Sabina Loriga, storica, insegna all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Il suo libro La piccola x, pubblicato da Sellerio nel 2012, riflette sul rapporto tra individuo e storia, interrogandosi sui meccanismi della causalità storica, sul problema della responsabilità individuale e sulla forma di conoscenza offerta dalla letteratura nei generi della biografia e del romanzo.
Dal sito http://www.leparoleelecose.it/ riprendiamo la prefazione del volume e un estratto del sesto capitolo, dedicato a Tolstoj.
SABINA LORIGA - LA PICCOLA X
Prefazione
Dalla fine del secolo XVIII, gli storici hanno accantonato le azioni e le sofferenze dei singoli, per cercare di scoprire il processo invisibile della storia universale. Le ragioni che li hanno indotti a trascurare i singoli esseri umani, per passare da una storia plurale (die Geschichten) a una storia unica (die Geschichte) sono svariate[1]. Senza dubbio, hanno pesato due difficili sorprese della modernità: da un lato, la scoperta che anche la natura è mortale e, dall’altro, la progressiva perdita di fiducia nella capacità dei nostri sensi di cogliere la verità (dai tempi di Copernico, la scienza non fa altro che mostrarci i limiti dell’osservazione diretta)[2]. Ma, accanto a queste trasformazioni profonde, che vanno molto al di là dei nostri atteggiamenti coscienti e che, per certi aspetti, ci sfuggono, hanno forse influito alcune vicissitudini intellettuali meno tragiche, anche più banali. Innanzitutto, la speranza di dare alle scienze umane basi scientifiche stabili e oggettive. Si è trattato di un immenso sforzo di conoscenza, che ha indotto le discipline più disparate (dalla demografia alla psicologia, dalla storia alla sociologia) a uniformare i fenomeni, spesso eliminando le differenze, gli scarti, le idiosincrasie.
Il vizio di veder tutto simile e uguale ha avuto conseguenze gravi. Hannah Arendt ne parla in una lettera a Karl Jaspers del 4 marzo 1951. Ritornando, ancora una volta, sulle tragedie politiche e sociali che hanno impregnato il XX secolo, scrive che il pensiero moderno ha perduto il gusto della diversità: “Che cosa sia oggi il male nella sua dimensione reale non lo so, ma mi sembra che esso in certo modo abbia a che fare con [questo fenomeno]: la riduzione di uomini in quanto uomini a esseri assolutamente superflui”. Poi precisa: “in questo pasticcio la filosofia non è del tutto senza colpa. Naturalmente, non nel senso che Hitler abbia qualcosa a che fare con Platone (…), ma piuttosto nel senso che questa filosofia occidentale non ha mai avuto un concetto puro della politica, né poteva averne uno, perché ha sempre parlato di necessità, dell’Uomo, e si è occupata della pluralità solo incidentalmente”[3].
Questa perdita di pluralità riguarda, oltre la filosofia, anche la storia. Negli ultimi duecento anni, i nostri libri di storia si sono riempiti di racconti senza soggetto: parlano di potenze, nazioni, popoli, alleanze, gruppi di interessi, ma solo molto raramente di esseri umani[4]. Come ha intuito uno scrittore particolarmente attento al passato, Hans Magnus Enzensberger, la lingua della storia ha cominciato a nascondere gli individui dietro categorie impersonali: “la storia viene esibita senza soggetto, le persone di cui essa è la storia compaiono solo come figure accessorie, come sfondo scenico, come massa oscura nel fondo del quadro: ‘i disoccupati’, si dice, ‘gli imprenditori’” .…. Persino i cosiddetti makers of history appaiono privi di vita: “la sorte degli altri – quelli del cui destino non si fa parola – si vendica sulla loro sorte: essi sono irrigiditi come manichini e somigliano alle figure di legno che nei dipinti di De Chirico prendono il posto degli uomini”[5].
Il prezzo etico e politico di questa desertificazione del passato è molto elevato. Nel momento in cui scartiamo le motivazioni personali, “Alessandro, Cesare, Attila, Maometto, Cromwell, Hitler sono come inondazioni o terremoti, albe, oceani o montagne; possiamo ammirarli o temerli, benedirli o maledirli, ma criticare o magnificare le loro gesta è in definitiva tanto ragionevole quanto rivolgere la predica a un albero”[6]. Queste parole di Isaiah Berlin, scritte nel 1953, sono estremamente importanti e attuali. Negli ultimi anni la storiografia cosiddetta postmoderna, di ispirazione nietzschiana, è spesso stata rimproverata di avere minato l’idea di verità storica e, quindi, abolito la possibilità di valutare il passato[7]. Ma il pericolo di relativismo, che corrode il principio di responsabilità individuale, è insito anche in una lettura impersonale della storia, che descrive la realtà attraverso anonimi rapporti di potere. Berlin ci ricorda che la speranza di far parlare le cose stesse ci spinge a proporre un’immagine eccessivamente necessaria della realtà. Talvolta, anche a celebrare un po’ troppo i fatti compiuti: “tutto ciò che sta dalla parte della ragione vincente è giusto e saggio; tutto ciò che sta dall’altra parte, dalla parte del mondo che è destinato alla distruzione dall’opera delle forze della ragione è detto ridicolo, frutto di ignoranza, soggettivo, arbitrario, cieco”[8].
Per questo motivo, mi è sembrato importante tornare su quella minoranza di autori che, nel corso del secolo XIX, hanno cercato di salvare la dimensione individuale della storia. Quel tempo ha dato vita a una riflessione estremamente ricca e complessa sulla “piccola x”. Di che cosa si tratta? L’espressione è di Johann Gustav Droysen, che, nel 1863, scrive che, se si chiama A il genio individuale, cioè tutto ciò che un singolo uomo è, possiede e fa, allora questa A consta di a + x, dove a comprende tutto ciò che gli viene da circostanze esterne, dal suo paese, dal suo popolo, dalla sua epoca, etc. e x il suo contributo personale, l’opera della sua libera volontà[9]. Prima e dopo Droysen, altri autori esplorano la piccola x. Come si forma? E’ innata? È di tutti gli esseri umani? Va integrata nella storia? Se sí, qual è il rapporto tra il singolo caso individuale e il movimento generale della storia? All’inizio, la riflessione è strettamente legata a quella sulla nazione: come vedremo a proposito di Johann Gottfried Herder, le peculiarità dei popoli trainano quelle personali. Poi si riaccende, nella seconda metà del secolo, all’interno di una complessa discussione sullo statuto epistemologico delle scienze umane. Non si tratta di un dibattito compatto, con un titolo preciso, una data iniziale e una conclusiva, ma di una conversazione difficile, indiretta, e continuamente interrotta, che attraversa le frontiere nazionali. È stata ingiustamente dimenticata. In parte, perché è scandita da alcuni termini desueti e pericolosi – come eroe o grande uomo. E in parte perché, tra gli storici, continua a sussistere la strana, arrogante, convinzione che il presente storiografico sia preferibile e migliore – insomma, più scientifico – di quello passato.
Per certi aspetti, in questo libro, propongo di fare un’incursione nella tradizione. Quest’espressione merita un chiarimento. Innanzitutto, non si tratta di un richiamo all’ordine[10]. Non attribuisco ai nostri predecessori un’autorità indiscutibile e non intendo trascurare l’importanza delle innovazioni o delle esperienze storiografiche realizzate nel corso degli ultimi decenni. Tuttavia, mi sembra che un rapporto più profondo con la tradizione possa arricchire la nostra capacità di sperimentare. Troppo spesso, soprattutto nella discussione sul postmoderno, il passato storiografico è descritto come una realtà tout d’une pièce, fatta di certezze sulla verità e l’oggettività. Il mio proposito è di mettere in luce dei pensieri che smentiscono quest’immagine così convenzionale della tradizione.
Peraltro, questo salto nella tradizione non riguarda la biografia in sé: né il suo metodo, né la sua evoluzione narrativa. E non ha nulla di filologico: non propongo una lettura esauriente dei singoli autori e spesso mi sono limitata a evocare le motivazioni politiche e sociali delle loro riflessioni – come l’impatto del bonapartismo o l’affermazione politica delle masse. È una grave lacuna, che spero possa essere presto colmata da altre ricerche. Ma, in quest’occasione, il mio obiettivo è la storia biografica: se dovessi riassumere in pochissime parole quello che ho fatto in questi anni, forse potrei dire che ho raccolto pensieri per popolare il passato. A questo scopo, ho privilegiato una prospettiva ampia, che attraversa le frontiere geografiche, linguistiche e disciplinari.
Gli autori che ho frequentato sono degli storici (oltre a Thomas Carlyle, soprattutto alcuni tedeschi, da Wilhelm von Humboldt a Friedrich Meinecke), uno storico dell’arte (Jakob Burckhardt), un filosofo (Wilhelm Dilthey) e uno scrittore (Leon Tolstoj). In realtà, la definizione disciplinare risulta povera, perché sono quasi tutti dei pezzi unici, che non appartengono né a una scuola né a una corrente. Tra di loro non c’è una continuità o una coerenza stretta; però condividono almeno due convinzioni. Innanzitutto, credono che il mondo storico sia creativo, produttivo, e che questa qualità non abbia il suo fondamento in un principio assoluto, trascendente o immanente all’azione umana, ma nell’azione reciproca dei singoli individui. Quindi non presentano la società come una totalità sociale indipendente (un “sistema” o una “struttura” impersonale superiore agli individui), ma come un’opera comune. Inoltre, hanno uno spiccato senso della vitalità periferica della storia: mirano, più che a unificare i fenomeni, a svelare la natura multiforme del passato. Ovviamente, non sono i soli a pensarla così. La diversità dell’esperienza storica viene difesa, in quegli stessi decenni, da William James e Max Weber, e, più tardi, da Walter Benjamin, Siegfried Kracauer e altri autori che attraversano il libro, anche se non ho potuto dedicar loro uno spazio particolare.
Ma, prima di seguire i giganti nei loro pensieri, conviene esplorare la frontiera, incerta e instabile, che separa la biografia dalla letteratura e dalla storia.
Capitolo VI.
Tolstoj. La storia infinita
[…]
Oltre a contrastare il suo stesso scetticismo etico, Tolstoj cerca in tutti i modi di violare l’inaccessibilità del passato. Il suo disprezzo per gli storici (come Adolphe Thiers o, peggio ancora, Henry Buckle, che scambia le sue categorie scientifiche per fatti reali) è della stessa fibra di quello di Andréj per i militari (da Barclay de Tollay a Pfull e Benningsen). E’ acido, apodittico, apparentemente senza scampo, eppure profondamente impregnato di un desiderio di sfida. Chiede di essere smentito: da se stesso. Voglio dire che quel disprezzo non blocca né il personaggio né il romanziere: porta il primo a lasciare lo Stato maggiore per andare aguidare personalmente un battaglione e il secondo a proporre un altro modo di fare storia[11].
In tanti momenti, Tolstoj smette di agitare l’inesauribilità della storia come uno spauracchio. Invece di arrendersi, prova a maneggiarla. Senza dirlo ad alta voce, attraverso la semplice narrazione, reagisce a quel dilemma biografico che condivide con Carlyle in un modo tutt’altro che distruttivo o rassegnato. Come? Grazie a tre scelte narrative particolarmente ostinate: personalizzando l’azione, moltiplicando i punti di vista e dando voce al moto continuo degli individui e delle situazioni.
Tutti i personaggi di Guerra e pace sono intrisi fino al midollo delle loro esperienze sociali, ma non capita mai di imbattersi in ragionamenti impersonali, fondati su masse, ceti, generazioni, e cosí via (l’unica eccezione riguarda il dualismo città-campagna); non si incontrano neanche individui rappresentativi, medi, normali. Ogni personaggio ha un nome proprio e una sua storia: anche quelli apparentemente irrilevanti (come il cocchiere Efim, il domestico Tichon, la balia Savisna e lo stalliere Prokofij) o, addirittura, quelli più mediocri, come Berg e Vjera, sempre intenti a emulare gli altri, non sono mai banali, hanno sempre qualcosa di personale. Come dice Tolstoj, hanno una personalità legittima. Potremmo dire – tanto per parafrasare l’inizio di Anna Karenina – che ognuno di loro è mediocre “a modo suo”. In questo senso, il determinismo di Tolstoj non ha nulla a che fare con quello, naturalistico, che tritura la vita, dipingendo le azioni umane come reazioni uniformi dell’automa[12]. Probabilmente, questo sforzo di personalizzazione cosí intenso e tenace dà a tutta la narrazione una dimensione un po’ antropomorfica. Diversamente da Flaubert, che mira a descrivere il mondo della natura e gli oggetti materiali con assoluta precisione, Tolstoj utilizza persino gli alberi, i corpi celesti, i berretti per descrivere le emozioni degli esseri umani. Come ha giustamente osservato George Steiner, questa scelta, per certi aspetti discutibile, gli permette di spezzare con quella tradizione realistica un po’ metallica, che dà al lettore un “senso di costrizione e di inumanità”[13]: il perno dei suoi scritti continua a essere l’essere umano, con i suoi errori e i suoi dolori.
Dotato di nome e cognome e di un po’ di storia, ogni personaggio pensa, guarda e sente le cose a modo suo. Un uomo non ha un certo aspetto, è sempre un altro a notare che egli ha quell’aspetto: le mani di Karenin sono grossolane e ossute quando le guarda Anna e sono morbide e bianche quando le guarda Lidi Ivanovna[14]. La stessa cosa avviene con gli eventi storici. L’incontro dei due imperatori a Tilsitt non ha lo stesso significato fisico e morale per chi sta al quartier generale e chi nell’esercito: mentre Boris Drubetskoj non considera più Napoleone come un nemico, bensì come un sovrano, e organizza allegre cenette con gli aiutanti di campo francesi, Nikolaj Rostòv continua a provare l’antico sentimento misto d’odio, di disprezzo e di paura. Invece di essere infastidito da questa irriducibilità, Tolstoj ne fa un punto di interesse, per dar voce all’immensa diversità delle menti umane, “la quale fa sí che una verità non si presenti mai nello stesso modo a due persone”[15]. Potenziando una classica forma letteraria, quella dei doppi e tripli intrecci, coltiva, più di chiunque altro, il coesistere delle diverse immagini del mondo. La sua prosa ignora l’unità e le sue spiegazioni rifuggono dalla generalizzazione: l’unica cosa che davvero accomuna tutti i suoi personaggi è la ribellione del molteplice contro l’uniforme[16].
Infine, convinto com’è che nella vita non ci sia niente di stabile, Tolstoj non si limita a raccontare diversi punti di vista, li fa muovere: il molteplice di Guerra e pace non è mai fermo[17]. Non è un caso che la trama non abbia né un inizio né una fine certi: siamo subito scaraventati, senza preamboli né presentazioni, nel vivo di una conversazione a casa di Anna Pàvlovna, dove il bel mondo di Pietroburgo (11 rappresentanti in carne e ossa più 23 in nome) commenta l’esecuzione del duca d’Enghien, per esser poi congedati nel corso della lotta tra Nikolen’ka Bolkonski e i suoi incubi. Come andrà a finire? Questa soluzione narrativa non esprime solo la pressione della creazione, come se “quell’estasi occulta che nasce dal dar forma alla vita attraverso la lingua, non si fosse ancora esaurita”[18]. Scaturisce anche dal fatto che ogni personaggio si trova sempre nel mezzo di una serie mobile di fatti. E’ un punto a cui ho già accennato, a proposito della marcia di fianco oltre Kràsnaja Pachrà, quella che avrebbe potuto essere fatale per l’esercito russo e che invece porta alla rovina delle truppe francesi. Diventa ancora più evidente se, per un momento, proviamo ad ascoltare mentalmente il racconto della rottura del fidanzamento tra Andréj e Natasa. Se in Natasa non ci fosse stato un non so che di eccessivo che la rendeva infelice e se Andréj, una volta lontano da lei, non le avesse dato l’impressione di vivere una vera vita, di vedere nuovi paesi e nuove persone che l’interessavano…. Se quell’originale del vecchio principe Bolkonski avesse accettato che il figlio voleva mutare la propria vita, “introdurvi qualcosa di nuovo, quando per lui la vita era già terminata”, se la principessina Maria non fosse stata cosí gelosa, se Dolòchov non si fosse divertito a dirigere la volontà di Anatole, se la madre di Natasa non fosse rimasta nella campagna di Otradnoje insieme al piccolo Petja… Ma anche, se, se, se….. forse, allora, Natasa non sarebbe rimasta a lungo vittima di quella tristezza che le faceva pensare “che non accadrà mai più nulla, nulla, che tutto quello che c’era di bello è già accaduto” e avrebbe potuto sentire anche tra sé e Anatole la forza di quegli ostacoli morali che provava nei confronti degli altri uomini[19]. Attraverso tutti questi passaggi, il loro effetto eco, suggerendo che ognuno di essi ne evoca ancora altri, Tolstoj racconta l’infelice insieme di circostanze che abbandonano Natasa in balia di Anatole come un moto assoluto. Siamo immersi in un movimento musicale, che continua a risuonare sommessamente nell’orecchio anche dopo che l’esecutore ha terminato di suonare l’accordo.
Tutto il racconto è intriso da una speranza: benché non sia pensabile ricostruire tutti i gesti, le azioni, i pensieri che hanno formato un avvenimento, forse è almeno possibile evocare le perdite, le discrepanze, le incoerenze, le possibilità non realizzate. Attraverso tutti quei se, Tolstoj narra anche ciò che non ha avuto seguito, quello che è stato e si è interrotto. Ci dice che l’avvenimento stabilisce la sua necessità solo dopo essere avvenuto, ma che, all’epoca, durante lo svolgersi e il concatenarsi dell’azione, esistevano altre possibilità: altri fatti avrebbero potuto compiersi; sono stati cancellati, eliminati dal risultato finale, ma questo non significa che fossero meno reali. Ne è un altro esempio – questa volta felice – quel che accade poco prima della fuga da Mosca, quando un ufficiale si reca a casa Rostòv a chiedere qualche carro per i feriti: prima il conte dà la sua disponibilità, poi, “come faceva sempre quando si trattava di denari”, ne parla timidamente alla contessa, la quale impedisce al marito di voler rovinare “tutto l’avere nostro, cioè l’avere dei nostri figli”; finché non compare Natasa, con il viso sfigurato dalla rabbia, che accusa la madre di aver ordinato un’infamia e convince il padre a mettere a disposizione i carri per i feriti. Nel giro di qualche istante quello che sembrava impossibile diventa del tutto ovvio: “alla servitù ora questo non soltanto non pareva strano, ma al contrario pareva che non potesse farsi diversamente: appunto come un quarto d’ora prima non soltanto a nessuno pareva strano abbandonare i feriti e portar via la roba, ma pareva che non si potesse fare diversamente”[20].
Forse per questo, nel vivo della narrazione Tolstoj accantona il suo stato d’animo scettico e propone un altro modo di fare storia, in cui i vuoti sono altrettanto essenziali dei pieni. Evocando i punti divergenti e le possibilità inespresse della vita di Pierre, di Andréj e di Natasa e di tutte le altre “quantità infinitesimali” che hanno partecipato alla campagna di Russia, suggerisce di ribaltare la prospettiva, di vedere nel limite della storia, nella sua inesauribilità, uno dei suoi pregi fondamentali. In questa prospettiva, più che ricostruire tutte le mille, piccole, più o meno banali circostanze che hanno dato forma a un evento, diventa importante dare il senso che sono mille, piccole, più o meno banali e che sarebbe bastato che ne venisse meno una sola perché un fatto potesse non accadere. Insomma, quel che conta è smettere di nascondere il non finito per cominciare a suggerirlo.
[1] Nel suo testo sul concetto di storia Reinhart Koselleck osserva che il termine Geschichte nasce dopo due eventi convergenti: da un lato, la costituzione di un collettivo singolare che connette l’insieme delle storie particolari e, dall’altro, una contaminazione reciproca del concetto di Geschichte in quanto insieme di eventi e di quello di Historie in quanto conoscenza, racconto e scienza storica. Cfr. Reinhart Koselleck, Storia. La formazione del concetto moderno, Bologna, CLUEB, 2009. Si veda anche Reinhart Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Bologna, CLUEB, 2007, cap. IV.
[2] Sulla consapevolezza della vulnerabilità della natura, cfr. Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1999. Si veda anche Hans Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico, Bologna, Il Mulino, 1991.
[3] Hannah Arendt, Carteggio 1926-1969, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 104.
[4] Cfr. Philip Pomper, Historians and Individual Agency, “History and Theory”, 1996, 35, 3, pp. 281-308.
[5] Hans Magnus Enzensberger, Letteratura come storiografia, “Il Menabò”, 1966, IX, p. 8.
[6] Isaiah Berlin, L’inevitabilità storica, in Quattro saggi sulla libertà, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 128.
[7] Cfr. Carlo Ginzburg, Unus testis. Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà, “Quaderni Storici”, 1992, 80, pp. 520-548; Richard J. Evans, In difesa della storia, Palermo, Sellerio, 2001, cap. VIII.
[8] Berlin, L’inevitabilità storica, cit., p. 126. Si veda anche Hugh Trevor-Roper, History and Imagination, inHistory and Imagination. Essays in Honour of H.R. Trevor-Roper, London, Gerald Duckworth, 1981, pp. 356-369.
[9] Johann Gustav Droysen, Istorica, Napoli, Guida, 1994. Droysen si fonda su un esempio di Hermann Lotze.
[10] Negli ultimi anni, soprattutto, nei paesi anglo-sassoni, molti storici hanno proposto una contrapposizione discutibile tra la storia tradizionale e la nuova storia: cfr. Theodore S. Hamerow, Reflections on History and Historians, Madison, University of Wisconsin Press, 1987, cap. V; Elizabeth Fox-Genovese, Elisabeth Lasch-Quinn (a cura di), Reconstructing History: The Emergence of a New Historical Society, New York-London, Routledge, 1999, pp. XIII-XXII.
[11] Il 6 novembre 1873, proprio pochi anni dopo avere concluso la stesura definitiva di Guerra e pace, annota: “Ho cominciato da giovane, prima del tempo, a analizzare e a distruggere spietatamente tutto. Spesso avevo paura, pensavo: non mi rimarrà niente di intero. Ma ecco che invecchio, e mi è rimasto molto di intero e di intatto, più che agli altri uomini”. Cfr. Lev Nikolaevic Tolstoj, I diari, Milano, Garzanti, p. 214.
[12] Jean-Paul Sartre, Che cos’è la letteratura? Milano, Il Saggiatore, 1963.
[13] George Steiner, Tolstoj o Dostoevskij, Garzanti 2005.
[14] Cfr. Robert Musil, Diari, Torino, Einaudi, 1980, quaderno 5, p. 375. Anche per Proust una persona non è mai conoscibile come qualcosa di assoluto ma sempre come qualcosa di relativo: cfr. Vladimir Nabokov,Lezioni di letteratura, Milano, Garzanti, 1992.
[15] Lev Nikolaevic Tolstoj, Guerra e pace, Torino, Einaudi, 1968, t. II, p. 508.
[16] Nelle “regole per lo sviluppo della riflessione”, contenute in Tolstoj, Diari, cit., p. 11, si propone di osservare ogni oggetto da ogni lato.
[17] Il 5 luglio 1892 Tolstoj annota: “E’ come cercare di imprimere una forma sull’acqua corrente. Tutto: la personalità, la famiglia, la società, tutto cambia, scompare e si riforma come una nuvola. E non fai a tempo a abituarti a uno stato della società, che quello non c’è già più e è passato in un altro”, Tolstoj, Diari, cit., p. 338.
[18] Steiner, Tolstoj o Dostoevskij, pp. 22, 104-106.
[19] Tolstoj, Guerra e pace cit., t. II, pp. 555, 609.
[20] Ibid., t. III, p. 1012. Il senso del possibile, anzi, delle realtà possibili accompagnerà Tolstoj per tutta la vita: “sono andato sul tram a cavalli, al piano superiore – scrive il primo gennaio del 1900 – : guardavo le case, le insegne, le botteghe, i cocchieri, la gente che passava a piedi in vettura, e d’improvviso mi è apparso così chiaro che tutto questo mondo, compresa la mia vita, è solo una delle infinite possibilità di altri mondi e altre vite, e per me è solo uno degli stadi infiniti attraverso cui mi sembra di passare nel tempo”: Tolstoj,Diari, cit., p. 443. Il tema delle realtà possibili sarà poi approfondito da Musil in L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi, 2005, t. I, §66, p. 265, quando sottolinea che bisognerebbe attribuire più attenzione ai significati potenziali che a quelli realizzati: “le attuazioni mi attraggono sempre molto meno che le cose inattuale, e con ciò non intendo soltanto quelle del futuro ma altresì quelle passate, mancate”. Sulla legge di retrospettività, che ci porta a rappresentare tutto il passato come preparazione di un dato fatto compiuto, cfr. Jacques Bouveresse, L’homme probable. Robert Musil, le hasard, la moyenne et l’escargot de l’histoire, Paris, Editions de l’éclat, 1993.
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