Patria
senza padri
Psicopatologia della politica italiana
La crisi dei
partiti, la sfiducia verso le istituzioni e l’ascesa dei nuovi populismi; una
precarietà sempre più opprimente; il malessere diffuso che dà luogo ad apatia o
a violenza incontrollata; le dimissioni di un pontefice e l’attardarsi al
potere di una classe dirigente incapace di crearsi degli eredi: questi sono i
fenomeni che si intrecciano nell’Italia degli ultimi anni, creando una
situazione di instabilità profonda, difficile da interpretare e quindi da
risolvere.
In questo libro-intervista, uno dei più
stimati psicoanalisti italiani di oggi propone una lettura della nostra vita
politica e più in generale collettiva attraverso le categorie su cui basa da
sempre il suo lavoro di ricerca e la sua pratica clinica: il desiderio e la
Legge, il rapporto con l’Altro, il narcisismo, la dinamica del conflitto, la
relazione fra padri e figli.
È un
percorso originale e affascinante che ci porta – superando le facili
interpretazioni di giornalisti, politologi, sociologi – a capire non solo cosa
accade davvero nella mente degli italiani (e di chi dovrebbe governarli), ma
anche da dove possono ripartire un dibattito e un’attività pubblica
psicologicamente sani, liberi da logoranti perversioni e fatti di
responsabilità, testimonianza, coraggio.
Tu eri un ragazzo nel ’68 e un militante politico nel ’77.
Il ’68 e il ’77 non sono la stessa cosa né dal mio punto di vista personale (nel ’68 avevo otto anni) né dal punto di vista politico, però in entrambi i casi abbiamo un’esperienza collettiva della violenza all’interno di un conflitto tra le generazioni, nonostante il ’77 sembri, rispetto al ’68, antiedipico. Nel ’68 la matrice inconscia di tipo edipico è chiara: sono i figli della borghesia che contestano i loro padri e li contestano edipicamente invocando nuovi padri: Mao, Lenin, Marx. Non dei padri qualunque ma dei padri titanici, dei padri che hanno promesso di riscrivere la storia. Lo stesso nome di Stalin appariva negli slogan, nelle manifestazioni, era un riferimento tutt’altro che secondario. Nel ’77 ci fu il tentativo, solo apparente, di andare oltre i padri, di liberarsi dell’eredità edipica del ’68, tant’è che L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari esce nel ’72 in Francia, da noi nel ’76 e diventa immediatamente, almeno per una certa componente del movimento, un polo di riferimento culturale importantissimo, di scavalcamento del Nome del Padre e di esaltazione di una organizzazione senza gerarchia, rizomatica, collettiva del movimento.
Anche da un punto di vista sociale il ’77 non è paragonabile al ’68. I protagonisti della scena non sono più i figli della borghesia (era il tema critico sollevato da Pasolini: i contestatori fanno parte integrante del sistema sin dalle loro origini), ma quelli del sottoproletariato urbano. Eppure la dimensione edipica del conflitto ritorna trasversalmente anche nel ’77. Si può dire che Deleuze, Bifo e altri abbiano cercato di smarcarsi dalla posizione del leader-padre, del leader-edipico. Ma questo non ci ha liberati dall’ombra del padre. Quest’ombra entrava sulla scena del conflitto nella forma del vecchio Partito Comunista e dei suoi apparati. Mentre il ’68 invocava i padri titanici, Mao, Marx, Lenin, Stalin, il ’77 rigetta tutti i padri, ma vive la dialettica edipica tutta centrata sul conflitto col pci, che era il grande polo di riferimento critico per le nuove generazioni. Enrico Berlinguer, Luciano Lama, la contestazione dell’Autonomia Operaia nell’ateneo romano… Lì si gioca tutta la partita edipica all’interno della famiglia del comunismo. E non era un caso che Berlinguer in quegli anni predicasse proprio la centralità della questione morale, ovvero la necessità di mettere un limite, di introdurre un senso condiviso della Legge, di entrare in una relazione critica con il fantasma del discorso del capitalista… Tutta la questione dell’austerità non era solo un provvedimento economico di fronte alla crisi petrolifera, ma implicava anche una riforma etica della politica. C’era una straordinaria lungimiranza in questa prospettiva che a noi sfuggì assolutamente. Il movimento riteneva che Berlinguer fosse un cane da guardia del sistema capitalista. L’odio edipico offusca, rende ciechi, ammorba.
In questo senso come vengono letti il rapimento e l’uccisione di Moro? Di quali padri il ’77 si voleva liberare?
Forse mi sbaglio ma voglio dire che l’aggressione contro il pci che si è manifestata nel ’77 non c’è stata in quelle forme nel ’68, perché nel ’77 il padre non era tanto il padre-padrone, il padre-borghese, ma era diventato il pci, era diventato il segretario del Partito Comunista e la politica di austerità e di sacrificio, di rinuncia pulsionale, che Berlinguer prospettava come uscita dai falsi miti edonistici del capitalismo. Potremmo leggere anche il caso Moro con queste lenti. In fondo Moro ha provato a incarnare una figura mite di paternità, cercando, nel suo corteggiamento dell’ipotesi del compromesso storico (le famose «convergenze parallele»), di riattivare un’alleanza possibile fra Legge e desiderio nella direzione di un necessario cambiamento del sistema.
Il fatto che questo padre, che si poneva il problema della trasmissione dell’eredità di De Gasperi, lo si sia stato lasciato ammazzare come un cane, mostra fino a che punto il rigetto della trasmissione simbolica aveva generato un ritorno diretto nel reale. Il terrorismo è precisamente questo: il ritorno nel reale di ciò che non si è potuto simbolizzare. L’odio mortale per il padre prende il posto del debito simbolico forcluso. Il terrorismo non è stato solo la rivolta dei figli contro i padri; quest’ultima, infatti, rimane nell’ambito dell’Edipo e della nevrosi. Il terrorismo introduce una rottura, un buco nel simbolico. Si pensa fuori dalla dialettica democratica. Si realizza come esercizio folle di una paternità senza padri (tribunali senza giudici, sentenze mortali senza processi…) che agisce nel reale ciò che ha rifiutato sul piano simbolico. La tirannia violenta delle azioni dei terroristi riflette esattamente quella rappresentazione atroce, spietata e tirannica della paternità che essi volevano rifiutare. I terroristi assomigliano al mostro che volevano combattere.
[...]
Cosa ne pensi del fenomeno Grillo? Che analisi psicopatologica ne faresti?
In un vecchio film di Woody Allen intitolato Il dittatore dello stato libero di Bananas si raccontano con sferzante ironia le vicende rocambolesche di un rivoluzionario che combatte l’ingiustizia della dittatura in nome della libertà e che finisce per indossare i panni di un dittatore spietato identico a quello che aveva combattuto. Ogni rivoluzione, ripeteva Lacan agli studenti del ’68, tende a ritornare al punto di partenza e la storia ce ne ha dato continue e drammatiche conferme. Anche Grillo si caratterizza per essere animato da quel fantasma di purezza che accompagna tutti i rivoluzionari più fondamentalisti. Egli proclama a gran voce la sua diversità assoluta dagli impuri: si colloca con forza fuori dal sistema, fuori dalle istituzioni, fuori dai circuiti mediatici, fuori da ogni gestione partitocratica del potere, dichiara che la sua persona e il suo movimento non hanno nulla da spartire con gli altri rappresentanti del popolo italiano che siedono in Parlamento, invoca una democrazia diretta resa possibile dalla potenza orizzontale della rete che renderebbe superflua ogni altra mediazione, ritiene che l’Italia debba uscire dall’Europa e dall’euro, giudica l’esistenza dei partiti un obbrobrio, proclama la trasparenza e la collegialità assoluta di ogni scelta politica del suo movimento, adotta l’insulto al posto del dialogo, pensa che dedicare la propria vita alla politica sia di per sé un fatto anomalo e sospetto che bisogna impedire, teorizza una permutazione rigida di tutti gli incarichi di rappresentanza; il suo giudizio sulle classi dirigenti del nostro paese fa di tutta l’erba un fascio ritenendo che sia da mandare in toto al macero, alimenta sdegnosamente l’odio verso la politica accusata di affarismo mercenario.
Tutti questi giudizi – senza entrare nel merito del loro contenuto, che si può anche in parte condividere – sono ispirati da un fantasma di purezza che troviamo al centro della vita psicologica degli adolescenti. Si riguardi la diretta della consultazione di Bersani con i rappresentanti del Movimento 5 Stelle al tempo del suo tentativo di costituzione del governo. Cosa vediamo? È il dialogo tra un padre in difficoltà e i suoi due figli adolescenti in piena rivendicazione protestataria. Mi è subito venuto alla mente Pastorale americana di Philip Roth, dove si racconta la storia tormentata del rapporto tra un padre – il mitico «svedese» – e una figlia ribelle, balbuziente, prima aderente a una banda di terroristi e poi a una setta religiosa che obbliga a portare una mascherina sul viso per non uccidere i microrganismi che popolano l’aria. Il dialogo tra loro è impossibile.
Il padre cerca di capire dove ha sbagliato e cosa può fare per cambiare la situazione, la figlia risponde a colpi di machete: sei tu che mi hai messa al mondo, non io; sei tu che hai creato questa situazione, non io; sei tu che vi devi porre rimedio, non io. Così agisce infatti la critica sterile dell’adolescente rivoltoso. Il mondo degli adulti è falso e impuro e merita solo di essere insultato. Ma quale mondo è possibile in alternativa? E, soprattutto, come costruirlo? Qui il fondamentalismo adolescenziale si ritira. La sua critica risulta impotente perché non è in grado di generare davvero un mondo diverso. Può solo chiamarsi fuori dalle responsabilità che scarica integralmente sull’Altro ribadendo la sua innocenza incontaminata… Ma di qui a dare vita a un autentico cambiamento ce ne passa, perché non c’è cambiamento autentico se non attraverso il rispetto delle generazioni che ci hanno preceduto, se non attraverso una soggettivazione, una riconquista dell’eredità che viene dall’Altro.
Questo fantasma di purezza che ha origine in una fissazione adolescenziale della vita si trova anche a fondamento di tutte le leadership totalitarie (non di quella berlusconiana, che gioca invece sul potere di attrazione della trasgressione perversa della Legge). E sappiamo bene dove esso conduce. Ne abbiamo avuti esempi atroci nel Novecento. Lo psicoanalista, per vizio professionale, guarda sempre con sospetto chi si ritiene portatore di istanze di purificazione della società, chi agisce in nome del bene. Lo psicoanalista sa che chi si ritiene puro non ha tolleranza verso la diversità. La purga staliniana era la metafora fisiologica radicale di questa intolleranza. Lo stato mentale di un movimento o di un partito si misura sempre dal modo in cui sa accogliere la dissidenza interna. Sa tenerne conto, valorizzarla, integrarla o agisce solo tramite meccanismi espulsivi? Sa garantire il diritto di parola, di obiezione, di opinione personale oppure procede eliminando l’anomalia, estromettendola con la forza dal suo corpo?
Grillo non ha esitazioni da questo punto di vista. Egli applica il regolamento escludendo l’eccezione, secondo il più puro spirito collettivistico. Salvo ribadire la propria posizione di eccezione. Le sue enunciazioni sono singolari, non vengono discusse prima, mentre quelle dei suoi adepti devono essere vagliate scrupolosamente dalla democrazia assoluta della rete. Si proibisce che ciascuno parli e pensi con la propria testa, si esige una sorveglianza su ogni rappresentante eletto perché non si stacchi dalle decisioni condivise. Ma l’aggressione al manifesto con il quale alcuni intellettuali si rivolgevano con speranza al Movimento 5 Stelle chiedendo che dialogasse con il centrosinistra o la minaccia di revocare l’articolo 67 della Costituzione sulla libertà di pensiero dei nostri nuovi rappresentanti parlamentari sono state prese di posizione discusse democraticamente? Come può essere credibile in fatto di democrazia un movimento che attribuisce al suo leader la posizione di incarnare una eccezione assoluta? In questo senso profondo il Movimento 5 Stelle è antipolitico. Il culto demagogico della trasparenza assoluta nasconde questa presenza antidemocratica di una leadership incondizionata. Se l’azione politica è la pazienza della traduzione, se non ammette tempi brevi, non contempla l’agire di Uno solo, il nuovo leader inneggia all’antipolitica come possibilità di avere una sola lingua – la sua – che non è necessario tradurre, ma solo applicare. Come non vedere che c’è un paradosso evidente tra l’esigenza che nessuno parli a partire dalla sua testa e le consultazioni collettive che dovrebbero rendere trasparente ogni atto e condivisa ogni presa di posizione?
Il leader anarchico e sovrano resta esterno al movimento che ha fondato. È la sua eccezione assoluta; egli è nella posizione del padre dell’orda di cui parla Freud in Totem e tabù. Il culto del collettivo è un culto stalinista. Il soggetto è sacrificato, abolito, negato nella sua singolarità. Una volta avveniva nel nome della Causa della storia, oggi avviene per narcisismo egoico. L’amplificazione megalomaniaca dell’Io è propria di ogni dittatore. Ma anche la trasformazione dei soggetti in un «organo» anonimo non è una caratteristica propria di ogni regime autoritario? L’impossibilità di poter parlare a titolo personale? La cancellazione dei nomi propri? La psicoanalisi insegna che il diritto alla libertà della propria parola è insostituibile. È la ragione per la quale non ha mai avuto grande diffusione nei paesi senza lunghe tradizioni democratiche. Un leader degno di questo nome lavora alla sua successione dal momento dell’insediamento, mantenendo il movimento che rappresenta il più autonomo possibile dalla sua figura. Prepara cioè le condizioni di una trasmissione simbolica. Tutto ciò diventa di difficile soluzione quando un movimento non ha storia, non ha padri, ma un genitore vivo e vegeto che rivendica il diritto di proprietà sulla sua creatura. «Io ti ho fatta e io ti disfo», ammoniva una madre psicotica una mia paziente terrorizzata. Una leadership democratica deve sempre rispondere al criterio paterno di una responsabilità senza diritto di proprietà. Si pensi invece alla reazione di Casaleggio all’indomani delle elezioni, quando disse che se il movimento non avesse adottato certe sue indicazioni di comportamento dei neoeletti non avrebbe preteso nulla e se ne sarebbe andato. Ecco la minaccia più narcisistica possibile che un fondatore può fare: io starò con te finché tu mi assomiglierai, finché mi riprodurrai; se tu assumerai un tuo volto, una tua originalità, io non ne vorrò più sapere di te e me ne andrò.
Il pluralismo è temuto da Grillo come da tutti i leader autoritari. Il sogno di un consenso al cento per cento è un sintomo eloquente. Come abbiamo visto era il sogno degli uomini di Babele mentre sferravano il loro attacco delirante al cielo, la loro sfida a Dio: un solo popolo, una sola lingua. No, le cose umane non vanno così. Il Signore sparpaglia sulla faccia della terra quella moltitudine esaltata obbligandola alla differenza, al pluralismo delle lingue, esigendo la pazienza della traduzione. Esistono in democrazia più lingue e ciascuna ha diritto di manifestarsi e di essere ascoltata. Guai se il fantasma di purezza si realizzasse al cento per cento. Lo ricorda giustamente Roberto Esposito: una democrazia che si realizzasse compiutamente sarebbe morta, annullerebbe tutte le differenze delle lingue nel corpo compatto della «volontà generale», darebbe luogo a una tirannide.
Nessun commento:
Posta un commento