Non si esce vivi dagli anni Settanta. Su Le colpe dei padri di Alessandro Perissinotto
di Clotilde Bertoni
Non ci libereremo mai degli anni
Settanta. I loro misteri irrisolti, le loro ferite aperte continuano ad
assillare la nostra memoria: non solo setacciati all’infinito da saggi,
inchieste, libri di non fiction, ma anche sfondo di vicende immaginarie situate al giorno d’oggi, come quella del nuovo romanzo di Alessandro Perissinotto, Le colpe dei padri (Piemme, pp. 320, € 17,50).
Ambientato a Torino, il romanzo ruota
intorno a un tipico uomo senza qualità, l’ingegnere quarantaseienne
Guido Marchisio, di famiglia altoborghese, fidanzato con una
venticinquenne, dirigente del locale stabilimento di una multinazionale,
la Moosbrugger (nome che rinvia palesemente appunto all’Uomo senza qualità
di Musil); chiuso insomma in un’impermeabile dimensione di privilegio
in cui un caso fortuito produce un improvviso strappo. Uno sconosciuto
ravvisa in lui Ernesto Bolle, un bambino con cui un tempo giocava in un
quartiere popolare, e di cui, come si verrà a sapere, si sono perse le
tracce nel 1975, dopo la morte in un incidente d’auto dei genitori,
estremisti legati alle BR; un bambino che sembra a Guido un suo doppio
rovesciato, simile a quelli del Sosia di Dostoevskij o del Compagno segreto
di Conrad. Via via che le spietate politiche della Moosbrugger
(dipendenti messi in cassa integrazione, graduale smantellamento della
fabbrica) lo espongono alle ritorsioni, e la sua identità vacilla,
questa perturbante identità alternativa incomincia a ossessionarlo:
finché altri incontri gli rivelano che si tratta in effetti di
un’esistenza iniziale rimossa, che metterà sempre più in discussione
quella presente.
La forza principale del libro sta nella
capacità di dilatare questo dramma individuale in riflessione su un
dramma storico. Attraverso l’inquietudine confusa di Guido e quella
lucida del suo vero doppio, il narratore proiezione dell’autore (a sua
volta proveniente dalla periferia e a sua volta uscito, ma
consapevolmente, da un destino già tracciato), il testo mette in gioco
sia le fratture sia le continuità tra gli anni di piombo e quelli
attuali: da un lato, evoca il mondo, travolto dalla tecnologia e dalla
globalizzazione, delle botteghe, dei mangiadischi, dei passatempi di
quartiere, dei film pecorecci; dall’altro, rammenta lo squallore delle
case popolari, le strategie già ciniche della Fiat (incombente sulla
vicenda ben più dell’azienda immaginaria), i soprusi variamente
contrastati di allora che preludono a quelli solo subiti di adesso. E se
il ricordo dei conflitti trascorsi risulta troppo sommario (il
terrorismo, più che reagire all’impotenza della sinistra, contribuì a
determinarla, fomentando le paure, favorendo l’irrigidimento dei poteri
forti, funzionando, secondo una memorabile formula di Stajano, da
«braccio armato della restaurazione»), il precoce senso di disfatta
delle generazioni successive è restituito efficacemente: a dispetto del
titolo, il nucleo pulsante dell’opera sta non nelle colpe dei padri, ma
nello smarrimento dei figli.
Questo nucleo, però, non sostiene
abbastanza l’insieme del racconto. Mentre l’esistenza del protagonista
deraglia, l’intreccio scivola sempre più in binari classici, culminando,
diversamente da quanto afferma il narratore («La vita non ci offre
sempre un bel finale preparato»), in una conclusione a effetto: Guido
compie un vano gesto di ribellione (nello stile degli inetti di Cechov o
Moravia), per poi rifugiarsi nella sua unica passione adolescenziale;
secondo una dinamica oggi frequente, il ripiegamento sugli affetti
privati (neanche affetti umani, in questo caso) appare la sola via di
salvezza. E la prevedibilità dell’azione non è riscattata dai
personaggi: quasi tutti – dal protagonista ai suoi compassati genitori
all’amministratore delegato suo gelido mentore – troppo anemici,
ricalcati su modelli risaputi.
Non si tratta di un caso isolato. Nei
ritorni al realismo contemporanei gli stereotipi rimontano alla carica
continuamente; e la considerazione che a proporli è la realtà stessa non
basta a giustificarli. Il rapporto tra Guido e la sua smagliante
fidanzata può offrirne un esempio: è innegabile che molti uomini di
mezza età desiderano le ragazze, e che non poche ragazze sono attratte
dai soldi, dal potere o dalla maturità; nella fiction recente, però,
girano un po’ troppi personaggi maschili sfioriti, cupi, irrisolti, ma
sempre gratificati da fantastiche relazioni erotiche con donne giovani,
belle e invariabilmente dotate di straordinario sex appeal e
straordinario senso pratico; non è tanto verosimile, sicuramente è
monotono. L’esperienza può essere più contraddittoria, più sorprendente,
pure più intrigante di come la vorrebbero certi preconcetti e certi
chiodi fissi: i romanzieri realisti sette-ottocenteschi lo sapevano
bene; quelli che vogliono rifondare il realismo (specie quando
senz’altro ingegnosi come Perissinotto) potrebbero tenerne conto di più.
[Questo articolo è già uscito su «Alias/Il Manifesto»]
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