04 luglio 2013

IL CORAGGIO DEL VOLO



GIORGIO VASTA – IL CORAGGIO DEL VOLO

La prima tavola di questo libro mostra, su uno sfondo beige screziato di grigio e di bianco (un colore materiale, friabile, si avverte un impulso tattile, il desiderio di qualcosa di tangibile: sfogliando le pagine sembra di trovarsi tra le dita granelli di sabbia), un uovo piccolissimo dalla cui sommità sbuca, altrettanto microscopico ma del tutto plateale, un pulcino appena nato. Del resto cominciare a leggere un libro vuol dire assistere alla schiusa di una lingua e di una storia.
Nel caso di La conferenza degli uccelli di Peter Sís (Adelphi, traduzione di Livia Signorini), ciò che la schiusa rivela ai nostri occhi sono centosessanta pagine nelle quali l’autore – di Brno ma residente a New York, per sette volte vincitore del premio assegnato dalla «New York Times Book Review» al miglior illustratore dell’anno – concentra quella che di fatto non è semplicemente l’illustrazione del poema del dodicesimo secolo di Farīd ad-Dīn ‘Attār, da cui il lavoro di Sís prende le mosse, bensì una vera e propria personalissima costellazione di visioni.
Nelle due tavole che seguono la nascita del pulcino, uno stormo di uccelli bianchi dispiega le ali configurando una forma bilobata. A quel punto, tra uno e molteplice, può avere inizio il racconto. Quello dello stesso poeta ‘Attār – una figurina puntiforme: un berretto in testa, un rotolo di pergamena tra le mani – che si trasforma in un volatile («al risveglio da un sogno agitato»: come, qualche secolo dopo, Gregor Samsa).
La metamorfosi è prepotente; all’umano spuntano ali e zampe artigliate, un lungo becco acuminato, una tragicomica cresta erettile. Agli uccelli radunati in convegno da ogni angolo della terra, il poeta upupa racconta che il mondo è il luogo del male e della sofferenza e che per riuscire a comprendere qualcosa, per provare a mettere ordine nel caos, occorre rivolgersi a Simurg, un re pennuto che vive sulla montagna di Kaf («È vicino a noi quanto noi gli siamo lontani», dice l’upupa).
Osservando la doppia tavola che di volta in volta ci introduce alle sette valli che lo stormo dovrà superare lungo il suo viaggio – Ricerca, Amore, Comprensione, Distacco, Unità, Stupore, Morte – riconosciamo l’ambizione del tratto e del colore di esondare oltre la cornice fisica del libro, il desiderio del disegno di farsi a sua volta paesaggio. Sorvolando ghiacciai e crateri in eruzione, deserti rossastri, cime innevate, Sís fa suo un punto di vista aereo che includendo nel disegno anche lo stormo –  il nastro ondulare del suo volo infinito – rivela nei confronti degli uccelli e del loro disperato bisogno di sapere una tenerezza struggente, un sentimento che mescola comprensione e pietà.
Davanti a quelli che di fatto sono straordinari esperimenti cromatici percepiamo la fenomenologia del volo: la forma densa e fluttuante del movimento, la moltiplicazione incontenibile dei frulli, l’aria scossa e percossa dal ventaglio di ossa cave e piume delle ali. Sentiamo il privilegio della prospettiva: i pianeti sono lentiggini, i mari gocce di pioggia. Planando incontriamo l’uccello ossessivo (che passa la terra al setaccio così da trovare la sua strada più autentica), l’uccello imbarazzato, quello minerale («Conoscete la storia dell’uccello che si era perduto? E che nessuno cercava? Si trasformò in pietra… pianse… Pianse sassolini»), l’uccello astrologo, l’uccellino insonne che confida all’upupa le sue insicurezze, il pipistrello che agli uccelli addormentati domanda notizie del sole.
Poco a poco, tra timori e azzardi, esitazioni e rinnovate determinazioni, il viaggio arriva a compimento. Parecchi uccelli sono morti lungo il percorso o si sono ritirati; i trenta superstiti raggiungono la montagna di Kaf. Per scoprire solo allora che Simurg non è altro che lo specchio che li rivela ai loro stessi occhi («E vedono il re Simurg, e il re Simurg sono loro»). Molteplice e uno coincidono. L’upupa può ritrasformarsi nel poeta ‘Attār che piano, impercettibilmente, prende congedo dalla storia.
Ci sono almeno due doppie tavole nelle quali la sensibilità compositiva di Sís si esprime al suo meglio.
Nella prima, collocata all’inizio del racconto, gli uccelli ascoltano l’upupa descrivere il re. In primo piano, Sís disegna la silhouette in nero, “di spalle”, dell’uccello narratore; davanti a lui, a riempire lo spazio rosaceo, la moltitudine animale. La conformazione delle teste, la forma di ogni becco, le diverse disposizioni degli sguardi assorti nell’ascolto di qualcosa che potrebbe essere minaccia o profezia. Lo scrupolo di Sís nel rendere conto, attraverso queste minime variazioni, della complessità di ciò che c’è, il suo bisogno di scorgere singolarità nella coralità.
Quasi alla fine del libro troviamo la seconda doppia tavola. I trenta superstiti fondono i loro corpi – le loro morfologie, i colori del piumaggio, l’attitudine, la struttura del volo – in un’unica sagoma volante, in un Uber-animale in cui i due termini già evocati, uno e molteplice, naturalmente coesistono.
Lo splendore delle storie animali sta nella loro capacità di veicolare l’umano rideclinandolo in prospettive inedite e rivelatrici. Gli uccelli di ‘Attār e di Sís, nella loro compatta vulnerabilità, ci fanno sentire che l’umano è un paesaggio che esonda se stesso. È il coraggio del volo. La vertigine come condizione strutturale. La polvere ocra suscitata da un frullo d’ali.

Fonte: Questa recensione pubblicata oggi sul sito http://www.minimaetmoralia.it/  era già apparsa sul Sole 24 Ore.

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