altri sistemi di governo semplicemente per il modo
in cui la minoranza decidente di volta in volta si riproduce. La sostanza
infatti non sembra cambiare, dato che i rappresentanti politici, una volta
eletti, tendono a proteggere in qualunque modo il loro potere «rendendo in gran
parte virtuale la formazione delle élites attraverso una competizione libera e
aperta a tutti e la loro circolazione, indispensabile perché il principio del
governo dei pochi assuma una connotazione democratica» (Pazé 2005, 141).
Talvolta basta pensare alle grosse organizzazioni economiche (come il Fondo
monetario internazionale), alle oligarchie finanziarie dei più importanti
gruppi di investimento, o alle «grandi dinastie politiche (i Kennedy, i Bush)»
(Pazé 2005, 141) presenti nel mondo, per convincersi che tutt’ora poteri
oligarchici esistono e condizionano la vita pubblica delle nazioni. Si tratta
certamente di un argomento molto intricato in cui è davvero facile cadere nella
trappola del complottismo, eppure se verificato potrebbe gettare ulteriori
ombre sullo stato di salute delle democrazie, e mettere in discussione la loro
effettiva capacità di contrastare il proliferare di organismi di potere
strutturati secondo logiche opposte a quelle democratiche. La conseguenza
sarebbe l’evaporazione di qualunque fiducia nella possibilità di realizzare
efficacemente quegli ideali di uguaglianza ed autodeterminazione politica che
pure sono la sostanza della teoria democratica.
Se la democrazia non è riuscita a sconfiggere del tutto il potere
oligarchico, tantomeno è riuscita ad occupare tutti gli spazi in cui si
esercita un potere che prende decisioni vincolanti per un intero gruppo sociale
(Bobbio 1995, 15)
È con queste parole che Bobbio introduce la quarta promessa non mantenuta
dalla democrazia: riuscire a far valere i metodi e le procedure democratiche di
autodeterminazione nell’intero tessuto sociale di un paese, in modo da porre i
cittadini di ogni gruppo sociale di fronte a decisioni legittime e consapevoli,
ovvero di fronte a decisioni prese secondo regole democratiche. Al contrario la
sfera della decisione democratica si è ritagliata uno spazio unicamente
politico (nel Parlamento ad esempio), lasciando scoperti tutti gli altri
momenti della vita collettiva. L’esistenza delle persone è caratterizzata da
ambiti che non hanno sempre a che fare con la politica. Sedi come: scuole,
ospedali, accademie, centri sportivi, strutture religiose, uffici, aziende, organizzazioni
di ogni tipo etc., raramente accolgono nella loro strutturazione interna
funzionalità democratiche. Sono anzi solitamente organizzate in modo più
autocratico che democratico, con un potere, una presidenza, un proprietario
sovraordinato che detta le regole e prende le decisioni più importanti.
Bobbio quindi constata che le regole e le procedure democratiche di
compromesso e partecipazione delle parti non hanno alla fine ottenuto una
ramificata estensione nella vita pubblica come conseguenza della nuova
organizzazione democratica del potere centrale, ma non lascia trapelare a
questo riguardo il suo giudizio. Egli anzi afferma che si tratta di un fenomeno
che rappresenta in realtà più «una potenzialità non sviluppata, che una vera e
propria promessa non mantenuta» (Pazé 2005, 141), perché l’anima della teoria
democratica, fin dai suoi esordi, si muoveva nella direzione di conquiste
differenti, più generali forse: «il principale obiettivo dei teorici della
democrazia […] è sempre stato la conquista del suffragio universale e,
attraverso di essa, I’espugnazione della cittadella del potere politico» (Pazé
2005, 142). È lo stesso Bobbio d’altronde a ribadire che la democrazia
costitutivamente prende in considerazione una porzione molto limitata delle
manifestazioni della vita degli individui, quella porzione cioè per cui essi
valgono come cittadini titolari di diritti politici, e quindi capaci di
prendere parte con il voto alla formazione della volontà generale dello Stato:
La democrazia moderna è nata come metodo di legittimazione e di controllo
delle decisioni politiche in senso stretto […], ove il singolo viene preso in
considerazione nel suo ruolo generale di cittadino e non nella molteplicità dei
suoi ruoli specifici di fedele di una chiesa, di lavoratore, di studente, di
soldato, di consumatore, di malato etc. (Bobbio 1995, 15)
Qualcosa che assomiglia moltissimo a ciò che lo stesso Kelsen aveva
segnalato in Essenza e valore della democrazia, dove però il
discorso si lega al tema della metamorfosi dell’ideale della libertà.
Contribuisce infatti ad alimentare la finzione dell’idea di popolo credere
nell’unità del demos come totalità degli atti individuali dei
cittadini, e quindi che un popolo sia tale perché gli individui che lo
costituiscono vi appartengono «con tutto il loro essere» (Kelsen 2023, 59).
Questa concezione del demos ha un sapore troppo romantico, a
cui Kelsen non sembra dare fiducia. Anche lui come Bobbio afferma che esistono
ambiti della vita delle persone che non rientrano nell’ordinamento, e che
quindi sono del tutto autonome dalle logiche politiche e giuridiche della
democrazia:
Dall’ordine dello Stato vengono afferrate sempre soltanto determinatissime
manifestazioni della vita dell’individuo. Una parte più o meno grande della
vita umana sfugge sempre necessariamente a quest’ordine, mentre esiste una
certa sfera in cui l’individuo è libero dallo Stato (Kelsen 2023, 59)
La democrazia perciò non è un sistema di ristrutturazione della vita, non è
una rete che imbriglia l’esistenza delle persone e ne riorganizza la sostanza
dalla base al vertice per adeguarla alle sue condizioni. Per Kelsen la
democrazia è ‘solamente’ un insieme di procedure per prendere decisioni
politiche, coinvolgendo il maggior numero possibile dei membri di una comunità
nella costruzione di queste scelte, in modo che «gli uomini entrino in campo
come soggetti del potere, in quanto partecipano alla creazione dell’ordine
statale» (Kelsen 2023, 60). Partecipare a questo processo significa
autodeterminarsi politicamente, qualcosa per cui ci si sente liberi e
indipendenti.
Ma l’edificazione di questo nuovo ordine artificiale, per il quale si dà il
proprio contributo politico, non implica affatto la conservazione della stessa
libertà naturale che si possedeva precedentemente all’esistenza dello Stato –
un ordine insomma «in cui «ciascuno […] resti non meno libero di prima»
(Rousseau 2019, 79) – secondo Kelsen si tratterebbe infatti di un’idea erronea
e troppo ambiziosa. È necessario invece ripensare la libertà «attraverso un
cambiamento di significato» (Kelsen 2023, 46) vale a dire strutturandola
secondo una differente funzione. Si tratterà di una libertà di pari grado? No,
ma di una libertà denaturata.
La denaturazione è il fenomeno chimico per cui ai fini di
ottenere uno specifico utilizzo di una proteina, si deve provocare (ma può
accadere anche spontaneamente) uno stravolgimento irreversibile della sua
struttura originaria. In questo modo essa acquista una natura certamente
derivata dalla precedente, ma di fatto completamente nuova, e che,
paradossalmente, completa la prima come realizzazione e sviluppo delle sue
possibilità di partenza. La libertà politica rappresenta un irreversibile
cambiamento di stato della libertà naturale, sottraendola alla sua primitiva
illimitatezza senza regole, e imbrigliandola adesso all’interno di un ordine
giuridico il quale ha un valore obiettivo, cioè vale «indipendentemente dalla
volontà di coloro che sono ad esso sottomessi» (Kelsen 2023, 49). Tutto ciò
significa che c’è bisogno della presenza di un potere che regoli universalmente
e obbligatoriamente i rapporti tra gli individui per evitare che questi possano
tornare a fare un uso pericoloso della libertà a cui hanno dovuto rinunciare. E
così torniamo all’argomento di cui sopra, riguardo la costituzione di un
diritto ad esercitare il proprio comando sullo Stato, il quale solamente in una
democrazia trova la propria legittimità a partire dalla volontà del popolo,
ovvero a partire dagli stessi che a quel comando saranno poi sottoposti. Per
utilizzare stavolta le parole di Bobbio, si può dire che:
Affinché una decisione presa da individui […] possa essere accettata come
una decisione collettiva occorre venga presa in base a regole […] che
stabiliscano quali sono gli individui autorizzati a prendere le decisioni
vincolanti per tutti i membri del gruppo» ergo «un regime democratico è
caratterizzato dall’attribuzione di questo potere (che in quanto autorizzato
dalla legge fondamentale diventa un diritto) a un numero molto alto di membri
del gruppo» (Bobbio 1995, 4-5)
Il capitolo dedicato alla scelta dei capi è uno dei pochi in cui Kelsen
esprime dei valori sostanziali per la vita democratica, andando oltre le
procedure formali. Questo valore è l’educazione alla democrazia che «diviene
una delle principali esigenze della democrazia stessa» (Kelsen 2023, 139). I
cittadini democratici devono educarsi tra di loro, confrontandosi, discutendo,
e partecipando a discussioni costruttive: l’educazione deve avvenire su un
piano orizzontale di scambio mentre in un regime autocratico l’educazione viene
solitamente impartita dall’alto verso il basso ed è unilaterale, assumendo i
tratti di un rapporto autoritario maestro-discepolo. Il compito della
democrazia diviene così, nella pratica della vita sociale, anche quello di
favorire presso i cittadini il rispetto reciproco, sviluppando le loro capacità
di dialogare produttivamente per saper raggiungere un compromesso con chi la
pensa diversamente.
Ma ecco che invece Bobbio nel nono paragrafo esordisce perentoriamente
dicendo che «la sesta promessa non mantenuta riguarda l’educazione alla
cittadinanza» (Bobbio 1995, 20) riportandoci crudamente alla rozza realtà delle
cose. Egli spiega che la teoria democratica, da Montesquieu a Mill, si è sempre
basata sul principio per cui una democrazia per funzionare ha bisogno di
cittadini virtuosi ed impegnati nella cosa pubblica. L’introduzione del
suffragio universale, a questo proposito, secondo Mill da un lato avrebbe
dovuto dimostrare che:
I diritti e gli interessi degli individui non rischieranno di essere
sacrificati solo se gli individui avranno la possibilità di difenderli da
soli», ma in modo particolare che «la possibilità di partecipare alla politica
arricchisce le qualità e le energie individuali, e questo accrescimento
incrementa a sua volta il benessere generale (Petrucciani 2014, 84)
Il conferimento dei diritti politici quindi avrebbe dovuto avere un grande
significato educativo, spingendo i cittadini ad informarsi, discutere,
confrontarsi, in sostanza a migliorarsi per selezionare al meglio i propri
leader. L’individuo sarebbe finalmente diventato un «membro cosciente di una
comunità» (Bobbio 1995, 21) e non più un soggetto isolato che tende unicamente
alla risoluzione dei propri interessi di parte.
A smentire queste previsioni però sta il diffuso fenomeno dell’apatia
politica, ovvero il completo disinteresse per tutto quello che avviene nelle
sedi ufficiali e nei palazzi del potere centrale. L’astensionismo dal voto o
peggio il fenomeno del voto di scambio, secondo la logica del do ut des,
sono alcune delle conseguenze più evidenti della degenerazione della
partecipazione alla cosa pubblica – una piaga ampiamente diffusa ancora oggi in
Italia basta tenere presente i dati delle ultime elezioni, secondo cui «i
numeri alla chiusura dei seggi danno l’affluenza alle urne poco sotto il 64%,
nove punti in meno rispetto alla scorsa volta, il minimo storico» che inoltre
rappresenta «un trend iniziato già da diversi anni» (Offidani 2022). Si tratta
di una tremenda smentita delle più ottimistiche speranze di partenza, un dato
che mette in discussione persino le tesi di Kelsen sull’importanza del voto
politico per la realizzazione dell’autodeterminazione personale e del bisogno
di libertà. Come interpretare il fatto che oggi nelle democrazie più sviluppate
del mondo, quelle cioè che garantiscono suffragio universale, libera scelta tra
reali alternative politiche, un sistema di informazione su larga scala diffuso
su ogni tipo di rete e dispositivo (televisioni, giornali, social media, radio
etc.), possesso di differenti categorie di diritti (sociali, politici,
individuali), molti cittadini abbiano rinunciato all’esercizio della propria
libertà politica? Abbiano smesso di occuparsi della dimensione pubblica della
loro vita per cui, per citare Tocqueville, «alle opinioni, ai sentimenti, alle
idee comuni si sostituiscono sempre più interessi particolari» (Bobbio 1995,
22)? Bisogna dare ragione a chi afferma che «si parla troppo spesso del fatto
che il comune cittadino è indifferente alla politica e di astensione al voto.
Ma, con maggiore probabilità, si tratta soltanto di insofferenza alla
politica»? (Paolo Romeo 2013, 2). Non si starà così solamente sottolineando di
più il fatto che la democrazia ha fallito il suo obiettivo più importante, vale
a dire sottrarre le persone dal loro isolamento egoistico per unirle finalmente
intorno ad una inedita idea di crescita ed interesse comune, nel rispetto e
nella considerazione di tutti? Se fosse vero allora non sarebbe assurdo credere
che le grandi battaglie per i diritti politici non siano state l’esito di un
afflato comunitaristico, bensì che non fossero altro che foglie di fico per
tentare poi di fare di quei diritti solamente «un uso personale nel proprio
interesse» (Bobbio 1995, 22).
In realtà le cose stanno probabilmente in modo diverso. In questo caso
sarebbe frettoloso parlare di fallimento della democrazia, piuttosto sarebbe
più giusto parlare di responsabilità della politica e dei suoi leader.
Soprattutto a causa dell’avvento della comunicazione di massa, la politica ha
semplificato il proprio lessico e rinunciato alla discussione partecipata,
preferendo parole-concetto immediate e programmatiche: gli slogan. La
conseguenza è l’impoverimento di qualunque tipo di educazione alla cittadinanza.
Per tale motivazione si dovrebbe ammettere, meno pessimisticamente, che:
se dunque il cittadino ci appare assai ‘maleducato’, ciò non falsifica la
previsione di Mill, ma è segno del grave deficit di discussione pubblica di cui
soffrono le nostre democrazie (Pazé 2005, 144)
Un dato allarmante su cui però si dovrebbe lavorare. Esso potrebbe fornire
la giusta consapevolezza per provare finalmente a muoversi nella direzione di
una società fondata sullo scambio di idee e l’educazione al dialogo.
I presupposti teorici dell’ideologia democratica in ogni caso, chiarisce
Bobbio, non poterono trovare compimento soprattutto a causa di complicazioni
che non erano state pronosticate e che sono scaturite dalla rozza materia della
realtà. Bisogna infatti considerare che se la società civile è un terreno
vivente e diveniente, abitato da persone che cambiano abitudini, e che nel
tempo si trovano ad affrontare problemi che richiedono capacità di adattamento
sempre differenti, la teoria, per quanto ben pensata ed organizzata, resta una
materia statica, che si arena non appena subentra nella realtà un elemento
imprevisto che ne sconvolge il quadro concettuale.
Bobbio individua tre ostacoli principali, ma di questi il più decisivo è
molto probabilmente la crescita dell’apparato amministrativo. Si tratta di un
argomento centrale nello studio dello sviluppo delle democrazie, già
tematizzato da Weber e da Kelsen, che permette di riflettere in special modo
sull’estendibilità della legalità democratica all’interno di uno Stato, ai fini
di un corretto ed efficace funzionamento della democrazia stessa. L’ostacolo
nasce da un paradosso: burocrazia e democrazia sono espressioni di due legalità
diametralmente opposte, e quindi in apparenza mutuamente escludentisi, ma hanno
nello stesso tempo bisogno l’una dell’altra per crescere e svilupparsi, tanto
che:
tutti gli stati che sono diventati più democratici sono diventati nello
stesso tempo più burocratici perché il processo di burocratizzazione è stato in
gran parte una conseguenza del processo di democratizzazione (Bobbio 1995, 24)
Ciò è rilevante perché dal momento che l’apparato amministrativo è
solamente una cinghia di trasmissione, non può regolarsi seguendo un’idea di
libertà ed autodeterminazione degli individui, i funzionari pubblici, perché
dando spazio ad una loro eventuale libertà decisionale impedirebbe il corretto
funzionamento della macchina burocratica stessa. In questo modo si metterebbe a
rischio l’intera impalcatura democratica soprastante. Per questo Kelsen, in un
capitolo fondamentale, afferma che:
L’esecuzione è per essenza sottomessa all’idea di legalità, e l’idea di
legalità, in un certo stadio della formazione della volontà dello Stato, entra
in conflitto con l’idea di democrazia (Kelsen 2023, 118)
Cosa accadrebbe infatti se ogni legge votata dal Parlamento venisse poi
anche discussa e votata da ogni funzionario, ministero, apparato, se ogni
istituto burocratico dovesse avviare le medesime procedure democratiche della
fase legislativa ordinaria per tenere conto della volontà di ciascuno? Si
andrebbe incontro ad un corto circuito della legislazione, che non troverebbe
mai effettiva applicazione, contrastata continuamente dalla «volontà di parte»
delle «circoscrizioni amministrative autonome» (Ibidem, 120). La
democratizzazione della pubblica amministrazione rappresenta un pericolo da
scongiurare, motivo per cui si preferisce a contrario organizzare gli apparati
burocratici mediante una direzione gerarchica ed autocratica, una direzione per
la quale il funzionario risulti un semplice esecutore di comandi impartiti
dall’alto, senza avere la possibilità di decidere se approvarli o meno secondo
una sua personale valutazione del caso.
Il ‘destino’ di una democrazia dipende di conseguenza anche dalla sua
capacità di autolimitarsi, ovvero di restringere la democraticità delle sue
funzioni ad un certo grado della vita pubblica, quello della legislazione, che
significa anche restringere ulteriormente il significato della libertà
individuale. Il principio della denaturazione della libertà non raggiunge
livello di chiarezza così espressivo quanto nell’evidenza che per far
funzionare al meglio la democrazia, e garantirne l’essenza, cioè l’autodeterminazione
politica, si è costretti ad organizzare l’insieme delle sue funzioni pubbliche
privando i funzionari di qualunque libertà decisionale, inserendoli in un
meccanismo «di potere ordinato gerarchicamente, dal vertice alla base, e quindi
diametralmente opposto al sistema di potere democratico» (Bobbio 1995, 24).
Concludo con un’ultima riflessione sul principio di denaturazione della
libertà che ci aiuta a tirare le somme del discorso. Il tentativo di dare forma
nella realtà ad una certa idea di organizzazione della vita di una comunità di
persone, soprattutto nel caso della democrazia, si scontra con i limiti
della prassi. La prassi è la parte attiva della teoria, è la spinta
verso la realtà delle cose, nel tentativo di configurarle secondo un ordine
nuovo, un ordine che prima non c’era perché non era stato pensato. La
democrazia è questa idea nuova e molto ambiziosa. È la prima volta che una
forma di governo viene concepita per tutelare la libertà dei cittadini, con
tutte le straordinarie conseguenze che ciò implica (libertà di pensiero, di
fede religiosa, di associazione etc.). Non dovrebbe perciò stupirci se un’idea tanto
rivoluzionaria abbia spesso fatto fatica a trovare spazio, e se ancora adesso
ci appaia soltanto parzialmente realizzata. Infatti la forza che le nostre idee
esercitano sulle cose, è della medesima intensità di quella che poi queste
restituiscono loro. Spesso con esiti severi, come è successo con molti ideali
dei secoli passati: la realtà li ha rifiutati e noi non possiamo più confidare
in loro.
Non si tratta però di un fallimento, bensì di un adattamento
fisiologico. Questo adattamento è stato chiamato principio di
denaturazione. Tale principio non ha a che fare solamente con l’idea di
democrazia e l’ideale di libertà, bensì è una costante nella vita umana. Se
vogliamo riguarda la straordinaria imprevedibilità del mondo che ci circonda,
di cui proprio per tale ragione cerchiamo di comprendere le leggi. Conoscere le
regole del gioco ci permette infatti di trovare soluzioni sempre più efficaci.
È questo il motivo per cui la democrazia ha bisogno di tempo: il suo adattamento
alle cose, ai tempi e ai popoli è in continua evoluzione. L’esito del processo
di denaturazione dei nostri ideali astratti nella materia cruda del mondo
produce spesso un divario tra i nostri progetti di partenza e i loro risultati
reali. Questo divario ci lascia spiazzati, a volte delusi. Invece quel divario
è solo il grado zero di un percorso di crescita e perfezionamento. È infatti
caratteristica essenziale della democrazia la dinamicità, laddove i regimi
autocratici sono statici e mortiferi. Le istituzioni democratiche nascono per
poter essere perfezionate e migliorate. Credere nella democrazia, significa
credere in una società aperta, che cambia, dove non ci sono né schiavi né
padroni.
Nonostante tutti gli ostacoli e le promesse non mantenute, non sembra
quindi davvero possibile abbracciare una prospettiva catastrofica dell’avvenire
delle democrazie. D’altronde è lo stesso Bobbio ad affermarlo, chiosando in
conclusione che:
Le promesse non mantenute e gli ostacoli non previsti di cui mi sono
occupato non sono state tali da ‘trasformare’ un regime democratico in un
regime autocratico. La differenza sostanziale tra gli uni e gli altri è
rimasta. Il contenuto minimo dello stato democratico non è venuto meno […]. Vi
sono democrazie più solide o meno solide, più vulnerabili e più invulnerabili;
vi sono gradi diversi di approssimazione al modello ideale, ma anche la più
lontana dal modello non può essere in alcun modo confusa con uno stato
autocratico e tantomeno con uno totalitario (Bobbio 1995, 27)
A conferma che la denaturazione dell’ideale, quell’adattamento fisiologico
della teoria nella prassi politica, non deve disorientare la buona coscienza
democratica.
Bibliografia essenziale
Bobbio, Norberto. 1995 [1984]. Il futuro della democrazia.
Torino: Einaudi. [Prima
edizione «Nuovo
Politecnico»].
Bovero, Michelangelo. 2011 [edizione digitale giugno 2014]. Il
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Offidani, Beatrice. 2022. “Elezioni 2022: il partito più forte è
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Pazé, Valentina. 2005. “Norberto Bobbio e le premesse non
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XXI, n.1: 137-147.
Petrucciani, Stefano. 2014. Democrazia. Torino: Einaudi.
Piromalli, Eleonora. 2016. “Il futuro della democrazia nel tempo
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Romeo, Paolo. 2013. “Norberto Bobbio e il futuro della
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Rousseau, Jean-Jacques. 2019. Il contratto sociale. Milano:
Giangiacomo Feltrinelli editore.
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