Il libro di
Simona Forti, I nuovi demoni, pubblicato da Feltrinelli nel 2012,
riflette sul rapporto tra male e potere. Prendendo le distanze da quello che
definisce il "paradigma Dostoevskij", ossia l'interpretazione
demonica e manichea del male, fondata sul nichilismo e la pulsione di morte,
l'autrice propone un modello alternativo incentrato sull'idea di una
"normalità del male" e sull'esistenza di una zona grigia in ognuno di
noi. Nell'elaborazione di questo paradigma convergono le eredità filosofiche di
autori come Hannah Arendt e Foucault, ma anche di scrittori come Primo Levi e
Kundera. Presentiamo il capitolo conclusivo del libro, tagliato per esigenze
redazionali, in cui il nesso male-potere si intreccia con la questione della
biopolitica. [Le parole
e le cose]
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1. A
conclusione del nostro percorso, vorrei soffermarmi brevemente su un testo
notissimo, I sommersi e i salvati, pubblicato da Primo Levi un anno prima della
morte. Nelle pagine di questo libro è racchiusa una vera e propria riflessione
sulla "normalità del male", un messaggio forse più inquietante di
quello affidato al racconto dell'esperienza di Auschwitz. Dopo quasi
quarant'anni, l'autore sembra mettere a punto in maniera definitiva la risposta
all'interrogativo Se questo è un uomo: ora, non solo quel prigioniero ridotto a
rifiuto è un uomo, ma sono uomini anche coloro che così lo hanno ridotto. E
sono uomini del tutto ordinari, normali, che hanno seguito calcoli e passioni.
È questo il monito amaro e realistico di Levi. Sono parole dure, che, se non
fossero state scritte da chi aveva vissuto sulla propria pelle
quell'esperienza, avrebbero destato molto più sconcerto.
I sommersi e
i salvati, potrebbe essere letto come il "controtesto" de I demoni e
della leggenda del Grande Inquisitore: smentisce quella concezione manichea del
potere che spalanca una distanza abissale tra la febbrile volontà di potenza,
dei malvagi e del vecchio, e l'indistinta passività della massa. Certo, ci dice
Primo Levi, il dualismo è un porto rassicurante. Sarebbe bello, commenta Levi,
poter "ripetere il gesto di Cristo nel Giudizio Universale: qui i giusti
là i reprobi"; qui gli innocenti, oppressi e distrutti, là i perpetratori.
Ma se il nostro desiderio di semplificazione è comprensibile e giustificabile,
la semplificazione non lo è affatto. Bisogna avere il coraggio "di uno
spirito meno morbido" di quello che si raffigura i demoni nelle stanze del
potere: si deve tenere fisso lo sguardo sulla normalità e sulla banalità degli
uomini presi sempre in una fitta rete di rapporti.
Primo Levi
non esita così a fare del Lager - il luogo che più di ogni altro siamo portati
a interpretare in maniera dualistica - il laboratorio delle sue analisi. È vero
che la struttura del regime totalitario - che il Lager riproduce su scala
ridotta e intensiva - rende quasi impossibile un controllo dal basso. Tuttavia,
per quanto ambisca alla totalità, la realtà politica anche più dura, fuori dal campo
di sterminio, non riesce mai a sradicare completamente la libertà: una qualche
forma di retroazione permane. Solo nel campo essa sembra essere pressoché
assente: quasi tutte le forme di rivolta sono state stroncate. Quale allora il
criterio per giudicare i comportamenti diversi? Come e che cosa distinguere tra
i gironi di quell'inferno? E soprattutto, perché farlo, se in fondo quella è
una situazione eccezionale le cui caratteristiche non possono certo valere come
riferimenti per la nostra quotidianità? La sfida dello scrittore è questa:
tenere ferma l'unicità di quella situazione, ma al contempo continuare a
gettare ponti con la realtà ordinaria, con le normali relazioni degli esseri
umani in società, "con la nostra realtà". Per cui se il suo messaggio
non è mai ambiguo - ci sono le vittime e i persecutori, nessun giudizio
allargato dovrà mai riunirli in un solo abbraccio; giustiziare le ss e gli
altri funzionari è, e rimane, necessario - tuttavia questa non può essere
l'ultima parola. Ed è proprio la tonalità di questa tensione che fa dell'ultimo
confronto di Primo Levi con Auschwitz forse il più prezioso, ma anche il più
"scandaloso", trattato sulla "normalità del male".
Per cogliere
appieno la dinamica del nesso male e potere si deve scandagliare più a fondo
quello spazio che separa gli ideatori delle persecuzioni dalle vittime rese
assolutamente innocenti da una morte istantanea: "solo una retorica
schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai". Nel
quadro che lo scrittore ritrae, prevalgono i colori meno foschi di "quella
zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due
campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente
complicata [...] di cui la classe ibrida dei funzionari-prigionieri costituisce
l'ossatura, e insieme il lineamento più inquietante".12 Al contrario di
quanto ameremmo sperare, più è programmaticamente dura l'oppressione, più è
demoniaca nel suo disegno, più è vasta la disponibilità alla collaborazione degli
uomini normali.
Anche tra
gli internati nell'universo concentrazionario, tra coloro in cui ogni volontà e
ogni desiderio individuali dovrebbero essere spenti, serpeggia una
conflittualità che non è soltanto la pura e semplice lotta per la
sopravvivenza. C'è qualcosa di più rispetto al semplice tentativo di mantenersi
in vita. All'interno di una baracca del campo, si presenta la stessa
molteplicità di moventi che sempre ci spingono ad accettare e, accettandoli, a
far crescere i potenti. Nel mondo deprivato dei prigionieri, ritroviamo, per
esempio, "quel bisogno insopprimibile della civiltà" che è "la
ricerca del prestigio": il desiderio di chi si trova agli ultimi gradini
della scala sociale di spogliarsi dell'umiliazione e del disprezzo, e di
gettarli addosso ai nuovi arrivati, inventando, così, una nuova categoria di
rango inferiore sulla quale poter scaricare il peso delle offese che premono
dall'alto. Ecco perché, là dove ci aspetteremmo la solidarietà nella sventura,
difficilmente la troviamo. Anzi, nel campo si riceveva lo Zugang - il nuovo
arrivato - con tutta l'ostilità di cui si era caricati, perché gli si sentiva
addosso l'odore di una vita ancora troppo integra e pertanto minacciosa nei
confronti della nostra. Certo, là il nemico è il nazista, "ma gli alleati
non c'erano". A differenza di quanto vorrebbe una letteratura agiografica
post-bellica, il campo non santifica la vittima, ma la degrada. La corrompe al
punto da farla coincidere - per violenza psichica e fisica - con le immagini
che ne hanno i guardiani.
La
"zona grigia", presente in ogni convivenza umana, dal regime
totalitario a "un grande stabilimento industriale", è l'ossatura su
cui si regge il potere. Essa è segnata, innanzitutto, dall'immancabile ascesa
degli arrampicatori, che la cerchia dei potenti è costretta ad accettare e a
volte incoraggia. E più un dominio si fa totale, più attira con prepotenza
"quel tipo umano che di potere è ghiotto". Il "girone
intermedio" nel Lager coincide in primo luogo con "la classe ibrida
dei prigionieri-funzionari", le cui figure sono numerose e mal definite,
ma rappresentano un "campione medio, non selezionato, di umanità".
Certo, molti Kapo venivano scelti direttamente dai comandanti o dai loro
delegati, erano delinquenti comuni ai quali la nuova e insperata carriera dava
un'alternativa alla detenzione: prigionieri politici, sfiniti, e a volte anche
ebrei che vedevano in quel ruolo l'unico modo per sfuggire alla "soluzione
finale". È insensato pretendere da loro la condotta "dei santi o dei filosofi
stoici", perché nella enorme maggioranza dei casi il comportamento era
ferreamente obbligato: pochi giorni, poche settimane e si veniva ridotti ad
animali.
Tuttavia,
Primo Levi non si astiene dal giudicare e si pronuncia in merito a coloro, ai
"troppi", che hanno aspirato al potere "spontaneamente".
Pochi erano i sadici, ma tanti i frustrati, per i quali, fuori dal campo, così
come fuori dalla società totalitaria, l'assenza di meriti avrebbe impedito ogni
promozione sociale. E molti erano anche coloro che subivano il contagio degli
oppressori. Costoro, precisa, si sono resi disponibili a collaborare per
svariati motivi: errore di valutazione, adescamento ideologico, imitazione
pedissequa del vincitore, voglia miope di un qualsiasi vantaggio, viltà, e,
sicuramente, in alcuni casi, per lucido calcolo inteso a eludere gli ordini.
Tutti, però, sono stati parte attiva nell'ordire la trama di quella zona grigia
che, forse più di ogni altro luogo, ci rivela uno dei segreti della
"servitù volontaria". Se questi uomini erano numerosi nel campo,
sempre lo sono e sempre lo saranno, anche fuori da quel recinto. Non capiremo
l'enorme potere del male se continueremo a tenere fisso lo sguardo soltanto
sulle ss, esorcizzando il Lager con il facile sdegno del plus jamais ça! La
forza del giudizio sembra tuttavia vacillare davanti ai Sonderkommandos, le
Squadre Speciali. Sono loro, gli addetti ai forni, "i miserabili manovali
della strage", gli unici a poter legittimamente invocare, a differenza
della grottesca difesa dei nazisti trascinati in tribunale, il ricorso al
Befehlnotstand ("stato di costrizione conseguente a un ordine"). In
realtà, nemmeno il rigido aut-aut, l'obbedienza immediata o la morte, a cui
questi erano messi di fronte, interrompe la domanda ossessiva dello scrittore: "Perché
hanno accettato quel compito? Perché non si sono ribellati? Perché non hanno
preferito la morte?". E ancora: "Perché, a differenza di coloro che
si sono ribellati e di cui non sappiamo nulla, hanno preferito qualche
settimana in più di vita (quale vita!) alla morte immediata?".
Perché i
componenti della "zona grigia", per quanto diversi tra loro, hanno
tutti un tratto in comune: la volontà di conservare il loro privilegio, che nel
campo significava rimanere vivi il più a lungo possibile. Un privilegio,
aggiunge subito lo scrittore, sopravvalutato e mal calcolato, che fruttava
assai poco e in molti casi comportava soltanto una quantità di lavoro
supplementare. E soprattutto un privilegio destinato, nella maggior parte dei
casi, a finire molto presto, ma non prima di aver provocato una dose aggiuntiva
di sofferenza negli altri. Ma erano avidi, eravamo avidi, di vita, di sempre
più vita. Puntualmente, anche in questo caso, il giudizio di Primo Levi riesce
a farsi largo, senza mai cedere alla tentazione di semplificare, procede per
cerchi concentrici verso un nucleo di verità difficile da circoscrivere, ma
tuttavia pronunciabile: da Eichmann ai Sonderkommandos - quella "fascia di
mezze coscienze in cui si collocano gerarchi e gerarchetti di ogni tipo" -
tutti collaborano a quel male che si nutre di sorrisi compiacenti, di firme
inconsapevoli incoscienti ("perché tanto una firma non costa niente",
di alzate di spalle, "perché se non lo facessi io lo farebbe un altro
peggiore di me"). Il male insomma "si alimenta da sé, per brama di
servitù, per pochezza d'animo", per le nostre ambiguità, per la nostra
cieca riverenza dell'autorità. E se anche un regime si insedia a colpi di
terrore, sicuramente non si consoliderebbe se non ci fosse l'ossequio. Sono questi
i più efficaci "vettori della colpa del sistema" che ci si ostina a
non voler vedere e a non voler sentire. Ciò che ha portato l'uomo a
riconoscersi nel "musulmano" è in realtà una passione elementare,
primaria, la più comune di tutte: l'ostinazione a continuare a vivere "ad
ogni costo", "anche per piccole dosi e per pochissimo tempo". È
questa in fondo la radice del potere, ciò che ci porta a desiderarne dosi
sempre maggiori. Un'ostinazione che non sarebbe così pervicace, conclude Primo Levi,
se non si accompagnasse al rifiuto della realtà e al sogno dell'onnipotenza,
"dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che
fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il
treno".
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