29 luglio 2013

DIETOLOGIE IERI E OGGI




 DietologieI greci e la modica quantità
Così con il cibo si sconfigge l’hybris. Da Aristotele a Plutarco il mangiare sostenibile è segno di civiltà e ideale politico
.
Marino Niola
.
È l’uomo a fare la dieta o è la dieta a fare l’uomo? È vera la seconda. Perché l’umanità nasce nel momento in cui inventa il suo regime alimentare. Come dire che homo sapiens e homo edens sono la stessa persona. Mentre i nostri antenati pre-umani si comportavano come animali e mangiavano quel che offriva madre natura. Sostanzialmente carne cruda e vegetali. Un menù per individui forti, ma letale per i più deboli. Ed è proprio il fatto di scegliere cosa, come e quanto mangiare a far evolvere la specie. Insomma siamo a dieta da sempre. Molto prima che arrivassero i Dukan, Messegué, Atkins, Oshawa. E gli innumerevoli profeti del benessere che oggi dispensano ammonimenti, comandamenti e suggerimenti. Aglio olio e sermoncino.
In realtà non abbiamo inventato nulla che gli antichi non sapessero già. Senza la moderna nutraceutica, ma in compenso dall’alto di una superiore concezione dell’uomo e del suo posto nella natura e nella società. Così, se noi consideriamo la dietetica una parte della medicina, per il grande Ippocrate invece è il contrario. È la medicina a esser parte della dietetica. Semplicemente perché dare a ciascuno il cibo che serve a tenere in equilibrio corpo e anima è il primo e indispensabile presupposto di ogni cura. Il celebre motto ippocratico «il cibo sia la tua terapia e la tua terapia sia il cibo» è giunto fino ai nostri giorni come leit motif di un’etica dietetica. Proclamata a chiare lettere nel primo punto del rituale giuramento di Ippocrate, in cui i medici promettono ad Apollo, Asclepio, Igea e Panacea, i numi tutelari della loro arte, di regolare la dieta per il bene dei malati. Dove però la parola diaíta non significa semplicemente modo di mangiare ma forma di vita. Ed è qui la differenza con la nostra idea di regime alimentare. Che per lo più si risolve in un controllo meramente quantitativo delle calorie, del peso e delle misure. Laddove i Greci parlano di vita, noi riduciamo tutto a girovita. Ecco perché le privazioni che ci infliggiamo per avere il ventre piatto e gli addominali a tartaruga spesso non producono altro se non frustrazione e depressione, anoressia e bulimia.
Pericoli che gli antichi intravvedono benissimo. Tant’è vero che nelle Epidemie, un importante testo ippocratico, si cita come esempio estremo di accanimento salutistico, il caso quasi mostruoso di Eradico. Che costringeva i suoi pazienti a fare jogging anche con la febbre, li sfiancava con incontri di lotta e li estenuava con bagni di vapore che li prosciugavano. Magri e scattanti ma spesso agonizzanti. E lui stesso era il primo a imporsi questa disciplina dissennata, fatta di poco cibo e moltissima palestra. Senza il minimo strappo alla regola, nemmeno il più innocente peccato di gola. Finendo per condurre una vita da moribondo in perfetta salute. Un antenato di quegli ayatollah della leggerezza che oggi vivono da malati per morire sani.
Platone, nemico di ogni eccesso, rimprovera a questo tipo di ortoressici un’attenzione esagerata al proprio corpo che li rende un inutile peso per la polis. Su questo l’autore della Repubblica non ha dubbi. Le diete non servono a prolungare la vita all’infinito né a produrre highlander performanti e superdotati. Ma a essere felici, operosi e in possesso del giusto equilibrio psicofisico. Che non dipende dall’applicazione pedissequa di format nutrizionali, come facciamo spesso noi, quando ci proponiamo di perdere sette chili in sette giorni. Ma è il risultato di un circolo virtuoso. Fatto di conoscenza di sé e dei propri limiti. L’effetto di un negoziato tra bisogni e desideri, tra prevenzione e soddisfazione. È in questo senso che la massima socratica «conosci te stesso» va letta anche alla luce dell’idea platonica della cura di sé. Intesa prima di tutto come capacità di leggere e di ascoltare il proprio organismo, di decifrarne i segnali. E di conseguenza stabilire ciò che è bene e ciò che è male per la salute di ciascuno. Per questo, secondo Platone, un cittadino responsabile è il miglior medico di se stesso. Nessun luminare può saperne di più e meglio dell’interessato. Siamo a distanza siderale da quell’idea anfetaminica della forma fisica che oggi chiamiamo fitness. E dalle tante mode alimentari rilanciate dai guru della nutrizione. Queste sarebbero state considerate delle forme di dietologia per schiavi dagli Ateniesi dell’età di Pericle. Che non a caso distinguono due tipi di medici. Quelli per gli uomini liberi, che dialogano e negoziano le prescrizioni con il malato. E quelli per gli schiavi, che impongono ricette e ordinano regimi come dogmi indiscutibili.
Se dunque i Greci non amano gli eccessi, non è certo per sudditanza al diktat della magrezza. Ma per una ragione sociale e politica. Perché abbuffarsi è il segno di una dismisura disdicevole. Una hybris sempre stigmatizzata, sia sul piano morale che su quello fisico. Perché a fare gli uomini è proprio la misura, la regola. Gli appetiti sregolati sono tipici dei bruti e delle bestie. Come Polifemo che non a caso mangia come un maiale e beve fino a ubriacarsi. E come Erissíttone, mitico re della Tessaglia, che dopo aver letteralmente divorato tutti gli averi di famiglia, vende perfino sua figlia in cambio di cibo. E alla fine mangia se stesso per placare la sua voracità bulimica. E perfino l’etimologia della parola bulimia—da boûs bue e limós fame—fa capire che gli antichi considerano le grandi abbuffate un comportamento antisociale. Un aggiotaggio delle risorse politicamente scorretto. Molto meglio una dieta sobria ed equilibrata. Come quelle suggerite da Socrate e dal neoplatonico Porfirio, pane, miele, olio, frutta, verdura, legumi, formaggio. Pochissima carne, poco pesce. E una modica quantità di vino che fa volare il pensiero.
Insomma mangiare di tutto un po’ aiuta a mantenere peso e forma stabili. Evitando le dannosissime diete yo-yo, che fanno male alla salute e alla condotta, su questo sono tutti concordi. Da Aristotele a Galeno, da Pitagora a Plutarco. È un mangiare sostenibile che diventa contrassegno di civiltà. Critica culturale e ideale politico. Con qualche millennio di anticipo sulla nostra abbondanza frugale.
1-continua
* * *
la Repubblica lunedì 29 luglio 2013
.
 Dietologie. Quello che passa il convento
Perché la religione vuole il digiuno purificatore. Cristiani, ebrei, musulmani e anche induisti tutti sono chiamati all’astensione rituale dal cibo come penitenza e momento di iniziazione
Marino Niola
.
Più che sulla bilancia il cibo pesa sulla coscienza. Lo dimostrano le privazioni cui ci sottoponiamo da millenni. In principio per la salvezza dell’anima, oggi per la salute del corpo. Una volta in nome di dio, adesso in nome dell’io. Ma al di là delle motivazioni, spesso gli argomenti e i comportamenti si somigliano in maniera sorprendente. Certo è che da che mondo è mondo religione fa rima con restrizione. Penitenza con astinenza. Magrezza con purezza.
Ne erano arciconvinti i Padri della Chiesa, come Tertulliano che considerava il digiuno un passaporto per la vita eterna. Di fatto il moralista di Cartagine trasforma peso e taglia in misure spirituali. Sostenendo che i corpi superslim passano più agevolmente per la porta del Paradiso, che è notoriamente stretta come la cruna di un ago. Oltretutto, se si è molto leggeri, il giorno del giudizio la resurrezione della carne sarà rapida.
E non era da meno sant’Atanasio, per il quale «il digiuno guarisce le malattie, libera il corpo dalle sostanze superflue, scaccia i demoni, espelle i cattivi pensieri, purifica il cuore». Insomma depura l’anima e redime la carne. Come dire che l’Onnipotente è il supremo dietologo dell’umanità e allontanarsi dalle sue prescrizioni non solo nuoce gravemente alla salute ma è anche di ostacolo alla salvezza. Non a caso san Tommaso d’Aquino nella Summa Teologica teorizza la necessità di eliminare dal regime del buon cristiano tutti quei bocconi prelibati che danno piacere e predispongono al peccato. Perché appetito e desiderio sono due facce della stessa medaglia. Lo diceva anche Platone, cinquecento anni prima del Cristianesimo, quando considerava copule e crapule, “etère e manicaretti”, due bombe a tempo per la Repubblica. E in fondo dall’antica cena di Trimalcione ai più recenti Bunga Bunga corre un lungo filo rosso che unisce letti e tavole. E questo resta vero perfino in una società apparentemente secolarizzata come la nostra. A dirlo è l’antropologa femminista Elspeth Probyn dell’Università di Sidney nel suo Carnal Appetites: Foodsexidentities che individua negli chef televisivi – come Gordon Ramsey, Jamie Oliver e Carlo Cracco – i sex symbol del nostro tempo proprio in quanto dispensatori di piaceri, ancorché alimentari.
Su questa linea rigorista sono sempre state d’accordo tutte le religioni, monoteiste e non solo. Se gli antichi Greci erano tenuti ad astenersi dal cibo per prendere parte ai Misteri Eleusini e a quelli Orfici, i Farisei non mangiavano per ben due giorni alla settimana, il lunedì e giovedì. Gli Ebrei invece praticano l’astinenza in occasione dello Yom Kippur, il giorno dell’Espiazione. Mentre i Musulmani lo fanno durante il periodo del ramadan, quando la doppia rinuncia, alimentare e sessuale, purifica l’uomo eliminando i principali fattori di corruzione spirituale e di contaminazione fisica. E nell’Induismo, come diceva Gandhi, non c’è preghiera senza digiuno.
Stare a stomaco vuoto diventa una sorta di misura immunitaria e al tempo stesso iniziatica. Una sacra quarantena. Come quella di Pitagora che per quaranta giorni non tocca neanche una foglia d’insalata alla vigilia del suo viaggio in Egitto per compiere il suo percorso sapienziale di pensatore-guaritore. Idem per Mosè che resta a bocca asciutta “quaranta dì e quaranta nott” – per dirla con il grande Enzo Iannacci – prima di ricevere le Tavole della legge. E ripete la dieta quando si prepara a distruggere il vitello d’oro. Stessa durata ha il digiuno di Gesù nel deserto e quello di san Francesco prima di dettare la frugalissima regola del suo Ordine. Mendicante e rinunciante. Al punto da vietare ai confratelli di possedere terra da coltivare, scorte in dispensa e cantine piene. Un tantino più concessivi i laboriosi Benedettini, i pazienti Certosini e i sapienti Domenicani che in ogni caso devono accontentarsi di quel che passa il convento. E comunque nei monasteri tirare la cinghia è un atto di devozione quotidiana, a metà tra terapia e liturgia.
Insomma il minimo comune denominatore di tutti questi stenti e patimenti è che diminuire il peso del cibo compensa quello eccedente dei peccati. Una bilancia metà fisica che mette su un piatto la carne e sull’altro lo spirito. La sacralizzazione di un principio dietologico. Come dire che il drenaggio del corpo elimina le tossine dell’anima. E rende buoni, puliti e giusti. Più adatti all’incontro con Dio. È per questo che i cristiani osservano il cosiddetto digiuno eucaristico prima della comunione. E per la stessa ragione le grandi sante, Caterina da Siena, Chiara d’Assisi, Teresa d’Avila, sono passate alla storia per il loro ascetismo estremo. Che trasforma le privazioni in un superamento dei limiti del corpo. Il celebre storico americano Rudolph Bell, professore all’Università del New Jersey, ha parlato di “santa anoressia”. Una volta la chiamavano anorexia mirabilis, cioè miracolosa, quasi fosse opera divina. È questo il modello cui si ispirano le cosiddette fasting girls, le ragazze inappetenti che nell’Inghilterra vittoriana trasformano il digiuno in un gesto di contestazione dell’ordine patriarcale. Una sorta di femminismo alimentare che svuota letteralmente il loro corpo per renderlo inadatto alle funzioni e alle mansioni cui sarebbe destinato. Come dire che se la società maschilista vuole chiudere la bocca alle donne, loro non la aprono neanche per mangiare. Facendo di questo singolare sciopero della fame la fragorosa rottura di un format etico ed estetico. Così la privazione si smarca dalla religione. E lascia il campo alla medicina, alla politica, all’estetica. E alla dietetica. Che fa dell’astinenza un cammino di salvezza terrena, una forma di ascetismo secolarizzato. Un decalogo della wellness. Fatto di comandamenti igienisti e di fioretti laici. Che trasformano ancora una volta il cibo in un campo di battaglia tra bene e male, mascherati da salute e malattia. Esasperando il culto del benessere fino a farne una forma di penitenza, con il Bio al posto di Dio. È quel che facciamo un po’ tutti noi quando ricorriamo al tè verde come esorcismo e alla prugna umeboshi come vade retro. Rischiando qualche volta di vivere da malati per morire sani.
2-continua
 
Da la Repubblica sabato 27 luglio 2013
.
 
 

Nessun commento:

Posta un commento