Per il
centotrentenario della nascita di Franz
Kafka (3 luglio 1883 – 3 giugno 1924) propongo questa mattina la lettura
di un breve saggio di Giorgio Fontana pubblicato ieri sul suo sito http://www.giorgiofontana.com/
GIORGIO
FONTANA – ANCHE SE LA REDENZIONE NON GIUNGE
L'uomo che
nacque centotrenta anni fa a Praga non ebbe un destino semplice: visse una
vita inquieta, cercando di dominare il "mondo immenso che aveva in
testa": figlio del burbero commerciante Hermann Kafka, il giovane Franz
fu un impiegato modello ma anche uno scrittore notturno, irrisolto e
tormentato: sabotò con maniacale precisione i propri amori, coltivò sogni
vaghi di fuga senza mai andarsene dalla capitale boema, si ammalò di
tubercolosi, morì quarantenne e scrisse alcune fra le pagine più
straordinarie della letteratura di ogni tempo.
Eppure la
parte più rilevante della sua opera (fra cui i tre romanzi) ci è stata
consegnata grazie a un tradimento: il suo migliore amico e primo esegeta, Max
Brod, si rifiutò di distruggere quanto richiesto dall'autore in persona. In
questo paradosso — lo spregio di un testamento e insieme il dono di una
meravigliosa eredità letteraria — c'è già molto di Kafka stesso. C'è la
presenza di una contraddizione da cui non si può fuggire, di una tragedia
elementare e che può essere solo analizzata all'infinito, come all'infinito
può essere analizzato il gesto di Max Brod: fece bene o fece male? Tutti gli
scritti di Kafka pongono al lettore simili enigmi: le sue parabole più
riuscite mostrano l'assurdo come se la lettera del testo non bastasse mai,
non portasse mai a una conclusione certa.
Per questo
Albert Camus disse che l'opera di Kafka invita alla rilettura. E aveva
ragione, anche se questa frase contiene un germe di pericolo: sacrificare
l'arte di Kafka sull'altare di qualsiasi interpretazione ulteriore. Ridurla a
un mezzo, a un pupazzo da ventriloquio.
Di certo
questa non era l'intenzione del premio Nobel francese, ma è una tendenza
dalla quale occorre salvarsi. A differenza di altri grandi classici la
bellezza dell'opera kafkiana è stata forse troppo poco percepita e studiata.
Questo si nota in primo luogo nell'immagine preconcetta e falsa che molti
hanno di Kafka: una specie di conte Dracula della letteratura tetro, cupissimo,
nichilista. Ma si nota anche nella molteplicità di letture che sono state
proposte della sua opera: la chiave psicanalitica (con tutto il bagaglio di
noti episodi familiari, in relazione al padre); l'influsso della tradizione
ebraica e in particolar modo chassidica; l'ossessione burocratica; la visione
teologica — e così via.
Senza contare infine la mescolanza di generi e temi: fiabe, miti, apologhi di animali, forme narrative lunghe e brevi, carnevalesche e cupe insieme, da opera buffa e da terribile tragedia. America ad esempio è un romanzo di formazione, ma è anche un romanzo d'avventura, un romanzo comico, un romanzo tragico e un romanzo grottesco.
Questa
pluralità è ancora una volta lo specchio della poetica kafkiana, non meno che
della sua effettiva realizzazione: romanzi incompiuti, annotazioni sparse,
aforismi. Il testo stesso dello scrittore ceco è un invito e inseme
un'elusione: direi quasi una sfida: difficilmente Kafka pone una questione in
termini univoci, e si diverte a spezzarla e inseguirla anche dal punto di
vista strettamente narrativo. Nei racconti di Kafka ci sono continue
interruzioni, piccoli fastidi e divagazioni che sviano l'operato del
protagonista: in una scala più ampia, è il medesimo procedimento che governa
il destino dell'agrimensore K., del messaggero dell'Imperatore o di Josef K.
— per quanto si sforzino, la meta è loro preclusa da un'infinità di
impedimenti.
Certo
questo non porta a un relativismo assoluto o a una confusione semantica. La
parola kafkiana è anzi chiarissima, il suo stile cristallino: tale lingua
"minore", come suggerivano Deleuze e Guattari, lo mette al riparo
da ogni interpretazione forzosa; è egli stesso a porgere al lettore un
gomitolo di complessità infinita. Il suo tono non è mai muscolare; la grazia
delle frasi è proporzionale al loro effetto devastante sul lettore, e la sua
voce rimane unica: non fa "scuola", ed è impensabile "scrivere
un romanzo alla Kafka".
La
narrazione si snoda in un modo che qualunque scuola di scrittura boccerebbe:
perché tutte queste divagazioni? a cosa servono questi rallentamenti? Eppure
a lui riesce naturale: la lingua non fa altro che rendere ancora più evidente
e disarmante la ricerca. Josef K. e il prete del Processo potrebbero andare
avanti fino alla notte dei tempi a discettare attorno la novella sulla Legge,
come in un racconto talmudico: "il periodare caratteristico di Kafka,
spezzato da continue proposizione incidentali, che sembra non giungere (o non
voler giungere) ala fine. Come la vita stessa che abbraccia, esso è
labirintico e insieme nitido, astratto e insieme concreto, una constatazione
realistica spoglia di pathos" (Urzidil, Di qui passa Kafka,
Adelphi).
Ecco
dunque il metodo. Si presenta un evento irriducibile e fondamentale, un
evento — per così dire — "ottuso". Vieni arrestato benché
incolpevole (Il processo). Non sei ammesso in un villaggio dove invece
eri stato convocato (Il castello). Vieni condannato senza motivo da
tuo padre (La condanna). Ti trasformi in un insetto (La metamorfosi).
L'essere colpisce i personaggi di Kafka come un maglio, eppure l'assurdo è
vestito da realismo assoluto: distruggendo la metafora, egli usa i mezzi di
uno scrittore naturalista per rappresentare un mondo insieme tragico e
bizzarro.
Come
confessò a Gustav Janouch, per lui non si trattava di "inserire miracoli
in avvenimenti comuni", bensì di svelare il miracoloso che essi già
contengono: il suo metodo è dunque una sorta di trascrizione fantastica. E
come ricorda Günther Anders, "Kafka «s-posta» l'apparato normale del mondo
per renderne visibile la follia. Ma al tempo stesso egli tratta questo
aspetto spostato come qualcosa di completamente normale; e in tal modo
descrive addirittura proprio il fatto folle che il mondo folle passi per
normale" (Pro o contro Kafka, Quodlibet). Tramite una distorsione
simile a quella di un esperimento scientifico, egli verifica la realtà:
se il mondo di Kafka ci appare spesso così terribile, è perché è il nostro
mondo, quello che ci aspetta ogni giorno fuori dalla porta: il Processo ne è
un modello, o se preferite una versione cifrata. Distruggendo la
similitudine, Kafka trascina il lettore nell'abisso: devi accettare di essere
un insetto, non di "essere trattato come un insetto": l'immagine si
fa realtà, con tutte le conseguenze del caso.
George
Steiner disse che Kafka opera ai margini del silenzio — ma non vi cade.
Corteggia l'abisso, conosce la lusinga e la pietà del tacere, eppure osa
comunque: vuole testimoniare, vuole che la sua parola sopravviva
all'ingiustizia. Ed è qui che ritorna il paradosso del gesto di Max Brod, il
"testamento tradito" di cui parlò Milan Kundera: leggiamo ciò che
non dovremmo leggere: insieme onorando e infangando la memoria di questo
scrittore. La sola scelta di aprire Il castello è già una scelta
etica: stiamo andando contro la volontà di un morto: fin da subito, Kafka
pretende il massimo da noi non solo come lettori ma come esseri umani — la
sua sete di integrità è implacabile.
Centotrenta
anni sono passati dalla sua nascita, e circa un secolo dall'apparizione dei
suoi primi scritti. Eppure leggere Kafka oggi è ancora un'esperienza piena di
incanto: il tempo non ha avuto effetto sulla sua arte. Secondo Felix
Guattari, anzi "il suo modo di abbordare i processi dell'inconscio
sociale lo situa forse nel XXI secolo". Il valore di un'opera non si
dovrebbe misurare in termini di attualità: eppure, è incontestabile che la
capacità di Kafka di scrutare negli abissi dell'umanità non è invecchiato di
un solo istante. Di più: suona quanto mai urgente, oggi, la sua disperata
ricerca di una parola vera, esatta, salvifica, mai schiava di compromessi o
velleità.
Per questo
motivo pensarlo come uno scrittore nichilista è un errore: così come pensare
all'uomo come a un individuo cupo e vampiresco è un falso storico. Franz
Kafka era dotato senz'altro di una sensibilità straordinaria, per molti versi
eccessiva: ma essa si sposava al garbo e all'ironia, al sorriso e alla
gentilezza: non c'è ricordo di lui che non sia colmo d'affetto. Ma più ancora
— nonostante la sua ricerca perversa di una colpa da scontare — non fu in
alcun modo un arreso. Di fronte all'onnipresenza del male e della falsità si
rifugiò nella ricerca della parola come antidoto disperato: per quanto
cosciente del proprio fallimento — un fallimento ontologico, per così dire, e
che viene riflesso nella precarietà dei suoi testi — non smise mai di
tentare.
Tutta la
sua vita può essere vista come un affanno per sottrarsi a tale condizione. E
così quella di molti suoi personaggi: si affannano di continuo per
comprendere, penetrare, ottenere: sono caparbi e risoluti, al limite
dell'ingenuità o della perversione. Certo, il mondo è condannato: ma né Josef
K. alle prese con il suo processo, né l'agrimensore K. del Castello,
né Karl Rossman di America o Gregor Samsa trasformato in insetto si
arrendono al terrificante ordine cui sono sottoposti, e dal quale sono stati
colpiti.
La Legge
dei Padri li divora con l'indifferenza di una catastrofe naturale, ma è di
loro, figli feriti, che ci ricordiamo. Qui si svela il cuore della tragedia
kafkiana: il razionalismo e la testardaggine di questi personaggi è
esattamente ciò che li condanna: sappiamo che dal Tribunale si può ottenere
facilmente un'assoluzione temporanea, che ritarderebbe all'infinito
l'esecuzione: ma per Josef K. non è abbastanza. Egli è innocente e pretende
di esserlo riconosciuto in pieno — una condizione che molti, troppi esseri
umani hanno provato.
Gli stessi
Diari di Kafka sono pieni di riferimenti di questo tipo; fra i tanti
ne scelgo uno: "scriverò nonostante tutto, assolutamente: è la mia
battaglia per l'esistenza". Sì: la scrittura non è certamente un vezzo,
ma non è nemmeno pura ricerca di bellezza, né semplice espressione di
pensiero: è una guerra per affermarsi e trovare un punto saldo dentro di sé,
per testimoniare di esistere. Guardami. Sono qui. Come nel racconto Un messaggio dell'imperatore, benché la missiva del sovrano
non arriverà mai (a causa di mille ostacoli e mille difficoltà) e dunque la
speranza sia vana, ciò nonostante ancora la sogniamo. Perché? Perché non ci
resta altro. Per non cedere.
In questo
Kafka portò alle estreme conseguenze la lezione del suo scrittore preferito,
Flaubert: non solo la parola deve essere sempre quella giusta, ma deve avere
anche una virtù ulteriore, etica: deve mirare disperatamente alla verità:
"La sua arte non è soltanto, come può sembrare, una ripugnante
deformazione della realtà", scrisse Ladislao Mittner nel saggio Kafka
senza kafkismi: "è anche, nei suoi momenti più alti e, in teoria,
dovrebbe sempre essere, la distruzione di quella ripugnante menzogna che è la
realtà."
La fine
terribile dei personaggi di Kafka — vittime, spesso incolpevoli — non
disperde in alcun modo la loro resistenza: anzi, la rende ancora più ricca.
L'integrità di Kafka sta in questo: nella capacità di rappresentare la
ferocia del Potere e insieme nel coraggio di rivendicare le ragioni del
singolo. Ancora dai Diari: "Anche se la redenzione non giunge,
voglio però esserne degno in ogni momento". La redenzione non sarebbe
giunta, né per lui né per i suoi personaggi. Ma è così che dovremmo
ricordarlo, centotrenta anni dopo la sua nascita.
(03/07/13)
N. B. : una
versione inglese di questo saggio è stata pubblicata su Berfrois
|
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
03 luglio 2013
PER FRANZ KAFKA
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