Dietologie. I greci e la modica quantità
Così con il cibo si sconfigge l’hybris. Da Aristotele a Plutarco il mangiare sostenibile è segno di civiltà e ideale politico
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Marino Niola
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È l’uomo a fare la dieta o è la dieta a
fare l’uomo? È vera la seconda. Perché l’umanità nasce nel momento in
cui inventa il suo regime alimentare. Come dire che homo sapiens e homo
edens sono la stessa persona. Mentre i nostri antenati pre-umani si
comportavano come animali e mangiavano quel che offriva madre natura.
Sostanzialmente carne cruda e vegetali. Un menù per individui forti, ma
letale per i più deboli. Ed è proprio il fatto di scegliere cosa, come e
quanto mangiare a far evolvere la specie. Insomma siamo a dieta da
sempre. Molto prima che arrivassero i Dukan, Messegué, Atkins, Oshawa. E
gli innumerevoli profeti del benessere che oggi dispensano ammonimenti,
comandamenti e suggerimenti. Aglio olio e sermoncino.
In realtà non abbiamo inventato nulla che
gli antichi non sapessero già. Senza la moderna nutraceutica, ma in
compenso dall’alto di una superiore concezione dell’uomo e del suo posto
nella natura e nella società. Così, se noi consideriamo la dietetica
una parte della medicina, per il grande Ippocrate invece è il contrario.
È la medicina a esser parte della dietetica. Semplicemente perché dare a
ciascuno il cibo che serve a tenere in equilibrio corpo e anima è il
primo e indispensabile presupposto di ogni cura. Il celebre motto
ippocratico «il cibo sia la tua terapia e la tua terapia sia il cibo» è
giunto fino ai nostri giorni come leit motif di un’etica dietetica.
Proclamata a chiare lettere nel primo punto del rituale giuramento di
Ippocrate, in cui i medici promettono ad Apollo, Asclepio, Igea e
Panacea, i numi tutelari della loro arte, di regolare la dieta per il
bene dei malati. Dove però la parola diaíta non significa
semplicemente modo di mangiare ma forma di vita. Ed è qui la differenza
con la nostra idea di regime alimentare. Che per lo più si risolve in un
controllo meramente quantitativo delle calorie, del peso e delle
misure. Laddove i Greci parlano di vita, noi riduciamo tutto a girovita.
Ecco perché le privazioni che ci infliggiamo per avere il ventre piatto
e gli addominali a tartaruga spesso non producono altro se non
frustrazione e depressione, anoressia e bulimia.
Pericoli che gli antichi intravvedono benissimo. Tant’è vero che nelle Epidemie,
un importante testo ippocratico, si cita come esempio estremo di
accanimento salutistico, il caso quasi mostruoso di Eradico. Che
costringeva i suoi pazienti a fare jogging anche con la febbre, li
sfiancava con incontri di lotta e li estenuava con bagni di vapore che
li prosciugavano. Magri e scattanti ma spesso agonizzanti. E lui stesso
era il primo a imporsi questa disciplina dissennata, fatta di poco cibo e
moltissima palestra. Senza il minimo strappo alla regola, nemmeno il
più innocente peccato di gola. Finendo per condurre una vita da
moribondo in perfetta salute. Un antenato di quegli ayatollah della
leggerezza che oggi vivono da malati per morire sani.
Platone, nemico di ogni eccesso,
rimprovera a questo tipo di ortoressici un’attenzione esagerata al
proprio corpo che li rende un inutile peso per la polis. Su questo
l’autore della Repubblica non ha dubbi. Le diete non servono a
prolungare la vita all’infinito né a produrre highlander performanti e
superdotati. Ma a essere felici, operosi e in possesso del giusto
equilibrio psicofisico. Che non dipende dall’applicazione pedissequa di
format nutrizionali, come facciamo spesso noi, quando ci proponiamo di
perdere sette chili in sette giorni. Ma è il risultato di un circolo
virtuoso. Fatto di conoscenza di sé e dei propri limiti. L’effetto di un
negoziato tra bisogni e desideri, tra prevenzione e soddisfazione. È in
questo senso che la massima socratica «conosci te stesso» va letta
anche alla luce dell’idea platonica della cura di sé. Intesa prima di
tutto come capacità di leggere e di ascoltare il proprio organismo, di
decifrarne i segnali. E di conseguenza stabilire ciò che è bene e ciò
che è male per la salute di ciascuno. Per questo, secondo Platone, un
cittadino responsabile è il miglior medico di se stesso. Nessun luminare
può saperne di più e meglio dell’interessato. Siamo a distanza siderale
da quell’idea anfetaminica della forma fisica che oggi chiamiamo
fitness. E dalle tante mode alimentari rilanciate dai guru della
nutrizione. Queste sarebbero state considerate delle forme di dietologia
per schiavi dagli Ateniesi dell’età di Pericle. Che non a caso
distinguono due tipi di medici. Quelli per gli uomini liberi, che
dialogano e negoziano le prescrizioni con il malato. E quelli per gli
schiavi, che impongono ricette e ordinano regimi come dogmi
indiscutibili.
Se dunque i Greci non amano gli eccessi,
non è certo per sudditanza al diktat della magrezza. Ma per una ragione
sociale e politica. Perché abbuffarsi è il segno di una dismisura
disdicevole. Una hybris sempre stigmatizzata, sia sul piano
morale che su quello fisico. Perché a fare gli uomini è proprio la
misura, la regola. Gli appetiti sregolati sono tipici dei bruti e delle
bestie. Come Polifemo che non a caso mangia come un maiale e beve fino a
ubriacarsi. E come Erissíttone, mitico re della Tessaglia, che dopo
aver letteralmente divorato tutti gli averi di famiglia, vende perfino
sua figlia in cambio di cibo. E alla fine mangia se stesso per placare
la sua voracità bulimica. E perfino l’etimologia della parola bulimia—da
boûs bue e limós fame—fa capire che gli antichi
considerano le grandi abbuffate un comportamento antisociale. Un
aggiotaggio delle risorse politicamente scorretto. Molto meglio una
dieta sobria ed equilibrata. Come quelle suggerite da Socrate e dal
neoplatonico Porfirio, pane, miele, olio, frutta, verdura, legumi,
formaggio. Pochissima carne, poco pesce. E una modica quantità di vino
che fa volare il pensiero.
Insomma mangiare di tutto un po’ aiuta a
mantenere peso e forma stabili. Evitando le dannosissime diete yo-yo,
che fanno male alla salute e alla condotta, su questo sono tutti
concordi. Da Aristotele a Galeno, da Pitagora a Plutarco. È un mangiare
sostenibile che diventa contrassegno di civiltà. Critica culturale e
ideale politico. Con qualche millennio di anticipo sulla nostra
abbondanza frugale.
1-continua
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la Repubblica lunedì 29 luglio 2013
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Dietologie. Quello che passa il convento
Perché la religione vuole il digiuno
purificatore. Cristiani, ebrei, musulmani e anche induisti tutti sono
chiamati all’astensione rituale dal cibo come penitenza e momento di
iniziazione
Marino Niola
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Più che
sulla bilancia il cibo pesa sulla coscienza. Lo dimostrano le privazioni
cui ci sottoponiamo da millenni. In principio per la salvezza
dell’anima, oggi per la salute del corpo. Una volta in nome di dio,
adesso in nome dell’io. Ma al di là delle motivazioni, spesso gli
argomenti e i comportamenti si somigliano in maniera sorprendente. Certo
è che da che mondo è mondo religione fa rima con restrizione. Penitenza
con astinenza. Magrezza con purezza.
Ne erano
arciconvinti i Padri della Chiesa, come Tertulliano che considerava il
digiuno un passaporto per la vita eterna. Di fatto il moralista di
Cartagine trasforma peso e taglia in misure spirituali. Sostenendo che i
corpi superslim passano più agevolmente per la porta del Paradiso, che è
notoriamente stretta come la cruna di un ago. Oltretutto, se si è molto
leggeri, il giorno del giudizio la resurrezione della carne sarà
rapida.
E non era
da meno sant’Atanasio, per il quale «il digiuno guarisce le malattie,
libera il corpo dalle sostanze superflue, scaccia i demoni, espelle i
cattivi pensieri, purifica il cuore». Insomma depura l’anima e redime la
carne. Come dire che l’Onnipotente è il supremo dietologo dell’umanità e
allontanarsi dalle sue prescrizioni non solo nuoce gravemente alla
salute ma è anche di ostacolo alla salvezza. Non a caso san Tommaso
d’Aquino nella Summa Teologica teorizza la necessità di
eliminare dal regime del buon cristiano tutti quei bocconi prelibati che
danno piacere e predispongono al peccato. Perché appetito e desiderio
sono due facce della stessa medaglia. Lo diceva anche Platone,
cinquecento anni prima del Cristianesimo, quando considerava copule e
crapule, “etère e manicaretti”, due bombe a tempo per la Repubblica. E
in fondo dall’antica cena di Trimalcione ai più recenti Bunga Bunga
corre un lungo filo rosso che unisce letti e tavole. E questo resta vero
perfino in una società apparentemente secolarizzata come la nostra. A
dirlo è l’antropologa femminista Elspeth Probyn dell’Università di
Sidney nel suo Carnal Appetites: Foodsexidentities che
individua negli chef televisivi – come Gordon Ramsey, Jamie Oliver e
Carlo Cracco – i sex symbol del nostro tempo proprio in quanto
dispensatori di piaceri, ancorché alimentari.
Su questa
linea rigorista sono sempre state d’accordo tutte le religioni,
monoteiste e non solo. Se gli antichi Greci erano tenuti ad astenersi
dal cibo per prendere parte ai Misteri Eleusini e a quelli Orfici, i
Farisei non mangiavano per ben due giorni alla settimana, il lunedì e
giovedì. Gli Ebrei invece praticano l’astinenza in occasione dello Yom
Kippur, il giorno dell’Espiazione. Mentre i Musulmani lo fanno durante
il periodo del ramadan, quando la doppia rinuncia, alimentare e
sessuale, purifica l’uomo eliminando i principali fattori di corruzione
spirituale e di contaminazione fisica. E nell’Induismo, come diceva
Gandhi, non c’è preghiera senza digiuno.
Stare a
stomaco vuoto diventa una sorta di misura immunitaria e al tempo stesso
iniziatica. Una sacra quarantena. Come quella di Pitagora che per
quaranta giorni non tocca neanche una foglia d’insalata alla vigilia del
suo viaggio in Egitto per compiere il suo percorso sapienziale di
pensatore-guaritore. Idem per Mosè che resta a bocca asciutta “quaranta
dì e quaranta nott” – per dirla con il grande Enzo Iannacci – prima di
ricevere le Tavole della legge. E ripete la dieta quando si prepara a
distruggere il vitello d’oro. Stessa durata ha il digiuno di Gesù nel
deserto e quello di san Francesco prima di dettare la frugalissima
regola del suo Ordine. Mendicante e rinunciante. Al punto da vietare ai
confratelli di possedere terra da coltivare, scorte in dispensa e
cantine piene. Un tantino più concessivi i laboriosi Benedettini, i
pazienti Certosini e i sapienti Domenicani che in ogni caso devono
accontentarsi di quel che passa il convento. E comunque nei monasteri
tirare la cinghia è un atto di devozione quotidiana, a metà tra terapia e
liturgia.
Insomma il
minimo comune denominatore di tutti questi stenti e patimenti è che
diminuire il peso del cibo compensa quello eccedente dei peccati. Una
bilancia metà fisica che mette su un piatto la carne e sull’altro lo
spirito. La sacralizzazione di un principio dietologico. Come dire che
il drenaggio del corpo elimina le tossine dell’anima. E rende buoni,
puliti e giusti. Più adatti all’incontro con Dio. È per questo che i
cristiani osservano il cosiddetto digiuno eucaristico prima della
comunione. E per la stessa ragione le grandi sante, Caterina da Siena,
Chiara d’Assisi, Teresa d’Avila, sono passate alla storia per il loro
ascetismo estremo. Che trasforma le privazioni in un superamento dei
limiti del corpo. Il celebre storico americano Rudolph Bell, professore
all’Università del New Jersey, ha parlato di “santa anoressia”. Una
volta la chiamavano anorexia mirabilis, cioè miracolosa, quasi fosse opera divina. È questo il modello cui si ispirano le cosiddette fasting girls,
le ragazze inappetenti che nell’Inghilterra vittoriana trasformano il
digiuno in un gesto di contestazione dell’ordine patriarcale. Una sorta
di femminismo alimentare che svuota letteralmente il loro corpo per
renderlo inadatto alle funzioni e alle mansioni cui sarebbe destinato.
Come dire che se la società maschilista vuole chiudere la bocca alle
donne, loro non la aprono neanche per mangiare. Facendo di questo
singolare sciopero della fame la fragorosa rottura di un format etico ed
estetico. Così la privazione si smarca dalla religione. E lascia il
campo alla medicina, alla politica, all’estetica. E alla dietetica. Che
fa dell’astinenza un cammino di salvezza terrena, una forma di ascetismo
secolarizzato. Un decalogo della wellness. Fatto di comandamenti
igienisti e di fioretti laici. Che trasformano ancora una volta il cibo
in un campo di battaglia tra bene e male, mascherati da salute e
malattia. Esasperando il culto del benessere fino a farne una forma di
penitenza, con il Bio al posto di Dio. È quel che facciamo un po’ tutti
noi quando ricorriamo al tè verde come esorcismo e alla prugna umeboshi
come vade retro. Rischiando qualche volta di vivere da malati per morire
sani.
2-continua
Da la Repubblica sabato 27 luglio 2013
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