Brutto
mese luglio per gli uomini della Provvidenza...
Paolo Mieli
I retroscena del 25 luglio: 70 anni fa la caduta del Duce
I n occasione dei settant'anni dalla caduta del fascismo (25 Luglio 1943), la casa editrice Le Lettere pubblica tre importanti libri di testimonianza incentrati sulle vicende che portarono alla defenestrazione di Benito Mussolini. Tutti e tre a cura di Francesco Perfetti, lo storico che li ha portati alla luce. I primi due, Gran consiglio, ultima seduta di Alberto De Stefani e Memorie di un condannato a morte di Luigi Federzoni, sono stati scritti da personaggi che erano stati al fianco del Duce fin dall'inizio dell'avventura fascista anche se poi, nel 1943, non ebbero dubbi a provocarne la caduta.
Alberto De Stefani era
stato praticamente l'unico parlamentare eletto in una lista fascista
alle elezioni del 1921 (gli altri seguaci di Mussolini erano stati
portati in Parlamento dai Blocchi nazionali, insieme a liberali,
nazionalisti, democratici, ex combattenti). «Il deputato d'assalto»,
lo definì Alberto Mario Perbellini sul «Resto del Carlino» e lui
fece sua questa «qualifica». Ma De Stefani fu soprattutto un
economista di grande spessore. All'indomani della marcia su Roma
(ottobre 1922), Mussolini lo volle con sé al governo come ministro
delle Finanze e del Tesoro. De Stefani, per non deludere colui che
gli aveva dato una così grande prova di fiducia, da quella
postazione mirò a quello che era stato l'obiettivo delle grandi
personalità della Destra storica: il pareggio del bilancio. Pareggio
che ottenne nell'estate del 1925, poco prima di essere estromesso dal
ministero per divergenze con il capo del fascismo, dissensi che
datavano dai tempi dell'uccisione di Giacomo Matteotti.
De Stefani tornò allora
all'insegnamento universitario e alla collaborazione con il «Corriere
della Sera», salvo essere richiamato in servizio dallo stesso
Mussolini alla guida di un comitato per la riforma burocratica. Quel
comitato, però, ebbe vita breve (1928-1929). Dopodiché l'economista
venne incluso, non senza problemi, nel Gran consiglio del fascismo
(1930). Negli anni Trenta De Stefani fu contrario alla guerra
d'Etiopia e, quando l'Italia strinse un'alleanza con Tokyo in vista
di un nuovo conflitto, lui — in contrasto con l'opzione giapponese
— accettò di diventare consulente del governo cinese. Non c'è da
stupirsi, perciò, che nel luglio 1943 sia stato tra i firmatari
dell'ordine del giorno di Dino Grandi, destinato a provocare il
crollo del regime mussoliniano.
Diversa la biografia di
Luigi Federzoni. Era stato, nel 1910, insieme a Enrico Corradini, uno
dei fondatori dell'Associazione nazionalista italiana. In ottimi
rapporti con Vittorio Emanuele III, nel 1922, al momento della marcia
su Roma, Federzoni aveva avuto un ruolo importantissimo nel tenere
Mussolini al corrente — quasi in tempo reale — delle decisioni
del sovrano. Il Duce lo compensò affidandogli il ministero delle
Colonie (ma lui avrebbe voluto gli Esteri) e poi, per premiarlo della
fedeltà dimostrata ai tempi dell'affaire Matteotti, nel 1924 lo
spostò agli Interni, dove rimase fino al 1926. Ma anche lui, come De
Stefani, negli anni Trenta non fece nulla per nascondere il suo
dissenso ed ebbe cariche sostanzialmente onorifiche: presidenza del
Senato prima (1929-1939), poi dell'Accademia d'Italia (1938-1943). Fu
tra i pochissimi che nel 1938 si opposero apertamente alle leggi
razziali e probabilmente per questo perse la presidenza del Senato.
Anche in questo caso non
è perciò una sorpresa trovare il suo nome tra quelli dei congiurati
del luglio 1943. Pur se, a suo dire, non si dovrebbe assolutamente
parlare di congiura. «Prima di tutto», scrive in Memorie di un
condannato a morte, «niente "fellonia" né tampoco
"agguato", "imboscata" ecc.: parole altrettanto
gonfie di fragore quanto vuote di senso, con le quali ci si vorrebbe
squalificare… Grandi preavvisò Mussolini fin dalla mattina del 22
circa la nostra iniziativa, e poi gli inviò, a mezzo di Scorza, il
nostro ordine del giorno». Perciò, prosegue, non si può dire che
ci fu colpo di Stato; si ebbe invece l'«esercizio legittimo di una
potestà statutaria del sovrano, esercizio suffragato, sebbene non ce
ne fosse bisogno, dal non meno legittimo voto del Gran consiglio».
De Stefani è di parere
diverso. Il fatto che Mussolini non avesse sollevato un'eccezione di
costituzionalità in merito all'ordine del giorno Grandi, «benché
non potesse essergli sfuggito» che quell'iniziativa era
«incostituzionale», aveva comportato che egli stesso avesse
«legalizzato» in qualche modo «l'iniziativa rivoluzionaria e il
colpo di Stato del Gran consiglio». Del resto Mussolini era da tempo
«uscito dai propri limiti legali, avocando a se stesso con un atto
rivoluzionario la rappresentanza del fascismo e il diritto di
interessarsi, eccedendo i propri poteri, di questioni riguardanti i
supremi interessi della patria».
Questa lettura della
seduta del Gran consiglio del 25 Luglio 1943, «che tende a
sottolineare una dimensione rivoluzionaria e incostituzionale» e ad
«avallare l'idea che in quella sede fosse stato realizzato un colpo
di Stato», osserva Perfetti, «è in contrasto con le affermazioni
fatte, in più sedi, da altri firmatari dell'ordine del giorno
Grandi», i quali, al contrario, «hanno sempre rivendicato la
correttezza giuridica dell'iniziativa e negato per essa ogni
retropensiero di natura eversiva». Primo tra tutti Dino Grandi nel
suo celeberrimo libro 25 Luglio, a cura di Renzo De Felice, edito dal
Mulino.
D'altro canto, fa notare
Perfetti, lo stesso De Stefani rigetta la categoria del «tradimento»,
richiamando l'attenzione sul fatto che l'ordine del giorno Grandi era
un «documento tattico» che offriva a Mussolini un'opzione per il
superamento della crisi. De Stefani mette poi in evidenza come le
critiche alla degenerazione del fascismo fossero condivise anche da
coloro che non avevano sottoscritto il documento. È significativo,
prosegue Perfetti, l'accenno di De Stefani al fatto che Roberto
Farinacci avesse svolto, in quella stessa seduta del Gran consiglio,
una critica argomentata che «aveva investito tutta la politica del
Duce assai più brutalmente dei commenti che Dino Grandi fece nel
proprio ordine del giorno, dai quali esulava la critica della
capacità politica del Duce, evidente invece nei discorsi di
Farinacci». Altrettanto significativo è il riferimento al fatto
che, a un certo punto, quasi tutti fossero preda di una sorta di
«nostalgia del Capo», tanto che si ebbe la tentazione di «far
confluire l'ordine del giorno Grandi in quello del segretario del
partito», con una «decisione di compromesso che avrebbe lasciato le
cose al punto in cui erano».
Secondo De Stefani,
Mussolini aveva «già da quella notte sentito salire in se stesso la
necessità storica della sua esclusione». E questo spiegherebbe
perché sia stato così remissivo nel corso di quella lunghissima
nottata: «L'ingresso del Duce nella sala del Gran consiglio»,
scrive De Stefani, «è stato silenzioso; un'accoglienza di attesa;
pareva non vedesse nessuno; rifletteva e dava l'impressione di chi si
appresta ad ascoltare; la sua espressione era passiva, senza sintomi
di reazione come quella di chi deve accettare un avvenimento e non
vuole sottrarvisi; la macchina era stata messa in moto e avrebbe
continuato a muoversi; non era più in nostro potere di arrestarne la
implacabilità; noi stessi ne eravamo lo strumento; della nostra
libertà si era impadronita quella misteriosa macchina che gli uomini
dicono fatalità; la sua logica ci dominava e noi avevamo perduto la
nostra libertà».
E ancora: «Il Duce è
stanco: s'abbandona sul suo scranno per cercarvi un sostegno al suo
abbandono; ordina al segretario del partito di fare l'appello; siamo
tutti presenti, anche coloro che soggiornavano fuori di Roma e che
non avevano ricevuto l'invito; anch'essi erano tornati per un
misterioso richiamo interiore; molti di noi avrebbero potuto essere
legittimamente assenti, ma ognuno aveva sentito qualche cosa in sé
che lo aveva fatto tornare; le risposte all'appello sono monotone,
impersonali, hanno un timbro unico e sono date a mezza voce… La
nostra personalità sembrava scomparsa, eravamo tutti lì per
adempiere lo stesso dovere; nessuno aveva qualche cosa da esprimere
di suo, di particolare che non fosse comune anche agli altri, o che
anche gli altri non avrebbero detto».
Il libro di De Stefani
prova poi a spiegare perché Mussolini non fece in quell'occasione
alcun «intervento apprezzabile», limitandosi a «qualche spunto
difensivo, qualche punto di vista frammentario sull'origine
confessionale dello Statuto, sull'esercizio effettivo del comando
supremo, sull'impopolarità delle guerre». Con quell'«inerzia»,
secondo De Stefani, Mussolini avrebbe «dimostrato» la sua «lealtà
monarchica», sacrificando ad essa «se stesso e il regime».
Perfetti obietta essere molto più probabile che Mussolini ritenesse
che il re non gli avrebbe tolto il sostegno. Proprio per le
circostanze in cui vennero scritte (cioè a ridosso degli eventi),
sostiene Perfetti, «queste pagine finiscono per assumere, ben più
di quanto sarebbe potuto accadere con un testo elaborato a
posteriori, un valore documentario e di testimonianza intima e
individuale, che travalica la rivelazione di particolari inediti
sullo svolgimento della seduta, i quali, pure, non mancano».
All'epoca in cui mise su carta queste notazioni, De Stefani era rifugiato in un monastero, dove sarebbe rimasto dall'ottobre del 1943 fino al luglio del 1947, per sottrarsi ai tempi di Salò alla condanna a morte in contumacia inflittagli nel processo di Verona per essere stato tra i firmatari dell'ordine del giorno Grandi. E per sfuggire, nel dopoguerra, alla detenzione nel corso dei mesi del processo intentato contro di lui presso la sezione speciale della Corte di Assise di Roma, con l'accusa di aver «concorso ad annullare le libertà costituzionali, distruggere le libertà popolari e di aver commesso altri reati connessi con l'instaurazione e il mantenimento del regime fascista».
Procedimento che si
concluse il 17 settembre del 1947 con un'assoluzione piena
dell'illustre imputato. Il dispositivo con cui gli si rendeva la
libertà conteneva addirittura un elogio: «Giova ripetere che
l'opera sua fu oltremodo proficua alla patria e che meritò la stima
e la considerazione dei suoi avversari politici, i quali tuttora lo
tengono in gran conto, e pertanto non resta che proclamare
l'innocenza di lui, assolvendolo con la formula più completa e
restituendolo alla tranquillità della sua famiglia, di cui seppe
conservare la nobile tradizione, e all'Italia che di uomini della sua
statura morale e intellettuale ha assolutamente bisogno nel periodo
della sua ricostruzione». Con il che De Stefani fu riammesso nella
vita pubblica (anche se mai ne approfittò per tornare all'attività
politica), in quella universitaria e alla scrittura, a cui si dedicò
fino all'anno della sua morte, il 1969.
Il libro di Federzoni è
più aggressivo. «Dettate, spesso, dall'indignazione e percorse da
una vena di profonda amarezza», scrive Perfetti, le Memorie di un
condannato a morte, «al di là del valore documentario su alcuni
episodi e particolari della storia del ventennio, sono anche una
sorta di esame di coscienza di una personalità rappresentativa,
prima ancora che del movimento nazionalista del quale fu uno degli
esponenti più significativi e autorevoli, di tutto un mondo
cresciuto nel culto del Risorgimento e della tradizione incarnata
dalla Destra storica».
Nelle Memorie l'autore
accentua il «tema della contrapposizione tra il fascismo estremista,
rivoluzionario, repubblicano e la Corona», rivelando che, quando era
ministro dell'Interno, raccolse voci di un progettato tentativo di
rapimento di Vittorio Emanuele III, presentato come «strumento del
ventennale ricatto» di Mussolini nei confronti del sovrano. Quello
del 1922, dopo la marcia su Roma, era stato un «falso compromesso»
con il re, non si era trattato «di un atto di adesione sentita»,
bensì di «una transazione suggerita dall'opportunità per
conquistare il potere». Federzoni sostiene che l'intervento
dell'Italia nella Seconda guerra mondiale era stato frutto di
un'«iniziativa personale di Mussolini». «Nelle stesse sfere
direttive della politica del regime, soltanto qualcuno dei consueti
fanatici di mestiere, privi di qualsiasi autorità morale, aveva
auspicato con l'incoscienza bruta quell'avventura ancor più
rischiosa delle precedenti».
Fra i vecchi componenti
dell'organo supremo del regime «non pochi l'avevano francamente
avversata (la guerra), e Mussolini, proprio perché sapeva come essi
la pensavano, si era ben guardato dal riunire il Gran consiglio
medesimo prima di prendere la fatale decisione». Per conoscere
«tempestivamente, ad esempio, il mio sentimento in proposito»,
scrive Federzoni, «gli erano bastate l'insistenza certo stucchevole
con cui gli avevo espresso, ufficialmente e privatamente, il mio
plauso per la dichiarazione di non belligeranza, e le motivazioni da
me addotte per deprecare l'intervento; come non aveva ignorato che
ero stato uno di coloro che avevano maggiormente sostenuto Galeazzo
Ciano nell'ultimo tentativo di stornare quel folle divisamento, e —
fra gli uomini investiti di uffici pubblici importanti — uno dei
pochissimi che avevano sistematicamente declinato, avanti e durante
la guerra, i ripetuti inviti a recarsi in Germania per conferenze,
congressi culturali e altre manifestazioni filonaziste».
Impietosi sono i giudizi
sui suoi compagni d'avventura. Achille Starace è presentato come un
«arcipotente e inconcludente fanciullone, con i suoi divieti
capricciosi, con le sue futili imposizioni». Farinacci è «un can
da pagliaio». Roberto Forges Davanzati, «un puro in ogni senso di
questa parola». Alfredo Rocco, un «estremista del fascismo», «il
più zelante e impaziente propugnatore» della fusione tra
nazionalisti e fascisti (alla quale lui, Federzoni, dice di non
essere stato favorevole… anche se ci sono prove del contrario). E
che avrebbe ceduto «per il suo temperamento dialettico all'ambizione
di conferire una sistemazione teoretica al caos empirico del
pragmatismo mussoliniano e alle molteplici e contrastanti esigenze
"storiche" del regime».
Tutto vero, ma anche Federzoni era poi rimasto al fianco di Mussolini… Certo, spiega l'autore di Memorie di un condannato a morte, «dopo che era stato incautamente impegnato l'onore dell'Italia nel malaugurato cimento, mi ero sentito vincolato anch'io al dovere della disciplina patriottica e avevo sperato sinceramente che al mio Paese potessero essere risparmiate l'onta e la sventura della disfatta». Ma Mussolini «non si era mai potuto ingannare circa il mio stato d'animo in quel tempo, sicché mi faceva spedire di quando in quando dal suo ministro della Cultura Popolare copie fotografiche di articoli e informazioni di giornali britannici, che mi indicavano come uno degli italiani profondamente contrari all'alleanza tedesca e alla guerra». Gli articoli della stampa inglese erano regolarmente accompagnati con una formula burocratica: «D'ordine superiore, si trasmette per notizia». Questa, scrive Federzoni, «era una cortesia che aveva sapore di monito». Perciò «se fra noi dissenzienti e lui ci fu tradimento, fu il suo; fu quello con cui egli premeditò di imbottigliare anche noi, a nostra insaputa e nostro malgrado, nella responsabilità della guerra».
E venne la seduta del
Gran consiglio. «Quella notte non finiva mai», racconta sua figlia,
Elena Federzoni Argentieri, «alle quattro di mattina si sentì il
rumore delle chiavi ed era papà che tornava esausto. Raccontò alla
mamma i fatti principali, le disse che Grandi era andato direttamente
a riferire al ministro della Real Casa Acquarone, perché informasse
il re, poi si addormentò tranquillamente, mentre la mamma poverina
non riuscì a trovare sonno. Il giorno dopo, 25 Luglio, quasi tutti i
firmatari dell'ordine del giorno Grandi vennero a casa nostra a Roma
per stendere il verbale della seduta. Papà raccomandò la massima
prudenza perché la vendetta di Hitler non si sarebbe fatta
attendere; consigliò soprattutto coloro che avevano partecipato al
Gran consiglio per la prima volta di non fidarsi di nessuno e di
sparire. Quelli che gli dettero retta ebbero la vita salva, gli altri
purtroppo no». Tra questi ultimi, Galeazzo Ciano, genero di
Mussolini.
Lui, Federzoni —
aiutato dall'allora sostituto alla segreteria di Stato vaticana
(nonché futuro papa Paolo VI) monsignor Montini —, trovò
ospitalità nell'ambasciata del Portogallo. Successivamente si
trasferì in Brasile, dove, sotto falso nome, rimase fino alle
elezioni del 18 aprile 1948, che segnarono la definitiva vittoria del
democristiano Alcide De Gasperi sui socialcomunisti guidati da
Palmiro Togliatti e Pietro Nenni.
Il terzo personaggio —
autore di La congiura del Quirinale — è Enzo Storoni, figlio di un
importante deputato liberale ed esponente anch'egli del mondo che
faceva riferimento a Luigi Einaudi e a Benedetto Croce. Fu legale di
fiducia del duca Pietro d'Acquarone e tale rimase anche dopo che
questi assunse l'incarico di ministro della Real Casa. Fu proprio dal
duca d'Acquarone, ricostruisce Perfetti, che Storoni nella primavera
del 1943 ricevette l'incarico di predisporre «un promemoria da far
pervenire al re sulla situazione politica e sulle possibilità di
uscire dal conflitto».
A fine maggio, Storoni
aveva assistito ad un colloquio tra Vittorio Emanuele e l'ex
presidente del Consiglio d'epoca prefascista, Ivanoe Bonomi, cui «era
stato sottoposto il promemoria e che sostenne la necessità
dell'intervento della Corona, dell'arresto di Mussolini e di avviare
segretamente trattative con gli anglo-americani per uscire dalla
guerra». E fu sempre lui, Storoni, a consegnare il 20 luglio al duca
d'Acquarone un secondo promemoria «destinato pur esso al re, ma
elaborato insieme al conte Alessandro Casati sulla base di
conversazioni con altri personaggi di rilievo del mondo liberale, dal
giornalista e senatore Alberto Bergamini al marchese Pietro Tommasi
Della Torretta, allo stesso Bonomi: un promemoria, questo, che
illustrava le riserve dei liberali su una soluzione della crisi
affidata, come sembrava propendesse il sovrano, a un "gabinetto
d'affari" o apolitico». Una sorta di governo tecnico che, a
parere di Storoni, dai fascisti sarebbe stato considerato «un
intruso e un nemico» e, nello stesso tempo, «non avrebbe avuto una
sicura capacità di udienza presso le potenze alleate».
Interessanti sono i
giudizi di Storoni — un liberale intransigente al pari di Leone
Cattani, Niccolò Carandini, Franco Libonati — sull'opera degli
antifascisti, «coraggiosa ma forzatamente modesta». Fino a tutto il
1942, riferisce, non c'era stato «nemmeno il più esile collegamento
tra monarchia e antifascismo». I nemici di Mussolini, tutti
antipatizzanti nei confronti del re, sottovalutarono (anzi, non
presero neanche in considerazione) l'avversione al regime che andava
maturando in casa Savoia. Soprattutto dopo la caduta della Tunisia e
lo sbarco alleato in Sicilia.
Questo spiega perché il
sovrano e il suo entourage tenevano in scarsissimo conto l'opinione
dei liberali con i quali avevano mantenuto un qualche contatto. Non
furono dunque questi ultimi a spingere Vittorio Emanuele III
all'azione. Anzi, si può affermare «senza tema di smentita» che
«artefice unica del colpo di Stato sia stata la monarchia». Fu poi
«la forza degli eventi, più che la capacità d'azione degli uomini»
ad accelerare il processo che portò al 25 Luglio, e la riprova è
nel fatto che in merito alla destituzione di Mussolini «il progetto
e i modi dell'attuazione di esso furono frutto di affrettata
improvvisazione».
Interessanti sono le
pagine del Memoriale di Storoni dedicate alla formazione del governo
Badoglio. I ministeri più importanti in quel momento erano tre:
Esteri, Interni e Cultura popolare. Ma per quel che riguarda gli
uomini ai quali questi dicasteri furono affidati, Raffaele Guariglia
era lontano da Roma e, per arrivare da Ankara, «tardò cinque
giorni, cinque giorni fatali»; Bruno Fornaciari, ex prefetto
fascista, legato al regime da relazioni e amicizie, «aveva le mani
legate, tanto che dopo poco si dovette sostituirlo»; Guido Rocco
«dichiarava candidamente di non conoscere nulla della stampa
italiana e sembrava persino ignorare l'esistenza della radio che ai
nostri giorni è uno strumento essenziale per il governo», talché,
«circondato da funzionari che lo avevano seguito dal ministero degli
Esteri, si limitò a istituire la censura preventiva e a sopprimere
praticamente ogni propaganda radiofonica». Non male per il primo
governo postfascista.
Solo Leopoldo Piccardi,
l'unico dei ministri ad aver avuto in tempi precedenti rapporti con
gli uomini dell'opposizione, «cercava in tutti i modi, nonostante le
tremende difficoltà del momento, di imprimere un indirizzo politico
al suo ministero, mantenendo rapporti continui con i politici». Gli
altri «oscillavano tra la preoccupazione di non mettersi in vista e
lo zelo di farsi perdonare un passato troppo recente». Del resto
quei nomi furono scelti a corte, su indicazioni estemporanee, da
parte di persone che si sentivano domandare dal re: «Lei conosce il
tale?» oppure «Qual è, secondo lei, il migliore funzionario del
ministero talaltro?».
Dopo il 25 Luglio del
1943, Storoni fu commissario all'Alimentazione nel gabinetto
Badoglio. Di quell'esperienza ricorda il grande caos. Ex ministri,
piccoli e grandi personaggi del fascismo ancora in circolazione,
anche se «gli inconvenienti che ne derivarono furono gravi ma non
fatali». «Se molti prefetti fascisti tardarono a essere rimossi, se
molte nomine furono sbagliate, se troppi fascisti furono lasciati in
libertà, se la stampa fu soffocata e la radio totalmente ignorata,
se molti altri inconvenienti si verificarono, tutto ciò non ebbe
un'influenza decisiva sul corso degli eventi…
Bisogna tener presente
che non si trattava di un cambiamento di governo, ma della caduta di
un regime che per vent'anni aveva intessuto una rete fittissima di
interessi e di complicità, ed era ben difficile spezzarla d'un
colpo». In seguito all'armistizio, Storoni si diede alla
clandestinità, braccato dai nazisti. Per poi tornare al governo da
sottosegretario all'Industria con delega al Commercio estero, nel
gabinetto guidato da Ferruccio Parri (giugno-dicembre 1945) e
sottosegretario al Commercio estero nel primo governo presieduto da
Alcide De Gasperi (dicembre 1945-luglio 1946). Fu una personalità di
spicco del Partito liberale, scrisse su «Risorgimento Liberale» e
sul «Mondo» di Mario Pannunzio.
L'interesse del memoriale
di Storoni, osserva Perfetti, non riguarda soltanto la genesi e lo
svolgimento del colpo di Stato e il ruolo della monarchia in questa
contingenza; esso ricostruisce bene «il clima di incertezza che
travolse, all'indomani del 25 Luglio, "le nascenti classi
politiche", preoccupate della volontà di far uscire il Paese
dalla guerra, confuse dalle voci contraddittorie su trattative in
corso con gli Alleati e spinte, quasi inconsapevolmente, ad
attribuire a Badoglio le più varie responsabilità». Tutte
negative, ovviamente. E ingiuste, come quella di voler «ingigantire
di proposito l'inesistente pericolo dei tedeschi», così da poter
«svolgere una politica reazionaria».
Il giudizio di Storoni su
Badoglio è invece assai meno ostile perché, scrive Perfetti,
l'autore fu ben consapevole delle difficoltà del compito affidato al
maresciallo e del fatto che la principale preoccupazione del capo del
governo, peraltro condivisa totalmente con il sovrano, riguardava,
appunto, la reazione tedesca non solo al cospetto della liquidazione
del fascismo, ma soprattutto di fronte all'armistizio. A proposito
del quale nel libro vengono poste in evidenza «le difficoltà e le
ambiguità» del contesto in cui si svolsero le trattative con gli
Alleati. Pochi si resero conto del fatto che — come sostenevano
Badoglio e Vittorio Emanuele III — «il pericolo di una reazione
tedesca particolarmente efferata era reale». E che l'apprensione per
quel pericolo accompagnò «lo svolgimento di trattative nel corso
delle quali le due parti in causa, italiani e alleati, parlavano un
linguaggio diverso». In altre parole, gli anglo-americani (e i
partiti antifascisti) non valutarono che quel tipo di reazione da
loro provocata avrebbe allungato anziché accorciare la guerra.
Guerra che sarebbe durata per altri venti, terribili mesi.
Da: Il Corriere della Sera 8 luglio 2013
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