06 giugno 2024

LA DEMOCRAZIA NELLE TEORIE DI KELSEN E BOBBIO E NELLA REALTA'

 


L’IDEALE DELLA LIBERTA’  E LIMITI DELLA DEMOCRAZIA REALE: UN’ANALISI TRA KELSEN E BOBBIO

di Jacopo Moretti

 

Quest’anno ricorrono quarant’anni dalla pubblicazione di uno degli articoli di maggior successo di Norberto Bobbio: Il futuro della democrazia, un lavoro importante dal momento che «alcune grandi questioni del nostro tempo possono utilmente essere inquadrate e affrontate a partire dal pensiero di Bobbio» nonostante egli abbia «sempre avuto verso il futuro un atteggiamento di preoccupata diffidenza» (Bovero 2011, Introduzione). Il filosofo torinese in questo che è «il suo libro forse più famoso» (Bovero 2011, Introduzione) approfondisce l’analisi degli esiti strutturali della teoria democratica, mettendo alla prova i fatti, cioè valutando se nella pratica la democrazia abbia o meno rispettato i suoi presupposti teorici. Egli individua quindi sei promesse non mantenute, che permettono di riflettere efficacemente «sul divario tra gli ideali democratici e la democrazia reale» (Bobbio 1995, 8) vale a dire quel divario tra la metafisica astratta dove abitano i nostri concetti, e la materia grezza di cui è fatto il mondo.

 

Il più rilevante di questi concetti, in relazione ai valori della democrazia, è l’ideale della libertà. Bobbio rintraccia gli esiti empirici dell’assorbimento di questo ideale in quella che lui chiama la rozza materia che alimenta il mondo, e che invischia le nostre idee più importanti: anche la libertà non è sfuggita a questo assorbimento ed è stata perciò in gran parte asservita dalla realtà e dalle sue regole. Comprendere queste limitazioni però sembra essere anche uno strumento positivo di consapevolezza e miglioramento della coscienza democratica, e non semplicemente una pessimistica valutazione dell’attualità politica. Per tale ragione in questo articolo metterò a confronto il lavoro di Bobbio con alcune delle riflessioni sulla democrazia svolte da Hans Kelsen in Vom Wesen und Wert Demokratie. In questo testo classico della riflessione politica dello scorso secolo (la prima edizione è del 1920 e la seconda del ‘29) Kelsen affronta la questione della libertà in modo più isolato, cioè dando maggiore importanza al suo ruolo nella teoria in abstracto, pur partendo però da un’urgenza storica tanto concreta quanto non eliminabile. Gli anni venti rappresentano una fase storica particolarmente critica per il valore della democrazia, minacciata in Europa dal fascismo e in Russia dal bolscevismo. Fu quindi la necessità dei tempi a spingere il grande giurista praghese «ad una revisione di questo valore politico» (Kelsen 2023, 44). Ciò che accomuna in ogni caso questi due grandi interpreti, che partono da prospettive differenti, è che entrambi abbracciano una concezione formale-procedurale della democrazia (tanto che per certi versi il testo di Bobbio potrebbe essere letto come il tentativo di mettere alla prova il modello di Kelsen nella realtà politica degli anni ‘80 dello stesso secolo) ma soprattutto che entrambi hanno cercato di fornire delle coordinate utili per aiutarci a capire cos’è che chiamiamo democrazia, e cosa lo è in verità solo apparentemente perché ne contraddice i presupposti teorici fondamentali.

 

Bobbio incomincia la sua disamina individuando quelle caratteristiche di base che forniscono una definizione minima della democrazia, vale a dire degli elementi senza i quali sarebbe impossibile parlare di governo democratico. Questo governo poggia infatti sull’idea che il cittadino debba essere un individuo sovrano a cui viene consegnato il diritto di poter concorrere, in egual misura agli altri, alla formazione della volontà dello Stato, volontà autorizzata da decisioni collettive prese secondo specifiche procedure. Non a caso anche Kelsen afferma che la democrazia è tesa a tutelare e realizzare il più importante dei due istinti indicati dalla ragion pratica e che caratterizzano la natura umana: l’istinto alla libertà, che trova espressione nel voto che segue il principio di maggioranza. Ma quest’idea di massimizzazione della libertà da parte della democrazia, secondo Bobbio, si scontra con la realtà e le sue limitazioni. La prima è l’impossibilità da parte dell’individuo di potersi autodeterminare nel voto senza mediazioni di poteri di altro tipo. Significa che il cittadino democratico non è realmente capace di far valere la propria libertà politica dal momento che le decisioni che vorrebbe prendere subiscono l’urto delle spinte agonistiche esercitate dai corpi intermedi, ovvero i maggiori gruppi, le più influenti associazioni, i partiti, che costituiscono delle sacche di potere non eludibile nella vita politica di un paese. Questi corpi sono più incidenti degli individui isolati, e perciò di fatto rappresentano i veri protagonisti della vita politica di una democrazia, costringendo il cittadino, se vuole provare veramente ad influenzare la legislazione, a scegliere uno di questi gruppi come rappresentante dei suoi interessi. Si tratta di fatto di delegare la propria volontà ad un altro, un gruppo, un partito, un leader, un sindacato, senza la possibilità di poter esercitare direttamente ed autonomamente la propria libertà politica, rinunciando al progetto, a questo punto utopico, di «uno stato senza corpi intermedi […] una società politica in cui tra il popolo sovrano composto da tanti individui (una testa, un voto) e i suoi rappresentanti non vi fossero le società particolari deprecate da Rousseau» (Bobbio 1995, 10). Questa frantumazione dell’esercizio del potere costruisce una società poliarchica, «centrifuga» (ibidem, 10), con più centri di potere, divisa in gruppi con interessi differenziati e contrastanti, che rende più complesso il raggiungimento di una sintesi comune delle volontà, aumentando invece le probabilità di conflitto ed isolamento di alcune categorie. È però nello stesso tempo, e sarebbe un errore non sottolinearlo, una inevitabile conseguenza della eterogeneità del demos, ovvero della pluralità etnica, religiosa, culturale, linguistica, che già sempre contraddistingue società molto ampie. A meno di non trovarsi in un contesto sociale marcatamente omogeneo (come poteva darsi ad esempio in una polis del V secolo a.C.), i cittadini sono sempre molto diversi tra loro, perché hanno interessi, obiettivi, visioni del mondo differenti, e quindi si associano e si riuniscono a partire dalle loro affinità, secondo un diritto irrinunciabile delle moderne democrazie liberali.

 

D’altronde la necessità della formazione di gruppi e fazioni politiche è sottolineata dallo stesso Bobbio proprio per ragioni procedurali di organizzazione della rappresentanza politica. Viene così sorpassata quella concezione individualistica della società, in cui il cittadino mantiene un rapporto personale e diretto con il potere, che pure costituisce il terreno teorico di nascita della democrazia moderna. Secondo questa nuova prospettiva poliarchica infatti «l’esistenza di una molteplicità di partiti, sindacati, gruppi, in effetti, altro non è che il risultato dell’esercizio delle libertà di riunione e di associazione, libertà ‘negative’ senza le quali la stessa libertà ‘positiva’ (intesa come autonomia) risulta svuotata e vanificata» (Pazé 2005, 139). Kelsen stesso sottolinea il ruolo centrale dei partiti nella vita di una democrazia: essi, raggruppando cittadini della medesima opinione o favorendo l’aggregarsi di opinioni reciprocamente assimilabili, garantiscono loro un effettivo influsso sulla gestione degli affari pubblici. L’individuo da solo non conta nulla nella volontà statale, ha bisogno di un partito che funga da centro di aggregazione e in cui le persone possano sentirsi rappresentate. I corpi intermedi sono quindi per Kelsen i portavoce delle diverse istanze sociali ed ideali che innervano il tessuto collettivo di una democrazia, concepita da lui soprattutto in senso pluralista. Sembrerebbe quindi mancare l’elemento critico nei confronti dei partiti presente in Bobbio, eppure anche il filosofo praghese più avanti sosterrà in parte la critica mossa da Bobbio, e lo farà menzionando l’idea della «finzione della rappresentanza» (Kelsen 2023, 76). Al di là delle promesse infatti Kelsen rileva che «quanto più grande è la collettività statale, tanto meno il popolo sembra in grado di svolgere immediatamente l’attività veramente creatrice della formazione della volontà dello Stato» (ibidem, 76) sia perché deve appoggiarsi ai già citati partiti, sia perché a loro volta i partiti debbono inserirsi nel meccanismo collegiale del Parlamento. E allora, continua Kelsen, «si fa ricorso, a questo scopo, alla finzione della rappresentanza, all’idea, cioè, che il Parlamento sia solo un rappresentante del popolo, che il popolo possa esprimere la propria volontà soltanto nel Parlamento attraverso il Parlamento» quando si tratta invece di una «evidente finzione destinata a dissimulare il reale colpo essenziale che viene inferto al principio di libertà dal Parlamento» (Kelsen 2023, 77). La libertà in questo senso deve adattarsi all’impianto definitivo che la sfera di tali limitazioni assume nella strutturazione di uno stato di società, all’interno del quale l’agire dell’individuo non può più determinarsi indipendentemente dall’accordo con la ragione del nomos, stabilita collegialmente e appoggiandosi a poteri indiretti, la quale rappresenta il nuovo ordine morale dell’umanità aggregata.

 

L’uguaglianza, come detto, rappresenta per Kelsen uno dei due istinti antecedenti la costituzione dell’ordine democratico. Questi istinti, termine ripreso da Rousseau «forse il più importante teorico della democrazia» (Kelsen 2023, 47), o postulati, con Kant, suggeriscono una condizione congenita, naturale, che investe interiormente l’essere umano e lo spinge a ricercare o rifiutare spontaneamente certi comportamenti. La democrazia e le sue istituzioni salvaguardano e valorizzano queste due esigenze – essere liberi e non avere padroni – meglio di quanto riescano a fare altre forme di governo. Il livellamento operato dalle istituzioni democratiche, rispetto a cui tutti i cittadini sono uguali, dato che sono trattati secondo le medesime procedure impersonali ed astratte, viene però definito da Kelsen «antieroico» (Kelsen 2023, 43) perché a partire da questa uguaglianza l’individuo rinuncia alla forza incontrastata della sua volontà, e si costringe ad abbassarsi dove stanno tutti gli altri, a neutralizzarsi al di sotto di un comando collettivo, percependosi così indebolito. La natura che si agita in lui si sente tradita, essa insegue il suo trionfo, cioè l’accrescimento inarginabile della sua forza sull’intero esistente, la sovranità assoluta su ogni cosa che riesce a raggiungere.

 

La nuova uguaglianza che ha in mente Kelsen invece rappresenta una strategia di neutralizzazione delle forze oppositive che alimentano i conflitti che da sempre minacciano l’equilibrio degli ordini politici. Essa non ha nulla a che vedere con quella dei giusnaturalisti, non è inscritta nelle cose, ma è un traguardo, indicato anticipatamente dalla kantiana ragione pratica, di mutua sottomissione ad un soggetto impersonale del potere, che in una democrazia poi sono i cittadini stessi a selezionare. Solo così tale potere può risultare apprezzabile, e venir rispettato da tutti senza sentirsi usurpati. C’è bisogno quindi del sostegno di un riconosciuto diritto a comandare, un diritto che viene condiviso ed accettato nella sua pubblica funzione perché conferito dai cittadini stessi attraverso il voto. In tal modo allora è possibile contemporaneamente legittimare, insieme al diritto, anche un’idea di uguaglianza. Essa infatti fuoriesce solo dal diritto, ed è, in ultimo, uguaglianza di fronte al nomos. Credere nel nomos perciò significa credere che un diritto oggettivo possa fornire finalmente la risposta al problema dell’ordine e del conflitto del potere, mettendo gli individui in rapporto di parità rispetto ad esso. È questa la ragione per cui la democrazia deve impegnarsi a salvaguardare ad ogni costo i suoi ideali originari: uguaglianza e libertà sono l’una il presupposto dell’altra, solo se tutti gli individui sono uguali di fronte alla legge hanno anche pari possibilità di autodeterminarsi politicamente nel voto.

 

Secondo Bobbio questa idea di pari trattamento dei cittadini di fronte alla legge, e della loro eguale influenza nelle decisioni prese, rappresenta un’altra delle promesse non mantenute dalla democrazia. Ciò è dimostrato dalla persistenza dei poteri oligarchici, ovvero élite che esercitano un’enorme influenza sulle istituzioni dello Stato attraverso il mantenimento di un potere smisurato che fa saltare qualunque garanzia di pari capacità dei cittadini nella formazione della volontà generale. Queste ‘caste’ spesso si accordano reciprocamente trattamenti di favore a svantaggio del cittadino comune, o riescono ad organizzarsi in modo da non essere «adeguatamente sottoposte a controllo democratico» (Piromalli 2016, 333). Tale esito è facilitato dal fatto che «molti processi e organismi politici si proiettano oggi su scala sovranazionale, ma, in assenza di strutture democratiche consolidate, sono spesso rimessi alle decisioni di élite non elette e raramente neutrali» (ivi). Evidentemente questo fenomeno provoca tra le altre cose l’indebolimento del potere politico dei cittadini, che viene subordinato alla volontà di un gruppo ristretto di persone, con la conseguenza che:

 

L’attuale oligarchizzarsi della politica non può non avere effetti negativi sulla disposizione dei cittadini alla partecipazione pubblica e sul complesso della società civile, effetti che rischiano di danneggiare in permanenza il tessuto democratico della nostra società (Piromalli 2016, 334)

 

Bobbio sembra addirittura dare questo esito per certo, tanto da asserire: «non ho bisogno di insistere ancora su questo punto perché è un tema molto trattato e poco controverso» (Bobbio 1995, 13). Citando Mosca egli probabilmente intende suffragare la tesi per cui la democrazia ha dimostrato di potersi differenziare dagli altri sistemi di governo semplicemente per il modo in cui la minoranza decidente di volta in volta si riproduce. La sostanza infatti non sembra cambiare, dato che i rappresentanti politici, una volta eletti, tendono a proteggere in qualunque modo il loro potere «rendendo in gran parte virtuale la formazione delle élites attraverso una competizione libera e aperta a tutti e la loro circolazione, indispensabile perché il principio del governo dei pochi assuma una connotazione democratica» (Pazé 2005, 141). Talvolta basta pensare alle grosse organizzazioni economiche (come il Fondo monetario internazionale), alle oligarchie finanziarie dei più importanti gruppi di investimento, o alle «grandi dinastie politiche (i Kennedy, i Bush)» (Pazé 2005, 141) presenti nel mondo, per convincersi che tutt’ora poteri oligarchici esistono e condizionano la vita pubblica delle nazioni. Si tratta certamente di un argomento molto intricato in cui è davvero facile cadere nella trappola del complottismo, eppure se verificato potrebbe gettare ulteriori ombre sullo stato di salute delle democrazie, e mettere in discussione la loro effettiva capacità di contrastare il proliferare di organismi di potere strutturati secondo logiche opposte a quelle democratiche. La conseguenza sarebbe l’evaporazione di qualunque fiducia nella possibilità di realizzare efficacemente quegli ideali di uguaglianza ed autodeterminazione politica che pure sono la sostanza della teoria democratica.

 

Se la democrazia non è riuscita a sconfiggere del tutto il potere oligarchico, tantomeno è riuscita ad occupare tutti gli spazi in cui si esercita un potere che prende decisioni vincolanti per un intero gruppo sociale (Bobbio 1995, 15)

 

È con queste parole che Bobbio introduce la quarta promessa non mantenuta dalla democrazia: riuscire a far valere i metodi e le procedure democratiche di autodeterminazione nell’intero tessuto sociale di un paese, in modo da porre i cittadini di ogni gruppo sociale di fronte a decisioni legittime e consapevoli, ovvero di fronte a decisioni prese secondo regole democratiche. Al contrario la sfera della decisione democratica si è ritagliata uno spazio unicamente politico (nel Parlamento ad esempio), lasciando scoperti tutti gli altri momenti della vita collettiva. L’esistenza delle persone è caratterizzata da ambiti che non hanno sempre a che fare con la politica. Sedi come: scuole, ospedali, accademie, centri sportivi, strutture religiose, uffici, aziende, organizzazioni di ogni tipo etc., raramente accolgono nella loro strutturazione interna funzionalità democratiche. Sono anzi solitamente organizzate in modo più autocratico che democratico, con un potere, una presidenza, un proprietario sovraordinato che detta le regole e prende le decisioni più importanti.

 

Bobbio quindi constata che le regole e le procedure democratiche di compromesso e partecipazione delle parti non hanno alla fine ottenuto una ramificata estensione nella vita pubblica come conseguenza della nuova organizzazione democratica del potere centrale, ma non lascia trapelare a questo riguardo il suo giudizio. Egli anzi afferma che si tratta di un fenomeno che rappresenta in realtà più «una potenzialità non sviluppata, che una vera e propria promessa non mantenuta» (Pazé 2005, 141), perché l’anima della teoria democratica, fin dai suoi esordi, si muoveva nella direzione di conquiste differenti, più generali forse: «il principale obiettivo dei teorici della democrazia […] è sempre stato la conquista del suffragio universale e, attraverso di essa, I’espugnazione della cittadella del potere politico» (Pazé 2005, 142). È lo stesso Bobbio d’altronde a ribadire che la democrazia costitutivamente prende in considerazione una porzione molto limitata delle manifestazioni della vita degli individui, quella porzione cioè per cui essi valgono come cittadini titolari di diritti politici, e quindi capaci di prendere parte con il voto alla formazione della volontà generale dello Stato:

 

La democrazia moderna è nata come metodo di legittimazione e di controllo delle decisioni politiche in senso stretto […], ove il singolo viene preso in considerazione nel suo ruolo generale di cittadino e non nella molteplicità dei suoi ruoli specifici di fedele di una chiesa, di lavoratore, di studente, di soldato, di consumatore, di malato etc. (Bobbio 1995, 15)

 

Qualcosa che assomiglia moltissimo a ciò che lo stesso Kelsen aveva segnalato in Essenza e valore della democrazia, dove però il discorso si lega al tema della metamorfosi dell’ideale della libertà.

Contribuisce infatti ad alimentare la finzione dell’idea di popolo credere nell’unità del demos come totalità degli atti individuali dei cittadini, e quindi che un popolo sia tale perché gli individui che lo costituiscono vi appartengono «con tutto il loro essere» (Kelsen 2023, 59). Questa concezione del demos ha un sapore troppo romantico, a cui Kelsen non sembra dare fiducia. Anche lui come Bobbio afferma che esistono ambiti della vita delle persone che non rientrano nell’ordinamento, e che quindi sono del tutto autonome dalle logiche politiche e giuridiche della democrazia:

 

Dall’ordine dello Stato vengono afferrate sempre soltanto determinatissime manifestazioni della vita dell’individuo. Una parte più o meno grande della vita umana sfugge sempre necessariamente a quest’ordine, mentre esiste una certa sfera in cui l’individuo è libero dallo Stato (Kelsen 2023, 59)

 

La democrazia perciò non è un sistema di ristrutturazione della vita, non è una rete che imbriglia l’esistenza delle persone e ne riorganizza la sostanza dalla base al vertice per adeguarla alle sue condizioni. Per Kelsen la democrazia è ‘solamente’ un insieme di procedure per prendere decisioni politiche, coinvolgendo il maggior numero possibile dei membri di una comunità nella costruzione di queste scelte, in modo che «gli uomini entrino in campo come soggetti del potere, in quanto partecipano alla creazione dell’ordine statale» (Kelsen 2023, 60). Partecipare a questo processo significa autodeterminarsi politicamente, qualcosa per cui ci si sente liberi e indipendenti.

 

Ma l’edificazione di questo nuovo ordine artificiale, per il quale si dà il proprio contributo politico, non implica affatto la conservazione della stessa libertà naturale che si possedeva precedentemente all’esistenza dello Stato – un ordine insomma «in cui «ciascuno […] resti non meno libero di prima» (Rousseau 2019, 79) – secondo Kelsen si tratterebbe infatti di un’idea erronea e troppo ambiziosa. È necessario invece ripensare la libertà «attraverso un cambiamento di significato» (Kelsen 2023, 46) vale a dire strutturandola secondo una differente funzione. Si tratterà di una libertà di pari grado? No, ma di una libertà denaturata.

La denaturazione è il fenomeno chimico per cui ai fini di ottenere uno specifico utilizzo di una proteina, si deve provocare (ma può accadere anche spontaneamente) uno stravolgimento irreversibile della sua struttura originaria. In questo modo essa acquista una natura certamente derivata dalla precedente, ma di fatto completamente nuova, e che, paradossalmente, completa la prima come realizzazione e sviluppo delle sue possibilità di partenza. La libertà politica rappresenta un irreversibile cambiamento di stato della libertà naturale, sottraendola alla sua primitiva illimitatezza senza regole, e imbrigliandola adesso all’interno di un ordine giuridico il quale ha un valore obiettivo, cioè vale «indipendentemente dalla volontà di coloro che sono ad esso sottomessi» (Kelsen 2023, 49). Tutto ciò significa che c’è bisogno della presenza di un potere che regoli universalmente e obbligatoriamente i rapporti tra gli individui per evitare che questi possano tornare a fare un uso pericoloso della libertà a cui hanno dovuto rinunciare. E così torniamo all’argomento di cui sopra, riguardo la costituzione di un diritto ad esercitare il proprio comando sullo Stato, il quale solamente in una democrazia trova la propria legittimità a partire dalla volontà del popolo, ovvero a partire dagli stessi che a quel comando saranno poi sottoposti. Per utilizzare stavolta le parole di Bobbio, si può dire che:

 

Affinché una decisione presa da individui […] possa essere accettata come una decisione collettiva occorre venga presa in base a regole […] che stabiliscano quali sono gli individui autorizzati a prendere le decisioni vincolanti per tutti i membri del gruppo» ergo «un regime democratico è caratterizzato dall’attribuzione di questo potere (che in quanto autorizzato dalla legge fondamentale diventa un diritto) a un numero molto alto di membri del gruppo» (Bobbio 1995, 4-5)

 

Il capitolo dedicato alla scelta dei capi è uno dei pochi in cui Kelsen esprime dei valori sostanziali per la vita democratica, andando oltre le procedure formali. Questo valore è l’educazione alla democrazia che «diviene una delle principali esigenze della democrazia stessa» (Kelsen 2023, 139). I cittadini democratici devono educarsi tra di loro, confrontandosi, discutendo, e partecipando a discussioni costruttive: l’educazione deve avvenire su un piano orizzontale di scambio mentre in un regime autocratico l’educazione viene solitamente impartita dall’alto verso il basso ed è unilaterale, assumendo i tratti di un rapporto autoritario maestro-discepolo. Il compito della democrazia diviene così, nella pratica della vita sociale, anche quello di favorire presso i cittadini il rispetto reciproco, sviluppando le loro capacità di dialogare produttivamente per saper raggiungere un compromesso con chi la pensa diversamente.

 

Ma ecco che invece Bobbio nel nono paragrafo esordisce perentoriamente dicendo che «la sesta promessa non mantenuta riguarda l’educazione alla cittadinanza» (Bobbio 1995, 20) riportandoci crudamente alla rozza realtà delle cose. Egli spiega che la teoria democratica, da Montesquieu a Mill, si è sempre basata sul principio per cui una democrazia per funzionare ha bisogno di cittadini virtuosi ed impegnati nella cosa pubblica. L’introduzione del suffragio universale, a questo proposito, secondo Mill da un lato avrebbe dovuto dimostrare che:

 

I diritti e gli interessi degli individui non rischieranno di essere sacrificati solo se gli individui avranno la possibilità di difenderli da soli», ma in modo particolare che «la possibilità di partecipare alla politica arricchisce le qualità e le energie individuali, e questo accrescimento incrementa a sua volta il benessere generale (Petrucciani 2014, 84)

 

Il conferimento dei diritti politici quindi avrebbe dovuto avere un grande significato educativo, spingendo i cittadini ad informarsi, discutere, confrontarsi, in sostanza a migliorarsi per selezionare al meglio i propri leader. L’individuo sarebbe finalmente diventato un «membro cosciente di una comunità» (Bobbio 1995, 21) e non più un soggetto isolato che tende unicamente alla risoluzione dei propri interessi di parte.

A smentire queste previsioni però sta il diffuso fenomeno dell’apatia politica, ovvero il completo disinteresse per tutto quello che avviene nelle sedi ufficiali e nei palazzi del potere centrale. L’astensionismo dal voto o peggio il fenomeno del voto di scambio, secondo la logica del do ut des, sono alcune delle conseguenze più evidenti della degenerazione della partecipazione alla cosa pubblica – una piaga ampiamente diffusa ancora oggi in Italia basta tenere presente i dati delle ultime elezioni, secondo cui «i numeri alla chiusura dei seggi danno l’affluenza alle urne poco sotto il 64%, nove punti in meno rispetto alla scorsa volta, il minimo storico» che inoltre rappresenta «un trend iniziato già da diversi anni» (Offidani 2022). Si tratta di una tremenda smentita delle più ottimistiche speranze di partenza, un dato che mette in discussione persino le tesi di Kelsen sull’importanza del voto politico per la realizzazione dell’autodeterminazione personale e del bisogno di libertà. Come interpretare il fatto che oggi nelle democrazie più sviluppate del mondo, quelle cioè che garantiscono suffragio universale, libera scelta tra reali alternative politiche, un sistema di informazione su larga scala diffuso su ogni tipo di rete e dispositivo (televisioni, giornali, social media, radio etc.), possesso di differenti categorie di diritti (sociali, politici, individuali), molti cittadini abbiano rinunciato all’esercizio della propria libertà politica? Abbiano smesso di occuparsi della dimensione pubblica della loro vita per cui, per citare Tocqueville, «alle opinioni, ai sentimenti, alle idee comuni si sostituiscono sempre più interessi particolari» (Bobbio 1995, 22)? Bisogna dare ragione a chi afferma che «si parla troppo spesso del fatto che il comune cittadino è indifferente alla politica e di astensione al voto. Ma, con maggiore probabilità, si tratta soltanto di insofferenza alla politica»? (Paolo Romeo 2013, 2). Non si starà così solamente sottolineando di più il fatto che la democrazia ha fallito il suo obiettivo più importante, vale a dire sottrarre le persone dal loro isolamento egoistico per unirle finalmente intorno ad una inedita idea di crescita ed interesse comune, nel rispetto e nella considerazione di tutti? Se fosse vero allora non sarebbe assurdo credere che le grandi battaglie per i diritti politici non siano state l’esito di un afflato comunitaristico, bensì che non fossero altro che foglie di fico per tentare poi di fare di quei diritti solamente «un uso personale nel proprio interesse» (Bobbio 1995, 22).

 

In realtà le cose stanno probabilmente in modo diverso. In questo caso sarebbe frettoloso parlare di fallimento della democrazia, piuttosto sarebbe più giusto parlare di responsabilità della politica e dei suoi leader. Soprattutto a causa dell’avvento della comunicazione di massa, la politica ha semplificato il proprio lessico e rinunciato alla discussione partecipata, preferendo parole-concetto immediate e programmatiche: gli slogan. La conseguenza è l’impoverimento di qualunque tipo di educazione alla cittadinanza. Per tale motivazione si dovrebbe ammettere, meno pessimisticamente, che:

 

se dunque il cittadino ci appare assai ‘maleducato’, ciò non falsifica la previsione di Mill, ma è segno del grave deficit di discussione pubblica di cui soffrono le nostre democrazie (Pazé 2005, 144)

 

Un dato allarmante su cui però si dovrebbe lavorare. Esso potrebbe fornire la giusta consapevolezza per provare finalmente a muoversi nella direzione di una società fondata sullo scambio di idee e l’educazione al dialogo.

I presupposti teorici dell’ideologia democratica in ogni caso, chiarisce Bobbio, non poterono trovare compimento soprattutto a causa di complicazioni che non erano state pronosticate e che sono scaturite dalla rozza materia della realtà. Bisogna infatti considerare che se la società civile è un terreno vivente e diveniente, abitato da persone che cambiano abitudini, e che nel tempo si trovano ad affrontare problemi che richiedono capacità di adattamento sempre differenti, la teoria, per quanto ben pensata ed organizzata, resta una materia statica, che si arena non appena subentra nella realtà un elemento imprevisto che ne sconvolge il quadro concettuale.

 

Bobbio individua tre ostacoli principali, ma di questi il più decisivo è molto probabilmente la crescita dell’apparato amministrativo. Si tratta di un argomento centrale nello studio dello sviluppo delle democrazie, già tematizzato da Weber e da Kelsen, che permette di riflettere in special modo sull’estendibilità della legalità democratica all’interno di uno Stato, ai fini di un corretto ed efficace funzionamento della democrazia stessa. L’ostacolo nasce da un paradosso: burocrazia e democrazia sono espressioni di due legalità diametralmente opposte, e quindi in apparenza mutuamente escludentisi, ma hanno nello stesso tempo bisogno l’una dell’altra per crescere e svilupparsi, tanto che:

 

tutti gli stati che sono diventati più democratici sono diventati nello stesso tempo più burocratici perché il processo di burocratizzazione è stato in gran parte una conseguenza del processo di democratizzazione (Bobbio 1995, 24)

 

Ciò è rilevante perché dal momento che l’apparato amministrativo è solamente una cinghia di trasmissione, non può regolarsi seguendo un’idea di libertà ed autodeterminazione degli individui, i funzionari pubblici, perché dando spazio ad una loro eventuale libertà decisionale impedirebbe il corretto funzionamento della macchina burocratica stessa. In questo modo si metterebbe a rischio l’intera impalcatura democratica soprastante. Per questo Kelsen, in un capitolo fondamentale, afferma che:

 

L’esecuzione è per essenza sottomessa all’idea di legalità, e l’idea di legalità, in un certo stadio della formazione della volontà dello Stato, entra in conflitto con l’idea di democrazia (Kelsen 2023, 118)

 

Cosa accadrebbe infatti se ogni legge votata dal Parlamento venisse poi anche discussa e votata da ogni funzionario, ministero, apparato, se ogni istituto burocratico dovesse avviare le medesime procedure democratiche della fase legislativa ordinaria per tenere conto della volontà di ciascuno? Si andrebbe incontro ad un corto circuito della legislazione, che non troverebbe mai effettiva applicazione, contrastata continuamente dalla «volontà di parte» delle «circoscrizioni amministrative autonome» (Ibidem, 120). La democratizzazione della pubblica amministrazione rappresenta un pericolo da scongiurare, motivo per cui si preferisce a contrario organizzare gli apparati burocratici mediante una direzione gerarchica ed autocratica, una direzione per la quale il funzionario risulti un semplice esecutore di comandi impartiti dall’alto, senza avere la possibilità di decidere se approvarli o meno secondo una sua personale valutazione del caso.

 

Il ‘destino’ di una democrazia dipende di conseguenza anche dalla sua capacità di autolimitarsi, ovvero di restringere la democraticità delle sue funzioni ad un certo grado della vita pubblica, quello della legislazione, che significa anche restringere ulteriormente il significato della libertà individuale. Il principio della denaturazione della libertà non raggiunge livello di chiarezza così espressivo quanto nell’evidenza che per far funzionare al meglio la democrazia, e garantirne l’essenza, cioè l’autodeterminazione politica, si è costretti ad organizzare l’insieme delle sue funzioni pubbliche privando i funzionari di qualunque libertà decisionale, inserendoli in un meccanismo «di potere ordinato gerarchicamente, dal vertice alla base, e quindi diametralmente opposto al sistema di potere democratico» (Bobbio 1995, 24).

 

Concludo con un’ultima riflessione sul principio di denaturazione della libertà che ci aiuta a tirare le somme del discorso. Il tentativo di dare forma nella realtà ad una certa idea di organizzazione della vita di una comunità di persone, soprattutto nel caso della democrazia, si scontra con i limiti della prassi. La prassi è la parte attiva della teoria, è la spinta verso la realtà delle cose, nel tentativo di configurarle secondo un ordine nuovo, un ordine che prima non c’era perché non era stato pensato. La democrazia è questa idea nuova e molto ambiziosa. È la prima volta che una forma di governo viene concepita per tutelare la libertà dei cittadini, con tutte le straordinarie conseguenze che ciò implica (libertà di pensiero, di fede religiosa, di associazione etc.). Non dovrebbe perciò stupirci se un’idea tanto rivoluzionaria abbia spesso fatto fatica a trovare spazio, e se ancora adesso ci appaia soltanto parzialmente realizzata. Infatti la forza che le nostre idee esercitano sulle cose, è della medesima intensità di quella che poi queste restituiscono loro. Spesso con esiti severi, come è successo con molti ideali dei secoli passati: la realtà li ha rifiutati e noi non possiamo più confidare in loro.

 

Non si tratta però di un fallimento, bensì di un adattamento fisiologico. Questo adattamento è stato chiamato principio di denaturazione. Tale principio non ha a che fare solamente con l’idea di democrazia e l’ideale di libertà, bensì è una costante nella vita umana. Se vogliamo riguarda la straordinaria imprevedibilità del mondo che ci circonda, di cui proprio per tale ragione cerchiamo di comprendere le leggi. Conoscere le regole del gioco ci permette infatti di trovare soluzioni sempre più efficaci. È questo il motivo per cui la democrazia ha bisogno di tempo: il suo adattamento alle cose, ai tempi e ai popoli è in continua evoluzione. L’esito del processo di denaturazione dei nostri ideali astratti nella materia cruda del mondo produce spesso un divario tra i nostri progetti di partenza e i loro risultati reali. Questo divario ci lascia spiazzati, a volte delusi. Invece quel divario è solo il grado zero di un percorso di crescita e perfezionamento. È infatti caratteristica essenziale della democrazia la dinamicità, laddove i regimi autocratici sono statici e mortiferi. Le istituzioni democratiche nascono per poter essere perfezionate e migliorate. Credere nella democrazia, significa credere in una società aperta, che cambia, dove non ci sono né schiavi né padroni.

 

Nonostante tutti gli ostacoli e le promesse non mantenute, non sembra quindi davvero possibile abbracciare una prospettiva catastrofica dell’avvenire delle democrazie. D’altronde è lo stesso Bobbio ad affermarlo, chiosando in conclusione che:

Le promesse non mantenute e gli ostacoli non previsti di cui mi sono occupato non sono state tali da ‘trasformare’ un regime democratico in un regime autocratico. La differenza sostanziale tra gli uni e gli altri è rimasta. Il contenuto minimo dello stato democratico non è venuto meno […]. Vi sono democrazie più solide o meno solide, più vulnerabili e più invulnerabili; vi sono gradi diversi di approssimazione al modello ideale, ma anche la più lontana dal modello non può essere in alcun modo confusa con uno stato autocratico e tantomeno con uno totalitario (Bobbio 1995, 27)

A conferma che la denaturazione dell’ideale, quell’adattamento fisiologico della teoria nella prassi politica, non deve disorientare la buona coscienza democratica.

 

Bibliografia essenziale

 

Bobbio, Norberto. 1995 [1984]. Il futuro della democrazia. Torino: Einaudi. [Prima

         edizione «Nuovo Politecnico»].

Bovero, Michelangelo. 2011 [edizione digitale giugno 2014]. Il futuro di Norberto Bobbio. Bari: Gius. Laterza & Figli Spa

Kelsen, Hans. 2023. La democrazia. Bologna: il Mulino.

Offidani, Beatrice. 2022. “Elezioni 2022: il partito più forte è quello dell’astensione”.     Huffington Post Italia 26 settembre. www.huffingtonpost.it

Pazé, Valentina. 2005. “Norberto Bobbio e le premesse non mantenute della     democrazia. Vent’anni dopo”. Teoria politica XXI, n.1: 137-147.

Petrucciani, Stefano. 2014. Democrazia. Torino: Einaudi.

Piromalli, Eleonora. 2016. “Il futuro della democrazia nel tempo presente. Promesse     non mantenute e speranze della democrazia”. Nuova Antologia Vol. 616, Fasc.          2278: 327-43.

Romeo, Paolo. 2013. “Norberto Bobbio e il futuro della democrazia”.      Montesquieu.it, 5(1), 219. https://doi.org/10.6092/issn.2421-4124/5173.

Rousseau, Jean-Jacques. 2019. Il contratto sociale. Milano: Giangiacomo Feltrinelli        editore.

 

 articolo tratto da:  https://www.leparoleelecose.it/?p=49498



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