La maledizione degli “ismi”
di Remo Ceserani
Sono passati ormai 33 anni da quando il
filosofo francese Jean-François Lyotard, che era stato invitato dal
governo canadese a studiare la situazione delle università del paese,
pubblicò il suo rapporto su quella che chiamò la «condizione
postmoderna»,[1]
caratterizzando così la situazione storica in cui si trovava la società
contemporanea. Sono passati 28 anni da quando la rivista britannica
«New Left Review» ha pubblicato un densissimo saggio dello studioso
americano Fredric Jameson intitolato Postmodernismo o la logica culturale del tardo-capitalismo,[2]
e 26-25 anni da quando lo storico dell’architettura Charles Jencks si è
chiesto, dal suo punto di vista, cosa potesse essere il
«postmodernismo» e se si potesse parlare, in proposito, di «nuovo
classicismo in arte e architettura».[3]
Più o meno negli stessi anni il semiotico italiano Omar Calabrese,
allievo di Umberto Eco, si è chiesto, dal suo punto di vista, se si
potesse parlare di «età neobarocca».[4]
Da allora le discussioni sull’argomento sono state intensissime e
confuse e le dichiarazioni che il postmodernismo, nato negli anni
Ottanta, fosse ormai morto e defunto molto numerose.
Di recente ho letto con interesse, su
questa rivista, un saggio molto denso e appassionato di Raffaele
Donnarumma nel fascicolo dedicato alla Letteratura degli anni zero e curato dallo stesso Donnarumma e da Guido Mazzoni.[5]
Il saggio è condotto con acribia critica, è accompagnato da analisi
spesso persuasive di parecchi testi (soprattutto romanzi italiani
dell’ultimo decennio, con in posizioni di spicco Gomorra di
Saviano e i romanzi di Walter Siti). Si sente in Donnarumma
un’orgogliosa sicurezza delle proprie convinzioni, accompagnata da un
ammirevole impegno ad affrontare i problemi tenendo conto della loro
complessità e delle molte sfumature dei temi in discussione. E però il
saggio a me sembra, nel suo impianto teorico e storiografico, abbastanza
discutibile.
Il fascicolo di «allegoria» contiene,
oltre al saggio di Donnarumma, un testo del direttore della rivista
Romano Luperini sull’attuale condizione degli intellettuali, un saggio
di Andrea Cortellessa, che riprende a grandi tratti lo scritto con cui
ha presentato una sua recente antologia di prosatori contemporanei sotto
l’etichetta di Narratori degli Anni Zero,[6]
un articolo di Gilda Policastro ricco di statistiche e riflessioni
sulla situazione dell’editoria italiana, per l’appunto negli anni Zero, e
infine un bel saggio di Gianluigi Simonetti, pieno di osservazioni
fini, spunti storiografici, distinzioni e giudizi convincenti sulla
narrativa o comunque sulle scritture che a partire dagli anni Ottanta e
con straordinario incremento negli ultimi decenni hanno trattato il tema
della lotta armata in Italia.
Continua su «Allegoria»
[1] J.-F. Lyotard, La Condition postmoderne, Minuit, Paris 1979 (trad. it. La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981); Id., Le Postmoderne expliqué aux enfants. Correspondance 1982-1985, Galilée, Paris 1986 (trad. it. Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano 1987).
[2] F. Jameson, Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism, in «New Left Review», 146, July-August 1984, pp. 59-92.
[3] C. Jencks, What is Postmodernism?, St. Martin’s Press, London 1986; Id., Post-Modernism, the new Classicism in Art and Architecture, Rizzoli, New York 1987.
[4] O. Calabrese, L’età neobarocca, Laterza, Roma-Bari 1987.
[5] R. Donnarumma, Ipermodernità: ipotesi per un congedo dal postmoderno, in «allegoria», XXIII, 64, 2, 2011, pp. 15-50.
[6] A. Cortellessa, Narratori degli Anni Zero. Gli esordienti del primo decennio, in «L’Illuminista», 31-32-33, 2011.
Il faut être absolument hypermodernes. Una replica a Remo Ceserani
di Raffaele Donnarumma
[Questo intervento è uscito sul sito di «Allegoria». Il saggio di Ceserani si legge qui]
Giudizi (e generazioni?)
Con la cultura e l’acume che abbiamo
sempre ammirato in lui, Remo Ceserani risponde alla sezione sugli «Anni
Zero» di «Allegoria» 64 e, in particolare, al mio saggio Ipermodernità. Ipotesi per un congedo dal postmoderno.
In larga misura, Ceserani sviluppa la posizione che ha assunto da anni:
il postmoderno rappresenta una frattura epocale, e la sua letteratura e
la sua cultura hanno raggiunto risultati diseguali, ma spesso molto
alti. Condivido, anzitutto, la fiducia nella possibilità, pur rischiosa,
di una storia del presente; vari aspetti della sua ricostruzione;
numerose osservazioni o principi direttivi che propone: perciò, darò per
acquisito molto di quell’analisi. Giudico poi alcuni motivi di
contrasto solo apparenti; ma su altri punti decisivi resto, invece, in
disaccordo.
Prima di tutto, vorrei sgombrare il
campo da qualche equivoco. Posso rassicurare Ceserani: sono ben lontano
dal pensare che Pynchon o DeLillo o Rushdie non siano scrittori
straordinari; sono un grandissimo fan di Gehry; non mi sono perso un
film di Lynch o di Altman; ascolto spesso Philip Glass. E – bisogna
dirlo? – giudicherei inabilitato alla parola pubblica chi non avesse
letto, studiato e meditato i pensatori e i filosofi che hanno scritto
tra anni Sessanta e Novanta e che, del resto, mi guarderei bene
dall’etichettare tutti come postmoderni, per postmoderna che ne possa
essere stata la ricezione. Debbo aggiungere che, di fronte alle milizie
celesti che Ceserani squaderna (e che includono, senza troppo amore di
distinzione, «Nabokov, Pynchon, DeLillo, Vonnegut, Tournier, Pennac,
Michou, Amis, Fowles, Barnes, McEwan, Byatt, Banville, Ishiguru,
Kureishi, Rushdie, Ondaatje, Borges, Cortázar, Bolaño, Saramago, Marías,
Vila-Matas, Bernhard, Jelinek, Hrabal, Kertesz, Kazakov, Murakami,
Altman, Coen, ecc. ecc.») lo sparuto manipolo di nostri connazionali
(«Eco, Calvino, Tabucchi e Tondelli ») (p. 212) fa un po’ arrossire –
con l’eccezione, anche se non entusiasmante, di Calvino (il quale, per
altro, non ha mai preteso di entusiasmare); e con qualche simpatia per
il primo Tondelli. Individuare in un movimento culturale una dominante
ideologica più o meno dichiarata o latente, come molti critici del
postmoderno hanno fatto, non significa affatto seppellire sotto quella
tutto e tutti; soprattutto, non significa affatto cancellare il valore
delle opere: semmai, vuol dire restituirgli un qualche spessore e una
qualche forza contraddittoria per averle poste in una rete di relazioni.
Persino Marx, si sa, si appassionava a quello sdottorante reazionario
che era Balzac. Figuriamoci se uno sdegnoso avversario dell’ideologia
postmoderna come me non può sprofondarsi nella lettura di Nabokov o di
Bernhard (e proprio per quello, non di Eco). Dunque: la mia avversione
per un’ideologia non è affatto ostilità preconcetta per l’arte o per le
acquisizioni che quella stessa cultura ha prodotto. Trovo anzi
stupefacente che si misuri l’apprezzamento per un fatto estetico con
l’adesione ai suoi contenuti o alla sua visione del mondo.
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