Dal sito http://www.antiit.com/2013/07/quando-il-popolo-aveva-la-lingua.html
prendo
questa arguta nota socio-linguistica che sarebbe tanto piaciuta al nostro
Gramsci:
Quando il popolo aveva la
lingua
È l’unico legato di Firenze
capitale d’Italia. A opera di un napoletano ramingo, per motivi politici e per
curiosità. Non unico collettore peraltro all’epoca di racconti e tradizioni
popolari, la compagnia è numerosa, Pitré, Nigra, Guastella e tutti quanti: è lo
spirito del tempo, di un gusto che il romanticismo aveva robustamente
modellato. Ma con un che di spiritoso in più, anche salace.
La lingua, più che le novelle, le morali o i topoi, è la novità di Imbriani, una miniera di golosità, e di documenti per la storia della lingua: modi di dire, idioletti, radici e apparentamenti. Una storia della lingua in corpore, come e dove s’innesta, gemma, si dissipa. Al netto, ancora, delle tante scuole, linguistiche, etimologiche, gestaltiche, che la disidrateranno.
Per questa novellaja Imbriani fa uso di “informatori” (collettori) colti, avvocati, dottori, media borghesia intellettuale. Il ceto che caratterizza Firenze capitale d’Italia, il quinquennio di cui poco o niente si sa, e che in questa edizione (Edikronos, 1981, Palermo) Marcello Vannucci delinea in dettaglio in una estesa introduzione. Una sorta di posata età della medietas oraziana. Con un interesse non adulterato per i linguaggi.
Imbriani fu autore anche di opere narrative in proprio, il romanzo “Dio ne scampi dagli Orsenigo”, che Contini vuole anticipazione di Gadda, e i racconti “Mastr’Impicca” e “Per questo Cristo ebbi a farmi turco”. Croce lo avvicina invece al Dossi, che non apprezzava. Croce lo critica anzi pesantemente per le attitudini politiche reazionarie, inacidite, dicendolo “Ezechiele della forca”, “misantropico” e “acre”. Realistico sarebbe stato qualificativo più giusto, e burlesco – genere che Croce pure amava. Agli spiriti semplici che gli chiedono “l’ingenuo e l’idillico” obietta: “Non sono bravo a ispogliare il vecchio Adamo: l’ingenuità mi diventa ironia, l’idillio mi diventa satira”.
Un autore, una filologia e una raccolta dimenticati (l’unica edizione da molti ani disponibile è la ristampa anastatica Forni dell’edizione 1877). Ma l’Italia stranamente non è più avanti di centocinquant’anni fa, e forse è più indietro. Riscrivere “alla maniera dei fratelli Grimm”? No, “mi ripugna il trascinarmi sopra falsarighe tedesche”. Per un’ottima filologia: “Mi stava a cuore di ritrarre esattamente la maniera, in cui fraseggia e concatena il pensiero il volgo”. Anche se non immune alla filologia provvidenziale: “il più delle fiabe” Imbriani dice “retaggio comune degli Ariani tutti”, gli “ariani” dunque… D’Ancona gli rimprovera di aver rinunciato “alla vivezza, al brio e all’evidenza” del “parlar fiorentino”, e il napoletano a Firenze non ha complessi a obiettare che “parlare con vivezza, con brio, con evidenza” sono “qualità rare a Firenze,come dovunque”. Non si erano ancora costruiti i complessi d’inferiorità.
La lingua, più che le novelle, le morali o i topoi, è la novità di Imbriani, una miniera di golosità, e di documenti per la storia della lingua: modi di dire, idioletti, radici e apparentamenti. Una storia della lingua in corpore, come e dove s’innesta, gemma, si dissipa. Al netto, ancora, delle tante scuole, linguistiche, etimologiche, gestaltiche, che la disidrateranno.
Per questa novellaja Imbriani fa uso di “informatori” (collettori) colti, avvocati, dottori, media borghesia intellettuale. Il ceto che caratterizza Firenze capitale d’Italia, il quinquennio di cui poco o niente si sa, e che in questa edizione (Edikronos, 1981, Palermo) Marcello Vannucci delinea in dettaglio in una estesa introduzione. Una sorta di posata età della medietas oraziana. Con un interesse non adulterato per i linguaggi.
Imbriani fu autore anche di opere narrative in proprio, il romanzo “Dio ne scampi dagli Orsenigo”, che Contini vuole anticipazione di Gadda, e i racconti “Mastr’Impicca” e “Per questo Cristo ebbi a farmi turco”. Croce lo avvicina invece al Dossi, che non apprezzava. Croce lo critica anzi pesantemente per le attitudini politiche reazionarie, inacidite, dicendolo “Ezechiele della forca”, “misantropico” e “acre”. Realistico sarebbe stato qualificativo più giusto, e burlesco – genere che Croce pure amava. Agli spiriti semplici che gli chiedono “l’ingenuo e l’idillico” obietta: “Non sono bravo a ispogliare il vecchio Adamo: l’ingenuità mi diventa ironia, l’idillio mi diventa satira”.
Un autore, una filologia e una raccolta dimenticati (l’unica edizione da molti ani disponibile è la ristampa anastatica Forni dell’edizione 1877). Ma l’Italia stranamente non è più avanti di centocinquant’anni fa, e forse è più indietro. Riscrivere “alla maniera dei fratelli Grimm”? No, “mi ripugna il trascinarmi sopra falsarighe tedesche”. Per un’ottima filologia: “Mi stava a cuore di ritrarre esattamente la maniera, in cui fraseggia e concatena il pensiero il volgo”. Anche se non immune alla filologia provvidenziale: “il più delle fiabe” Imbriani dice “retaggio comune degli Ariani tutti”, gli “ariani” dunque… D’Ancona gli rimprovera di aver rinunciato “alla vivezza, al brio e all’evidenza” del “parlar fiorentino”, e il napoletano a Firenze non ha complessi a obiettare che “parlare con vivezza, con brio, con evidenza” sono “qualità rare a Firenze,come dovunque”. Non si erano ancora costruiti i complessi d’inferiorità.
Vittorio Imbriani, La novellaja fiorentina
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