Ripropongo un breve saggio di Matteo Di Gesù,
pubblicato su http://www.leparoleelecose.it/, che mette a fuoco un tema su cui tanto è
stato scritto: il contributo della letteratura alla comprensione della storia
nazionale. Anche se vengono ignorati scrittori fondamentali l’articolo è
stimolante:
Matteo Di Gesù – Scrittori sull’Italia
È tutt’ora difficile ponderare con sicurezza se il
sovradosaggio di autonarrazione, la cospicua dotazione (anche inconsapevole) di
immaginario letterario di cui una nazione come l’Italia dispone, abbia
accresciuto la coscienza di sé della comunità nazionale e agevolato i processi
di trasmissione e condivisione di istanze comuni; ovvero se, al contrario,
questa topica dell’Italia letteraria, la peculiarità di una nazione che non si
stanca di raccontarsi e allegorizzarsi, di discettare sul proprio carattere e
sulla propria presunta identità abbia mistificato e occultato questa
consapevolezza sotto una spessa coltre retorica. Se non altro, la persistenza
di alcuni generi canonici sopravvissuti al moderno, e il loro recupero
postmoderno consentono quantomeno un supplemento di indagine.
«I romanzi, a saperli leggere, sono testimonianze più
serie che non si creda», scriveva Pietro Pancrazi. La citazione (ma non è
l’unica riflessione dell’autore dell’Elogio di Pinocchio riproposta nel
saggio) si legge in chiusura della Premessa che Enza del Tedesco appone
al suo Il romanzo della nazione. Da Pirandello a Nievo: cinquant’anni
di disincanto.[1] Il sottotitolo, segnalando un andamento inverso rispetto a
quello, scontato, che prevederebbe l’ordine diacronico (da Nievo a Pirandello)
è per una volta rivelatore: il saggio attraversa nella stessa direzione il
tempo storico compreso tra due faglie cruciali della storia italiana moderna
(la prima esiziale crisi dello stato liberale e l’unificazione nazionale),
procedendo a ritroso nello spazio letterario che intercorre tra due romanzi
irrinunciabili della nostra narrativa moderna (Le confessioni di un italiano,
pubblicato nel 1867 ma scritto dieci anni prima e I vecchi e i giovani,
apparso nel 1913, passando per De Roberto, De Amicis, Dossi, gli Scapigliati,
Fogazzaro, Verga, e altri). Lo studio di Del Tedesco risale dunque, appunto per
via letteraria – anzi, più precisamente, romanzesca – dal conclamato
tralignamento degli ideali risorgimentali, già preconizzato da De Sanctis
(«Diresti che proprio appunto, quando s’è formata l’Italia, si sia sformato il
mondo intellettuale e politico da cui è nata», scriveva il critico nella sua Storia
della letteratura), alla genesi di quell’immaginario, dove per via
letteraria si allude evidentemente a una prassi che preveda anche una verifica
assidua delle forme delle narrazioni prese in esame e delle loro
trasformazioni, nonché della fittissima rete di relazioni che queste opere
intessono con il contesto culturale e politico della loro ricezione, oltre che
con la tradizione stessa. Si tratta, pertanto, di un ulteriore efficace
collaudo di una strategia interpretativa di più vasta portata: scegliere i
testi letterari quali fonti primarie per documentare e analizzare la complessa
vicenda dell’unificazione nazionale, e, più in generale, delle istanze ideali,
culturali, politiche – spesso affatto coerenti, quando non manifestamente
conflittuali– che l’hanno caratterizzata; e, conseguentemente, utilizzare la
critica letteraria quale strumento di un’indagine che dalla lettura delle opere
pervenga a un più complesso quadro storico–culturale.
Com’è del resto risaputo, già all’indomani
dell’unificazione nazionale, il romanzo italiano moderno avviava un’inchiesta
letteraria sulle vicende risorgimentali, sul trasformismo ambiguo delle classi
egemoni che lo indirizzarono e sulle contraddizioni che, all’interno di quel
processo, si determinarono, specie nel Meridione d’Italia. Un «romanzo
antistorico» collettivo, per così dire, una «contro-storia d’Italia letteraria
e civile» – volendo usare le formule fortunate e antesignane di Vittorio
Spinazzola e Massimo Onofri – (e dunque una riscrittura romanzesca della storia
ufficiale, deliberatamente volta a demistificarne i presupposti ideologici e le
retoriche su cui si fondava) attestata soprattutto nelle opere di autori
siciliani quali Verga, De Roberto, Pirandello. Storici come Paolo Viola[2] o come
Alberto Mario Banti[3] hanno per tempo ragionato sull’utilizzazione del romanzo come
fonte storica e hanno fatto fruttare con successo questa annessione del campo
letterario a quello storiografico; ma finalmente, anche grazie alle risultanze
in sede di ricerca dei lavori avviati in occasione del centocinquantenario
dell’unificazione italiana, la critica letteraria sembra aver recuperato parte
di quel terreno perduto, come, insieme al lavoro di Del Tedesco, attesta ad
esempio il volume collettaneo curato da Claudio Gigante e Dirk Vanden Berghe, Il
romanzo del Risorgimento. [4] Il libro
accoglie una copia di studi che abbraccia un settantennio di narrativa
ottocentesca, con interessanti incursioni oltralpe sulle tracce del mito del
risorgimento italiano, e si chiude con un saggio di Daniele Comberiati (a sua
volta curatore, insieme a Rosaria Iounes–Vona di un’altra raccolta di studi sul
tema: Il discorso della nazione nella letteratura italiana)[5] sul Risorgimento
nella letteratura italiana degli ultimi vent’anni , che può funzionare come
viatico per un ulteriore supplemento di indagine.
Il cronotopo del Risorgimento, infatti, ha continuato
a funzionare, fino ai nostri giorni, quasi come un inesauribile dispositivo
narrativo funzionale a progetti letterari anche assai diversi tra loro. E il
romanzo storico risorgimentale è finito col diventare un archigenere che ha
attraversato, pressoché senza interruzioni, tutta la storia della letteratura
postunitaria. A quella linea moderna “antistorica” – o “controstorica” che dir
si voglia – aperta dalla narrativa dei grandi siciliani di cui sopra potrebbero
essere ascritti, tra i tanti, Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, Noi
credevamo di Anna Banti, molte narrazioni storiche di Sciascia (e di contro
vi andrebbero derubricate le straordinarie riletture antimimetiche e
‘tendenziose’ di Luciano Bianciardi), mentre Il sorriso dell’ignoto marinaio
di Vincenzo Consolo merita di essere indicato come il più rappresentativo
testimone di quel processo di decostruzione sperimentale delle forme statutarie
del romanzo storico avviatosi a partire dagli anni Settanta del Novecento. Una
assidua riscrittura, quella dell’epopea dell’indipendenza nazionale, nel corso
della quale si è fatto via via più nitido e marcato l’elemento politico e meno
ambigua la denuncia del tradimento delle istanze democratiche, egualitarie e
repubblicane nel corso del processo di unificazione. Ma se l’allegorismo di
questa lunga tradizione moderna, anche nelle sue propaggini più tardive e
ripetitive, si sforzava di mantenere il respiro vasto della storia, la ripresa
postmoderna della vicenda risorgimentale quasi sempre prevede il fiato corto
dei romanzi a chiave ossigenati a stento da un ideologismo piuttosto bislacco,
nei quali, grattata la crosticina storica, ecco emergere l’allusione manifesta
all’attualità (o, peggio, la sussunzione dell’attualità a una sorta di oltranza
della storia italiana quasi visionaria, con gli stessi cattivi che tramano e usurpano
viaggiando nel tempo). Così, dalla cernita dei romanzi risorgimentali
contemporanei più noti (quelli di Evangelisti–Moresco, Scurati, De Cataldo)
capita che vengano fuori, bene che vada, le trame nere della storia
repubblicana, qualche variante attualizzata e degradata del meridionalismo, ma
perfino la repressione del movimento antiglobalizzazione al G8 di Genova, Bin
Laden, il terrorismo islamico e l’attentato alle Torri gemelle; nonché, più in
generale, una sorta di involontario teleologismo negativo della storia patria
piuttosto vittimistico e tutto sommato consolatorio.
Tuttavia un giudizio diverso andrebbe formulato per il
libro antesignano di questa tendenza che sommariamente abbiamo definito del
romanzo risorgimentale postmoderno: Piazza d’Italia di Antonio Tabucchi,
pubblicato per la prima volta nel 1975 e riedito con una nuova prefazione
d’autore nel 1993; e forse per l’ultimo di questa serie, il recente Pro
patria di Ascanio Celestini: romanzo che, restituendo il racconto del
Risorgimento a una dimensione affabulatoria e ancorando questa fabulazione a un
presente di emarginazione ed esclusione sociale (il narratore è un detenuto),
ne fa risuonare, finalmente con un timbro rabbioso e sincero, le istanze
rivoluzionarie e libertarie. E che in effetti, più che suggellarlo, da questo
novero definitivamente si distacca.
Una durata ancora più lunga ha conosciuto un genere
spurio come lo scritto sui costumi e sul carattere nazionale. Dopo la sua
fondazione settecentesca (Baretti, Bettinelli, Denina, Calepio…) e la grande
sintesi leopardiana, il saggio sull’identità nazionale sembrava essersi
cristallizzato nelle versioni stucchevoli dell’anti/arci – italianità dei
Prezzolini e dei Longanesi, presto elette a lavacro letterario della falsa
coscienza nazionale e delle responsabilità civili e politiche di almeno un paio
di classi dirigenti. Ovvero pareva essersi contaminato, fino a confondervisi,
nella prosa civile degli scrittori polemisti e moralisti del secondo Novecento
(Flaiano, Pasolini, Sciascia), fatta eccezione per il caso unico dell’Alberto
Arbasino di Un paese senza e di Paesaggi italiani con zombi,
unico diretto discendente superstite di quella tradizione. Ma le sorti infauste
patite dalla nazione nel tempo presente hanno indotto molti scrittori contemporanei
a riprendere quel modello, con risultati disuguali. Probabilmente l’esito più
interessante di questa tendenza è stato Italia de profundis di Giuseppe
Genna (ancorché sulla copertina, bellissima come da tradizione della collana
Nichel di Minimum fax, compaia la dicitura ‘romanzo’), proprio per il suo
andamento debordante e liminare, tra l’autobiografismo e l’invettiva. Il
genere, infatti, è assai insidioso, devolvendo di fatto alla voce autoriale
tutta la responsabilità del dettato: per quanto ci si sforzi di mantenere
credibilità ed equilibrio, di sorvegliare la scrittura, il rischio di scivolare
nell’autoreferenzialità e nel narcisismo è incombente: caso in cui è incorso il
pur ottimo Antonio Pascale, nel suo Questo è il paese che non amo.
Meglio allora rivisitare un altro modello
frequentatissimo per raccontare gli italiani: l’odeporica, magari ibridandola
con il reportage d’autore, dato che l’Italia non è più (o si suppone non
sia più) quel paese sconosciuto ai propri connazionali qual era, ancora negli
anni Cinquanta e Sessanta, quello esplorato da Piovene, da Arpino o da
Rossellini (e finanche dal Pasolini della Lunga strada di sabbia). A ben
vedere proprio uno dei libri più felici di Pascale, La città distratta,
il suo primo, mutua gli statuti del racconto di viaggio: in fondo si tratta di
dislocare sapientemente il proprio punto di vista rispetto alla realtà che si
osserva, per quanto prossima possa essere (come nel caso della Caserta di
Pascale, dove lo scrittore è nato e ha vissuto). Strategia adottata con
successo anche da Giorgio Vasta nel suo Spaesamento, nel quale l’Italia
contemporanea è sintetizzata in una Palermo che l’autore, palermitano, descrive
con lo stupore di un ‘persiano’ (mentre la collana laterziana Contromano, nella
quale è stato pubblicato, è diventata negli anni una sorta di grande viaggio
collettivo nell’Italia odierna). Pur con qualche altro azzardo, del genere in
questione è perfino contemplabile una variante futuribile (l’Italia tra
vent’anni), come ha attestato qualche anno fa il volume collettaneo Anteprima
nazionale, curato dallo stesso Vasta.[6] Sempre per
Minimum fax era uscito, poco tempo prima, uno dei più originali reportage
narrativi sull’Italia contemporanea, Italia 2. Viaggio nel paese che abbiamo
inventato, di Cristiano De Maio e Fabio Viola.[7] Da questo
repertorio ancor meno che essenziale, infine, non può mancare il Sandro
Veronesi di Cronache italiane (1992) e di Live (1996), [8]
antesignano viaggiatore postmoderno: scrittore «finto giornalista che sale su
una macchina (si suppone) scassata e si lascia sedurre dalle bizzarrie di
un’Italia mezzo paese dei balocchi televisivo e mezzo bordello d’altri tempi»,
come ha scritto Gabriele Pedullà.
Del resto, insegnava Manganelli, l’italiano è uno dei
modi dell’altrove, e l’Italia è estero: «è un luogo da raggiungere, un luogo
lontano. È fuori».
Ma qualora l’unico viaggio in Italia che si reputi
attendibile è quello fatto dagli stranieri, dopo essersi immalinconiti con la
visione di Girlfriend in a coma di Bill Emmott e Annalisa Piras, è il
caso di procurarsi Troppo non è mai abbastanza di Ulli Lust, un graphic
novel pubblicato da Coconino press: bildungsroman in cui due ragazze
punk austriache attraversano la penisola nei primi anni Ottanta: osservarci italiani,
da una prospettiva così insolitamente obliqua, apparirà sorprendente.
[1] Cfr.
Enza del Tedesco, Il romanzo della nazione. Da Pirandello a Nievo:
cinquant’anni di disincanto, Marsilio, Venezia, 2013.
[2] Cfr.
Paolo Viola, Il romanzo come fonte storica, in Il romanzo e la
storia. Percorsi critici, a cura di Michela Sacco Messineo, :duepunti,
Palermo 2007, pp. 11– 29.
[3] Cfr.
Alberto M. Banti, La nazione del risorgimento. Parentela, sanità e onore
alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000.
[4] Cfr.
Claudio Gigante, Dirk Vanden Berghe (a cura di), Il romanzo del Risorgimento,
Peter Lang, Bruxelles 2011. Altri preziosi contributi recenti, come quelli di
Giovanni Falaschi (La letteratura preunitaria del medio Ottocento: da Giusti
a De Sanctis a Nievo (e Gustavo Modena), Quinto Marini (La funzione del
romanzo storico. Dalla ‘Battaglia di Benevento’ alle ‘Confessioni d’un
Italiano’), Clotilde Bertoni (Dallo Stendhal italiano alla ‘San Felice’
di Dumas: passioni e amarezze del Risorgimento nell’ottica degli stranieri),
si trovano negli atti del convegno del Centro Pio Rajna sui Pre–sentimenti
dell’unità d’Italia, a cura di Claudio Gigante e Emilio Russo, Salerno,
Roma 2012.
[5] Cfr.
Daniele Comberiati, Rosaria Iounes–Vona (a cura di), Il discorso della
nazione nella letteratura italiana, Cesati, Firenze 2012. Si vedano in
particolare i saggi di Ilaria De seta, Tra restauri e conversioni: storia e
politica negli spazi de I Viceré e di Claudio Gigante, «Vogliamo Magenta
e Solferino». Sull’eredità risorgimentale nel giovane Gadda.
[6] Anteprima
nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile, a cura di Giorgio
Vasta, Minimum Fax, Roma, 2009.
[7]
Cristiano De Maio, Fabio Viola, Italia 2. Viaggio nel paese che abbiamo
inventato Minimum Fax, Roma, 2008.
[8] Le due
raccolte di Veronesi sono poi confluite in Superalbo. Le storie complete,
Bompiani, Milano 2002.
Nessun commento:
Posta un commento