In “Salvate
il soldato Ryan”, Steven Spielberg mostrava come durante lo sbarco in Normandia
i soldati americani avessero fucilato sul posto gruppi di prigionieri tedeschi
dopo che si erano arresi. La cosa fece scalpore. Oggi due saggi, ben
documentati, sulle stragi di italiani, soldati e civili, nella Sicilia del '43,
dimostra che si trattò di una pratica diffusa, incoraggiata dai comandi.
Francesco
Bei - Sicilia, luglio 1943. Lo sbarco segreto
«Avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi estremi». Il sergente Horace West, processato negli Stati Uniti per aver svuotato a sangue freddo i caricatori del suo Thompson su 37 prigionieri italiani, si giustificò così di fronte al tribunale militare.
Operazione Husky, nome in codice dello sbarco in Sicilia il 9 e 10 luglio di 70 anni fa: imbottiti di benzedrina per resistere alla fatica, furiosi per l’accanita resistenza che avevano incontrato, nonostante la superiorità schiacciante di mezzi e uomini, in diverse occasioni i fanti e i parà americani si lasciarono andare a violenze ed eccidi contro i prigionieri o la popolazione civile. In questo il sergente West – condannato, graziato e tornato in servizio come soldato semplice – in fondo era sincero. Il mitico generale Patton, celebrato da Hollywood, rivolgendosi ai suoi ufficiali alla vigilia dello sbarco in Sicilia aveva usato la famosa formula: «Kill, kill and kill some». Quanto al nemico, le istruzioni del generale erano chiare: «Se si arrendono quando tu sei a 2-300 metri da loro, non pensare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola e poi spara. Si fottano.
È il lato
oscuro dell’invasione alleata della Sicilia, quando la più grande forza di
sbarco che mai si fosse vista in Europa travolse le abborracciate difese
costiere italiane. Ora i fantasmi di quei caduti ritrovano vita in diversi
saggi appena usciti. E si riaprono i dossier. Come quello della strage dei
Carabinieri a Passo di Piazza, raccontato nel libroGela 1943 di Fabrizio Carloni
(Mursia). Dopo essere stati circondati dagli uomini dell’82esima “Airborne”, i
Carabinieri cessarono il fuoco e si fecero catturare. Erano 13 o 14. «Furono
allineati con le spalle al muro a tre-quattro metri dal muro della palazzina,
rivolti ai nemici che li fronteggiavano armati di mitra; gli statunitensi erano
sei o sette e ingiungevano di tenere le mani ben alte («Hands up, hands up!»)».
Poi iniziarono a sparare con i mitra. «Il nostro testimone sosteneva che la
fila intera si abbatté al suolo; tre o quattro dei camerati gli sembrarono, nei
momenti successivi, morti; Quattro gli parvero, nella concitazione, feriti
gravemente, di cui uno di Salerno, che piangeva, gli sembrò morente con ferita
a cratere sulla spalla sinistra che perdeva sangue a fiotti». Cianci, il
testimone sopravvissuto, simulò di essere stato colpito al petto e si salvò.
Ancora più grave la strage dei prigionieri che Andrea Augello racconta in Uccidi gli italiani e Domenico Anfora e Stefano Pepi descrivono inObiettivo Biscari(Mursia). Gli avieri italiani, aiutati da qualche elemento della “Goering”, si trincerano all’aeroporto di Biscari e ingaggiano quella che viene ricordata come la più dura battaglia della campagna siciliana. Al termine il tenente li raduna nell’ultimo avamposto: «Avieri, vi siete battuti bene». Ne restano vivi meno di 40. Si arrendono e vengono consegnati al sergente Horace West, che li dispone in fila lungo un fossato. L’aviere Giuseppe Giannola viene ferito a un braccio e alla testa. Ma la sua giornata gli riserva un’altra tragica sorpresa. Medicato da un’ambulanza militare, aspetta la sorte sul ciglio della strada: «È arrivata una Jeep con tre soldati. Quelli davanti sono scesi: penso mi avessero scambiato per uno di loro. Mi parlavano sorridendo, poi si sono accorti che non capivo. Li ho visti guardarsi in faccia: quello con il fucile ha indicato all’altro la Jeep, lo ha mandato via. È rimasto solo, in piedi, di fronte a me. Io ero seduto, lui mi fissava. Poi ha imbracciato il Garand, ha mirato al cuore e ha sparato». Eppure, miracolosamente, Giannola “resuscita” una seconda volta perché il proiettile non colpisce organi vitali.
La battaglia
di Biscari va ricordata anche per la morte di Luz Long, medaglia d’argento alle
Olimpiadi di Berlino del 1936 nel salto in lungo, alle spalle del leggendario
atleta di colore statunitense Jesse Owens. Long e Owens divennero grandi amici,
benché la guerra avesse separato i loro destini e spedito l’atleta tedesco fin
nella sperduta Biscari a difendere con la sua batteria contraerea una pista di
terra in Sicilia. L’ultima lettera che Long scrisse dal fronte fu proprio
all’amico (nero e americano!) Jesse Owens: «Dove mi trovo sembra che non ci sia
altro che sabbia e sangue. Io non ho paura per me, ma per mia moglie e per il
mio bambino, che non ha mai realmente conosciuto suo padre. Il mio cuore mi
dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse
essere ti chiedo questo: quando la guerra sarà finita vai in Germania a trovare
mio figlio e raccontagli anche che neppure la guerra è riuscita a rompere la
nostra amicizia. Tuo fratello Luz».
Su un altro
episodio raccontato da Pepi e Anfora inObiettivo Biscari,ovvero l’uccisione del
podestà di Acate Giuseppe Mangano, del figlio Valerio e del fratello Ernesto,
la Procura militare di Napoli ha deciso di aprire un fascicolo d’inchiesta. Gli
invasori-liberatori sono anche offuscati da pregiudizi etnici, basta leggere i
dispacci “top secret” che Giuseppe Casarrubea e Mario José Cereghino hanno
raccolto inOperazione Husky(Castelvecchi). «Gli italiani – scrive il servizio
segreto britannico – sono dei gran chiacchieroni, si lagnano di tutto e non
fanno che disperarsi. ma quando si tratta di passare dalle parole ai fatti,
spunta sempre un pretesto per non agire». Non fu così in Sicilia, quando un
esercito di “straccioni”, abbandonato dai generali e da Mussolini, tenne testa
per 38 giorni alla grande armata alleata.
Il maggiore Victor Joppolo entrando per primo a Licata-Adano nel romanzo Una campana per Adanodi John Hersey (Castelvecchi, premio Pulitzer 1945) nota una donna morta in un vicolo, mutilata dalle bombe che hanno distrutto la città. «Che orrore. È terribile pensare che abbiamo dovuto far questo ai nostri amici». «Amici», risponde il sergente Borth al suo fianco, «questa è bella».
(Da: La
Repubblica 8 luglio 2013)
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