18 luglio 2013

LE COLPE DEI PADRI



Non si esce vivi dagli anni Settanta. Su Le colpe dei padri di Alessandro Perissinotto


di Clotilde Bertoni

Non ci libereremo mai degli anni Settanta. I loro misteri irrisolti, le loro ferite aperte continuano ad assillare la nostra memoria: non solo setacciati all’infinito da saggi, inchieste, libri di non fiction, ma anche sfondo di vicende immaginarie situate al giorno d’oggi, come quella del nuovo romanzo di Alessandro Perissinotto, Le colpe dei padri (Piemme, pp. 320, € 17,50).
Ambientato a Torino, il romanzo ruota intorno a un tipico uomo senza qualità, l’ingegnere quarantaseienne Guido Marchisio, di famiglia altoborghese, fidanzato con una venticinquenne, dirigente del locale stabilimento di una multinazionale, la Moosbrugger (nome che rinvia palesemente appunto all’Uomo senza qualità di Musil); chiuso insomma in un’impermeabile dimensione di privilegio in cui un caso fortuito produce un improvviso strappo. Uno sconosciuto ravvisa in lui Ernesto Bolle, un bambino con cui un tempo giocava in un quartiere popolare, e di cui, come si verrà a sapere, si sono perse le tracce nel 1975, dopo la morte in un incidente d’auto dei genitori, estremisti legati alle BR; un bambino che sembra a Guido un suo doppio rovesciato, simile a quelli del Sosia di Dostoevskij o del Compagno segreto di Conrad. Via via che le spietate politiche della Moosbrugger (dipendenti messi in cassa integrazione, graduale smantellamento della fabbrica) lo espongono alle ritorsioni, e la sua identità vacilla, questa perturbante identità alternativa incomincia a ossessionarlo: finché altri incontri gli rivelano che si tratta in effetti di un’esistenza iniziale rimossa, che metterà sempre più in discussione quella presente.
La forza principale del libro sta nella capacità di dilatare questo dramma individuale in riflessione su un dramma storico. Attraverso l’inquietudine confusa di Guido e quella lucida del suo vero doppio, il narratore proiezione dell’autore (a sua volta proveniente dalla periferia e a sua volta uscito, ma consapevolmente, da un destino già tracciato), il testo mette in gioco sia le fratture sia le continuità tra gli anni di piombo e quelli attuali: da un lato, evoca il mondo, travolto dalla tecnologia e dalla globalizzazione, delle botteghe, dei mangiadischi, dei passatempi di quartiere, dei film pecorecci; dall’altro, rammenta lo squallore delle case popolari, le strategie già ciniche della Fiat (incombente sulla vicenda ben più dell’azienda immaginaria), i soprusi variamente contrastati di allora che preludono a quelli solo subiti di adesso. E se il ricordo dei conflitti trascorsi risulta troppo sommario (il terrorismo, più che reagire all’impotenza della sinistra, contribuì a determinarla, fomentando le paure, favorendo l’irrigidimento dei poteri forti, funzionando, secondo una memorabile formula di Stajano, da «braccio armato della restaurazione»), il precoce senso di disfatta delle generazioni successive è restituito efficacemente: a dispetto del titolo, il nucleo pulsante dell’opera sta non nelle colpe dei padri, ma nello smarrimento dei figli.
Questo nucleo, però, non sostiene abbastanza l’insieme del racconto. Mentre l’esistenza del protagonista deraglia, l’intreccio scivola sempre più in binari classici, culminando, diversamente da quanto afferma il narratore («La vita non ci offre sempre un bel finale preparato»), in una conclusione a effetto: Guido compie un vano gesto di ribellione (nello stile degli inetti di Cechov o Moravia), per poi rifugiarsi nella sua unica passione adolescenziale; secondo una dinamica oggi frequente, il ripiegamento sugli affetti privati (neanche affetti umani, in questo caso) appare la sola via di salvezza. E la prevedibilità dell’azione non è riscattata dai personaggi: quasi tutti – dal protagonista ai suoi compassati genitori all’amministratore delegato suo gelido mentore – troppo anemici, ricalcati su modelli risaputi.
Non si tratta di un caso isolato. Nei ritorni al realismo contemporanei gli stereotipi rimontano alla carica continuamente; e la considerazione che a proporli è la realtà stessa non basta a giustificarli. Il rapporto tra Guido e la sua smagliante fidanzata può offrirne un esempio: è innegabile che molti uomini di mezza età desiderano le ragazze, e che non poche ragazze sono attratte dai soldi, dal potere o dalla maturità; nella fiction recente, però, girano un po’ troppi personaggi maschili sfioriti, cupi, irrisolti, ma sempre gratificati da fantastiche relazioni erotiche con donne giovani, belle e invariabilmente dotate di straordinario sex appeal e straordinario senso pratico; non è tanto verosimile, sicuramente è monotono. L’esperienza può essere più contraddittoria, più sorprendente, pure più intrigante di come la vorrebbero certi preconcetti e certi chiodi fissi: i romanzieri realisti sette-ottocenteschi lo sapevano bene; quelli che vogliono rifondare il realismo (specie quando senz’altro ingegnosi come Perissinotto) potrebbero tenerne conto di più.

 [Questo articolo è già uscito su «Alias/Il Manifesto»]

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