16 luglio 2013

NUOVA INTERPRETAZIONE DE "I DEMONI" DI DOSTOEVSKIJ





Il libro di Simona Forti, I nuovi demoni, pubblicato da Feltrinelli nel 2012, riflette sul rapporto tra male e potere. Prendendo le distanze da quello che definisce il "paradigma Dostoevskij", ossia l'interpretazione demonica e manichea del male, fondata sul nichilismo e la pulsione di morte, l'autrice propone un modello alternativo incentrato sull'idea di una "normalità del male" e sull'esistenza di una zona grigia in ognuno di noi. Nell'elaborazione di questo paradigma convergono le eredità filosofiche di autori come Hannah Arendt e Foucault, ma anche di scrittori come Primo Levi e Kundera. Presentiamo il capitolo conclusivo del libro, tagliato per esigenze redazionali, in cui il nesso male-potere si intreccia con la questione della biopolitica. [Le parole e le cose]
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1. A conclusione del nostro percorso, vorrei soffermarmi brevemente su un testo notissimo, I sommersi e i salvati, pubblicato da Primo Levi un anno prima della morte. Nelle pagine di questo libro è racchiusa una vera e propria riflessione sulla "normalità del male", un messaggio forse più inquietante di quello affidato al racconto dell'esperienza di Auschwitz. Dopo quasi quarant'anni, l'autore sembra mettere a punto in maniera definitiva la risposta all'interrogativo Se questo è un uomo: ora, non solo quel prigioniero ridotto a rifiuto è un uomo, ma sono uomini anche coloro che così lo hanno ridotto. E sono uomini del tutto ordinari, normali, che hanno seguito calcoli e passioni. È questo il monito amaro e realistico di Levi. Sono parole dure, che, se non fossero state scritte da chi aveva vissuto sulla propria pelle quell'esperienza, avrebbero destato molto più sconcerto.
I sommersi e i salvati, potrebbe essere letto come il "controtesto" de I demoni e della leggenda del Grande Inquisitore: smentisce quella concezione manichea del potere che spalanca una distanza abissale tra la febbrile volontà di potenza, dei malvagi e del vecchio, e l'indistinta passività della massa. Certo, ci dice Primo Levi, il dualismo è un porto rassicurante. Sarebbe bello, commenta Levi, poter "ripetere il gesto di Cristo nel Giudizio Universale: qui i giusti là i reprobi"; qui gli innocenti, oppressi e distrutti, là i perpetratori. Ma se il nostro desiderio di semplificazione è comprensibile e giustificabile, la semplificazione non lo è affatto. Bisogna avere il coraggio "di uno spirito meno morbido" di quello che si raffigura i demoni nelle stanze del potere: si deve tenere fisso lo sguardo sulla normalità e sulla banalità degli uomini presi sempre in una fitta rete di rapporti.
Primo Levi non esita così a fare del Lager - il luogo che più di ogni altro siamo portati a interpretare in maniera dualistica - il laboratorio delle sue analisi. È vero che la struttura del regime totalitario - che il Lager riproduce su scala ridotta e intensiva - rende quasi impossibile un controllo dal basso. Tuttavia, per quanto ambisca alla totalità, la realtà politica anche più dura, fuori dal campo di sterminio, non riesce mai a sradicare completamente la libertà: una qualche forma di retroazione permane. Solo nel campo essa sembra essere pressoché assente: quasi tutte le forme di rivolta sono state stroncate. Quale allora il criterio per giudicare i comportamenti diversi? Come e che cosa distinguere tra i gironi di quell'inferno? E soprattutto, perché farlo, se in fondo quella è una situazione eccezionale le cui caratteristiche non possono certo valere come riferimenti per la nostra quotidianità? La sfida dello scrittore è questa: tenere ferma l'unicità di quella situazione, ma al contempo continuare a gettare ponti con la realtà ordinaria, con le normali relazioni degli esseri umani in società, "con la nostra realtà". Per cui se il suo messaggio non è mai ambiguo - ci sono le vittime e i persecutori, nessun giudizio allargato dovrà mai riunirli in un solo abbraccio; giustiziare le ss e gli altri funzionari è, e rimane, necessario - tuttavia questa non può essere l'ultima parola. Ed è proprio la tonalità di questa tensione che fa dell'ultimo confronto di Primo Levi con Auschwitz forse il più prezioso, ma anche il più "scandaloso", trattato sulla "normalità del male".
Per cogliere appieno la dinamica del nesso male e potere si deve scandagliare più a fondo quello spazio che separa gli ideatori delle persecuzioni dalle vittime rese assolutamente innocenti da una morte istantanea: "solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai". Nel quadro che lo scrittore ritrae, prevalgono i colori meno foschi di "quella zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata [...] di cui la classe ibrida dei funzionari-prigionieri costituisce l'ossatura, e insieme il lineamento più inquietante".12 Al contrario di quanto ameremmo sperare, più è programmaticamente dura l'oppressione, più è demoniaca nel suo disegno, più è vasta la disponibilità alla collaborazione degli uomini normali.
Anche tra gli internati nell'universo concentrazionario, tra coloro in cui ogni volontà e ogni desiderio individuali dovrebbero essere spenti, serpeggia una conflittualità che non è soltanto la pura e semplice lotta per la sopravvivenza. C'è qualcosa di più rispetto al semplice tentativo di mantenersi in vita. All'interno di una baracca del campo, si presenta la stessa molteplicità di moventi che sempre ci spingono ad accettare e, accettandoli, a far crescere i potenti. Nel mondo deprivato dei prigionieri, ritroviamo, per esempio, "quel bisogno insopprimibile della civiltà" che è "la ricerca del prestigio": il desiderio di chi si trova agli ultimi gradini della scala sociale di spogliarsi dell'umiliazione e del disprezzo, e di gettarli addosso ai nuovi arrivati, inventando, così, una nuova categoria di rango inferiore sulla quale poter scaricare il peso delle offese che premono dall'alto. Ecco perché, là dove ci aspetteremmo la solidarietà nella sventura, difficilmente la troviamo. Anzi, nel campo si riceveva lo Zugang - il nuovo arrivato - con tutta l'ostilità di cui si era caricati, perché gli si sentiva addosso l'odore di una vita ancora troppo integra e pertanto minacciosa nei confronti della nostra. Certo, là il nemico è il nazista, "ma gli alleati non c'erano". A differenza di quanto vorrebbe una letteratura agiografica post-bellica, il campo non santifica la vittima, ma la degrada. La corrompe al punto da farla coincidere - per violenza psichica e fisica - con le immagini che ne hanno i guardiani.
La "zona grigia", presente in ogni convivenza umana, dal regime totalitario a "un grande stabilimento industriale", è l'ossatura su cui si regge il potere. Essa è segnata, innanzitutto, dall'immancabile ascesa degli arrampicatori, che la cerchia dei potenti è costretta ad accettare e a volte incoraggia. E più un dominio si fa totale, più attira con prepotenza "quel tipo umano che di potere è ghiotto". Il "girone intermedio" nel Lager coincide in primo luogo con "la classe ibrida dei prigionieri-funzionari", le cui figure sono numerose e mal definite, ma rappresentano un "campione medio, non selezionato, di umanità". Certo, molti Kapo venivano scelti direttamente dai comandanti o dai loro delegati, erano delinquenti comuni ai quali la nuova e insperata carriera dava un'alternativa alla detenzione: prigionieri politici, sfiniti, e a volte anche ebrei che vedevano in quel ruolo l'unico modo per sfuggire alla "soluzione finale". È insensato pretendere da loro la condotta "dei santi o dei filosofi stoici", perché nella enorme maggioranza dei casi il comportamento era ferreamente obbligato: pochi giorni, poche settimane e si veniva ridotti ad animali.
Tuttavia, Primo Levi non si astiene dal giudicare e si pronuncia in merito a coloro, ai "troppi", che hanno aspirato al potere "spontaneamente". Pochi erano i sadici, ma tanti i frustrati, per i quali, fuori dal campo, così come fuori dalla società totalitaria, l'assenza di meriti avrebbe impedito ogni promozione sociale. E molti erano anche coloro che subivano il contagio degli oppressori. Costoro, precisa, si sono resi disponibili a collaborare per svariati motivi: errore di valutazione, adescamento ideologico, imitazione pedissequa del vincitore, voglia miope di un qualsiasi vantaggio, viltà, e, sicuramente, in alcuni casi, per lucido calcolo inteso a eludere gli ordini. Tutti, però, sono stati parte attiva nell'ordire la trama di quella zona grigia che, forse più di ogni altro luogo, ci rivela uno dei segreti della "servitù volontaria". Se questi uomini erano numerosi nel campo, sempre lo sono e sempre lo saranno, anche fuori da quel recinto. Non capiremo l'enorme potere del male se continueremo a tenere fisso lo sguardo soltanto sulle ss, esorcizzando il Lager con il facile sdegno del plus jamais ça! La forza del giudizio sembra tuttavia vacillare davanti ai Sonderkommandos, le Squadre Speciali. Sono loro, gli addetti ai forni, "i miserabili manovali della strage", gli unici a poter legittimamente invocare, a differenza della grottesca difesa dei nazisti trascinati in tribunale, il ricorso al Befehlnotstand ("stato di costrizione conseguente a un ordine"). In realtà, nemmeno il rigido aut-aut, l'obbedienza immediata o la morte, a cui questi erano messi di fronte, interrompe la domanda ossessiva dello scrittore: "Perché hanno accettato quel compito? Perché non si sono ribellati? Perché non hanno preferito la morte?". E ancora: "Perché, a differenza di coloro che si sono ribellati e di cui non sappiamo nulla, hanno preferito qualche settimana in più di vita (quale vita!) alla morte immediata?".
Perché i componenti della "zona grigia", per quanto diversi tra loro, hanno tutti un tratto in comune: la volontà di conservare il loro privilegio, che nel campo significava rimanere vivi il più a lungo possibile. Un privilegio, aggiunge subito lo scrittore, sopravvalutato e mal calcolato, che fruttava assai poco e in molti casi comportava soltanto una quantità di lavoro supplementare. E soprattutto un privilegio destinato, nella maggior parte dei casi, a finire molto presto, ma non prima di aver provocato una dose aggiuntiva di sofferenza negli altri. Ma erano avidi, eravamo avidi, di vita, di sempre più vita. Puntualmente, anche in questo caso, il giudizio di Primo Levi riesce a farsi largo, senza mai cedere alla tentazione di semplificare, procede per cerchi concentrici verso un nucleo di verità difficile da circoscrivere, ma tuttavia pronunciabile: da Eichmann ai Sonderkommandos - quella "fascia di mezze coscienze in cui si collocano gerarchi e gerarchetti di ogni tipo" - tutti collaborano a quel male che si nutre di sorrisi compiacenti, di firme inconsapevoli incoscienti ("perché tanto una firma non costa niente", di alzate di spalle, "perché se non lo facessi io lo farebbe un altro peggiore di me"). Il male insomma "si alimenta da sé, per brama di servitù, per pochezza d'animo", per le nostre ambiguità, per la nostra cieca riverenza dell'autorità. E se anche un regime si insedia a colpi di terrore, sicuramente non si consoliderebbe se non ci fosse l'ossequio. Sono questi i più efficaci "vettori della colpa del sistema" che ci si ostina a non voler vedere e a non voler sentire. Ciò che ha portato l'uomo a riconoscersi nel "musulmano" è in realtà una passione elementare, primaria, la più comune di tutte: l'ostinazione a continuare a vivere "ad ogni costo", "anche per piccole dosi e per pochissimo tempo". È questa in fondo la radice del potere, ciò che ci porta a desiderarne dosi sempre maggiori. Un'ostinazione che non sarebbe così pervicace, conclude Primo Levi, se non si accompagnasse al rifiuto della realtà e al sogno dell'onnipotenza, "dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno".

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