Mi ha sempre
affascinato la ricerca sull’origine del linguaggio umano. Uno dei temi che ha,
da sempre, appassionato filosofi e scienziati. Negli ultimi anni la ricerca
scientifica, subentrata all’antica filosofia, sembra aver fatto progressi imprevedibili
anche in questo campo. Ma il mistero, secondo me, rimane. E dovremo, ancora a
lungo, fare i conti con la mitologia…
F. V.
Gabriele
Beccaria - Dai canti dei fringuelli i segreti della lingua
È possibile curiosare tra i canti dei fringuelli per capire qualcosa in più su un mistero coinvolgente come la nascita del linguaggio negli esseri umani?
Dietro questo interrogativo c’è una lunga storia, che comincia con una ricercatrice americana dell’Hunter College di New York, Dina Lipkind: è lei che decide di provare un esperimento mai tentato prima, soltanto in apparenza banale: insegnare a un gruppo di fringuelli zebra in cattività un nuovo canto. Un’impresa di sicuro difficile, dato che questi uccellini, in natura, ne imparano uno solo nel corso dell’intera vita.
Eppure, con pazienza e una notevole dose di abilità, nel giro di alcune settimane ci riesce. Da una melodia nota - basata su un modello identificato in laboratorio come «abc-abc» - le sue volenterose cavie acquisiscono un altro set di fischi e suoni, stavolta modellato su un «pattern» alternativo, del tipo «acb-acb».
Dina Lipkind si rende conto che lo sforzo a cui ha obbligato le sue fragili creature è una vera e propria lotta linguistica e quindi cognitiva. Il salto, ogni volta, in ogni esemplare, non consiste nel passare da una sillaba a un’altra, quanto nel comporle. Le connessioni richiedono una dolorosa transizione. Solo dopo che sono state davvero afferrate, può avere inizio un nuovo canto. Il problema - in altre parole - non sono i suoni, ma è la grammatica a far sudare sette camicie.
Il secondo test lo conduce uno studioso giapponese, Kazuo Okanoya, con i fringuelli bengalesi. Stesso tentativo e stessi risultati: anche questi uccelli, decisamente più intelligenti dei colleghi, devono impegnarsi al massimo per approdare all’analogo risultato di una melodia inedita.
A questo punto può cominciare il terzo - e decisivo - momento della ricerca, che finalmente si addentra tra i vocalizza dei bambini. Entro il primo anni di età - è noto - i bebè cominciano a esercitarsi con tutti quei suoni, familiari per ogni madre e padre, composti da vivaci sequenze di «da-da-da» e «ba-ba-ba». Monotone, forse, ma non per i genitori, che spiano il fenomeno della lallazione come l’annuncio di un’imminente svolta comunicativa dei figli. E di certo intriganti per Dina Lipkind e Doug Bemis, che hanno cominciato ad analizzarli con pignoleria nel database «Childes» dedicato al linguaggio infantile. E, così, dopo un po’ di tempo si accorgono che, se i bambini ripetono ossessivamente la stessa sillaba, come per stamparla nella memoria ed esercitare le loro nascenti capacità espressive, passano alle versioni sofisticate, in cui ne combinano due diverse, solo dopo un lungo - e faticoso - tirocinio. Non succede tutto in una volta. Ci vuole tempo ed esercizio, a volte qualche mese, come ai fringuelli sono necessarie alcune settimane.
Ecco finalmente un filo rosso che, accomunando due specie tanto diverse, rivela il nocciolo di una scoperta. Ciò che stanno facendo i cuccioli di uomo è imparare un passaggio fondamentale che plasmerà le loro esistenze, quello che dalla trasparenza dei suoni singoli arriva fino alle contorsioni della parola. E allora - annunciano Dina Lipkind e gli altri autori su «Nature» - alla domanda iniziale, di certo un po’ stravagante, si può rispondere con un «sì» secco. Anche se a un livello immensamente più raffinato, i bambini eseguono lo stesso lavoro di apprendimento con cui i giovani fringuelli acquisiscono le giuste melodie per entrare nel mondo dei volatili. Se i linguaggi degli uni e degli altri non sono comparabili, il background presenta tuttavia una struttura simile che implica molto più del trascinamento dell’istinto.
E non è un caso che dietro quelle prove d’autore - nei boschi, nelle gabbiette di laboratorio e nelle culle - sia coinvolto lo stesso gene-chiave, il Foxp2, considerato dagli addetti ai lavori una star: senza di lui non c’è articolazione di suoni e non ci sono, appunto, i vocalizzi che accomunano umani e volatili e che, invece, sorprendentemente, sono sconosciuti ai nostri parenti più prossimi, le grandi scimmie. A loro l’evoluzione ha negato l’idea (e il piacere) di cosa significhi intonare un canto.
(Da: La
Stampa TuttoScienze del 10 luglio 2013)
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