19 luglio 2014

ABBASSO LA SCUOLA!


Pubblichiamo la prima parte di un articolo uscito sul numero di giugno di Educazione Democratica. Rivista di pedagogia politica (Edizioni del Rosone). Nelle prossime settimane seguiranno le altre tre.

Abbasso la scuola. Effetti perversi di un’utopia democratica



Quando un attività strumentale supera una certa soglia definita dalla sua scala specifica, dapprima si rivolge contro il proprio scopo, poi minaccia di distruggere l’intero corpo sociale.
Ivan Illich, La convivialità (1973)

Istruzione e crescita economica: un falso mito?

Se Gustave Flaubert tornasse in vita per scrivere un’edizione aggiornata del suo Dizionario dei luoghi comuni, sui principali argomenti potrebbe limitarsi alla semplice trascrizione di qualche documento ufficiale dell’ONU o dell’UNESCO. Nella fitta produzione letteraria di questi organismi transnazionali si articolano i dogmi della religione del nostro tempo in materia d’arte, cultura, politica e istruzione. Un distillato dell’ideologia che poi respiriamo nella propaganda istituzionale, nella comunicazione pubblicitaria e nella filosofia spicciola. Avendo già discusso della concezione dominante di Arte in un articolo del 2009 (raccolto nell’ebook Forza d’Arte), per proseguire il lavoro di critica dell’ideologia intendo concentrarmi sulla questione dell’istruzione — scolastica e universitaria — usando anche in questo caso come pretesto le definizioni emanate dalle organizzazioni delle Nazioni Unite.
In forma più sintetica e impulsiva, queste concezioni riaffiorano nei più suggestivi slogan di piazza che abbiamo letto in questi anni: «Senza cultura siamo solo spazzatura», «Chi taglia la scuola, cancella il futuro», eccetera. Seguendo queste tracce tenterò di rispondere a quattro semplici domande: primo, che cosa si aspetta la società dal sistema educativo? secondo, quali effetti perversi produce questo sistema sul piano economico e sociale? terzo, a cosa servono effettivamente l’obbligo scolastico e gli investimenti formativi? E infine quarto, per citare Ivan Illich[1]: bisogna descolarizzare la società? In questi quattro movimenti verranno descritte le contraddizioni di una società che, per rovesciare la replica di Mefistofele nel Faust di Goethe, «vuole costantemente il bene e opera costantemente il male». A interessarci qui non sono le problematiche interne del sistema educativo — sistema che conosciamo in qualità di ex-studenti e non di addetti ai lavori — ma le conseguenze collaterali che la competizione scolastica e universitaria provocano sulla società intera. Insomma partendo dalla scuola arriveremo a parlare della crisi della democrazia; forse perché l’unico modo di parlare di questa crisi è appunto partendo dalla scuola.
Procediamo con ordine: cosa ci aspettiamo, dunque, dal sistema educativo? L’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 sancisce il diritto di ogni cittadino all’istruzione o più generalmente all’educazione, secondo i testi originali in inglese e francese. Due sono le principali finalità dell’istruzione: il «pieno sviluppo della personalità umana» e il «rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». La prima fa riferimento all’uguaglianza delle opportunità mentre la seconda esprime la convinzione che l’individuo debba essere, diciamo, programmato per la democrazia. Coltivando la finzione teorica di un livellamento preliminare delle condizioni economiche e delle posizioni politiche, la scuola appare insomma come pietra angolare dell’intero edificio di legittimazione del cosiddetto stato liberale secolarizzato. Un sistema che dovrebbe permettere al figlio di un operaio di diventare impiegato o al figlio dell’impiegato di diventare avvocato; un sistema nel quale a ognuno vengono forniti gli strumenti culturali per decidere del destino comune. Fondare la democrazia — ecco, in tutta semplicità, quello che ci aspettiamo dalla scuola.
Questa idea risale all’Illuminismo: nel progetto di riforma del sistema educativo presentato all’Assemblea Nazionale nel 1792, il marchese Condorcet sosteneva che l’istruzione pubblica fosse lo strumento necessario per formare una società composta da individui responsabili, uguali e opposti al dispotismo[2]. Secondo questa visione la scuola è la prima, vera e necessaria condizione della convivenza civile. In effetti, il buon cittadino democratico deve essere in grado di capire il mondo che lo circonda per esprimere delle preferenze politiche: egli si emancipa imparando a riconoscere il proprio interesse. Ma deve inoltre farlo in piena armonia con l’interesse collettivo, all’insegna di valori condivisi ovvero — cito ancora l’articolo 26 — «la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi».
Non si tratta di trasmettere soltanto una certa quantità di sapere, ma anche una specifica qualità. La Dichiarazione fa riferimento a un insegnamento animato dai principi della carta stessa: «libertà di parola e di credo», «uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna», eccetera. Secondo questa visione, un cittadino non-istruito potrebbe essere portato a formulare posizioni non-democratiche che risulterebbero per ciò stesso non-legittime. Ma secondo concezioni più inclusive della democrazia, come ad esempio quelle di Paul K. Feyerabend[3], Immanuel Wallerstein[4] o Slavoj Zizek[5], qui sta la contraddizione fondamentale dell’ideologia detta «universalista» o «umanitarista». Associando la legittimità di una posizione politica a una competenza che deve essere acquisita, o a una scala di valori che deve essere accettata, questa concezione di democrazia presta essa stessa il fianco ad accuse di classismo, razzismo e talvolta neocolonialismo.
Si tratta di un vero e proprio paradosso, che riemerge non appena uno scrutinio premia forze politiche considerate aberranti. Pensiamo alle reazioni di fronte ai risultati del Fronte Nazionale in Francia o di Hamas a Gaza, ma anche alla litania che abbiamo sentito in Italia per vent’anni sugli elettori di Berlusconi o della Lega Nord naturalmente «ignoranti». Le statistiche effettivamente possono mostrare, in certi contesti, una correlazione tra elevato livello di studi e posizionamento politico a sinistra e questo dato ha potuto rinforzare l’idea paternalista secondo cui gli «incidenti di percorso» della democrazia dipendono da un difetto d’istruzione dei cittadini chiamati a esprimere le loro preferenze. Pare più difficile accettare che queste divergenze politiche radicali siano piuttosto l’espressione di divergenze d’interesse altrettanto radicali, e si preferisce dunque «medicalizzare» il conflitto.
Pur di ampliare il campo delle patologie culturali da debellare si è creata nel dopoguerra la categoria di «analfabetismo funzionale». Ricorrendo a elaborati test e indicatori, l’OCSE poteva affermare nel 2014 che «in totale il 70% della popolazione italiana si colloca al di sotto del Livello 3, il livello di competenze considerate necessarie per interagire in modo efficace nella società del XXI secolo»[6]. Il confine tra filantropia e disprezzo risulta spesso molto sottile e talvolta sembra addirittura scomparire, come nel caso di un maldestro striscione del 2011 (segnalato da Antonio Vigilante) che proclamava: «Senza cultura siamo solo spazzatura»; uomini indegni, cittadini per metà.
La soluzione a tutti questi problemi sarebbe quindi semplicissima: bisogna investire nella formazione. Ma se non basta la scuola dell’obbligo, quanti anni di studio sono necessari per educare gli italiani a «interagire» e votare correttamente? Bisognerà istituire il dottorato obbligatorio e generalizzato per assicurare la vittoria delle forze democratiche? Questa ipotesi caricaturale non è troppo distante da certe incarnazioni contemporanee dell’idea di «diritto allo studio» inteso come assegno in bianco per un investimento di risorse pubbliche e private senza limite. A dire il vero, è il concetto stesso di diritto allo studio a essere indeterminato. Raramente viene indicata la misura della dose d’istruzione alla quale ogni individuo avrebbe «diritto», anche se nei testi ufficiali vengono talvolta fornite delle indicazioni di minima per quanto riguarda la sua applicazione. In cosa consiste precisamente questa educazione?
Si parla di conoscere l’alfabeto o di leggere romanzi o di leggere buoni romanzi (no Fabio Volo) o di navigare su Internet o di conoscere la storia delle idee politiche oppure di che altro? Il diritto all’istruzione è vago e quindi estensibile secondo i punti di vista: può giustificare tanto la promozione di programmi di alfabetizzazione in Sudan quanto la difesa tenace di cicli di studi universitari lunghi tre, cinque o otto anni in Italia — al termine dei quali, peraltro, non si è nemmeno certi che lo studente abbia acquisito le competenze basilari di comprensione del testo[7]. Nella grande confusione ideologica che regna, possiamo quindi vedere le piazze occidentali riempirsi prima di ventenni che reclamano finanziamenti pubblici per sofisticatissime formazioni, e poi, qualche anno dopo, di trentenni che rivendicano il diritto a un inserimento professionale all’altezza della loro educazione. Perché «Choosy ci sarai tu», io ho un master in Cooperazione allo sviluppo e non vado certo a fare la commessa al Lidl.
La Dichiarazione dei diritti umani del 1948, che ha forza di soft law per gli stati aderenti alle Nazioni Unite, prescrive come minimo la gratuità delle classi elementari, l’obbligo dell’istruzione elementare e la libertà di accesso sulla base del merito all’istruzione superiore. Ma gran parte degli stati occidentali si sono spinti ben oltre, estendendo l’obbligo fino alla scuola secondaria (15-16 anni), la gratuità fino all’università (Francia, Nord-Europa) e spianando per quanto possibile le barriere all’accesso, in nome — ma solo in nome, come vedremo — della lotta alla discriminazione di censo. L’aumento della durata degli studi e della spesa per l’educazione viene generalmente interpretata come un «progresso»: ma ancora una volta non è chiaro a che punto si possa considerare sufficiente l’istruzione del cittadino. Sappiamo solo che è giusto indignarsi perché (come tutti sanno) l’Italia è l’unico Paese dell’area dell’OCSE che dal 1995 non ha aumentato la spesa per studente nella scuola primaria e secondaria. Ma che l’aumento della spesa sia auspicabile è tutto da dimostrare.
Già nel 1971 Ivan Illich denunciava il costo considerevole dell’intero sistema, a fronte di risultati sociali sempre meno incoraggianti. La sua analisi, che all’epoca poteva sembrare «utopistica» e magari un po’ hippie, appare oggi al contrario anti-utopistica e terribilmente realista. Il sistema educativo rappresenta un costo privato innanzitutto, per coloro che inseguono la promessa di un’improbabile ascesa sociale. E rappresenta inoltre un costo pubblico, poiché si chiede allo Stato di finanziare una crescente domanda di educazione drogata dalla competizione per l’accesso al mondo del lavoro: una «gara al rialzo» senza nessun rapporto con le competenze necessarie per partecipare alla vita economica della collettività. Questi costi sono diventati semplicemente irrazionali. Ma i sostenitori del diritto allo studio rispondono: lo studio non è un costo ma un investimento. Il progresso sul piano dell’educazione accompagnerebbe e guiderebbe il progresso economico. E il progresso economico, come noto a tutti da quanto John Maynard Keynes ha inventato la pietra filosofale, di limiti non ne ha. Il progresso insomma non sarebbe più soltanto un movimento verso un ordinamento giuridico conforme ai principi rivelati del diritto naturale, bensì un’evoluzione inarrestabile verso un benessere sempre crescente.
Nella presentazione del programma «Istruzione per il secolo XXI» sul sito Internet dell’UNESCO si afferma che il diritto allo studio deriva «dalla convinzione che l’istruzione svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo umano, sociale ed economico». Questo «ruolo fondamentale» allude a una possibilità affascinante: ovvero che sia possibile alimentare lo sviluppo con l’istruzione, e da lì finanziare l’istruzione con lo sviluppo, in un miracoloso circolo virtuoso keynesiano. Stimolando i consumi e incrementando la produttività del lavoro, effettivamente i diplomi possono generare posti di lavoro. Per questo motivo sarebbe utile continuare a estendere l’istruzione nel tempo e nello spazio, facendo studiare tutti e più a lungo, alimentando con sempre maggiori risorse la scuola e l’università.
Secondo una teoria molto fortunata, ci sarebbe un necessario rapporto di causa a effetto (o addirittura di proporzionalità) tra il livello d’istruzione e la crescita economica di un paese. Molto sostengono addirittura che il rapporto sarebbe «dimostrato» ma si tratta più che altro di un luogo comune. Questa teoria è fondata su una correlazione che può effettivamente essere ravvisata in certi contesti, ma su di essa gravano anche numerosi controesempi e tare metodologiche. Primo, se le due curve crescono in parallelo, di tutta evidenza il rapporto causale può anche essere rovesciato: la società risulta sempre più educata innanzitutto perché può permettersi di spendere risorse nell’istruzione, e come abbiamo visto ha forti ragioni ideologiche per farlo. L’istruzione è un effetto prima di essere una causa della crescita. Inoltre, se l’educazione può garantire un più alto livello di produttività del lavoro e una maggiore capacità di assorbire tecnologie avanzate dai paesi sviluppati, ciò dipende dalla specifica conformità tra formazione e domanda del mercato e non da una quantità generica di anni di studio o di «cultura», come può invece risultare da dati statistici eccessivamente vaghi messi al servizio di una specie di pensiero magico. Insomma non basta investire nella formazione, ma bisogna anche chiedersi in quale formazione.
Infine, poiché la famosa correlazione nei paesi occidentali risulta sempre più fiacca e meno evidente, è assurdo ignorare la possibilità molto concreta che esista una soglia di saturazione,raggiunta la quale la causa cessa di agire o agisce più debolmente. Un rendimento marginale decrescente dell’istruzione, per così dire, peraltro conforme alla legge più generale sul rendimento decrescente dei fattori di produzione. In generale la teoria del rapporto necessario e meccanico tra educazione e crescita è stata sottoposta a varie critiche a partire dagli anni Sessanta e definitivamente confutata dall’economista inglese Alison Wolf nel fondamentale Does education matters? Myths About Education and Economic Growth al quale rimandiamo per un’analisi più rigorosa e completa[8].
Tralasciando ogni precauzione di sorta, il Centro Studi di Confindustria ha presentato nel 2014 uno studio[9] le cui conclusioni, riassunte sul Sole 24 ore del 29 marzo 2014, appaiono semplicemente fantascientifiche:
Un aumento del Pil fino al 15% in più in termini reali in 10 anni. Tradotto in cifre 234 miliardi, con un guadagno di 3.900 euro per abitante. Uno scenario che potrebbe diventare realtà se il grado di istruzione italiano salisse al livello dei paesi più avanzati.
Nello stesso modo, un economista boemo nell’Ottocento avrebbe potuto formulare una legge universale, anzi un rigoroso modello matematico, che collega la produzione di manufatti di cristallo alla ricchezza di una nazione: salvo essere confutato due secoli dopo da una crisi del mercato del vetro. Dio non voglia che in Boemia esista un setta di «cristalliani» fedeli all’insegnamento di quell’economista, i quali come dei disperati continuino a fabbricare vasi brocche e bicchieri nel cieco convincimento che a furia di produrre merci invendibili si riesca alla fine a riavviare il meccanismo!
Con lo stesso metodo astratto da tacchini induttivisti, gli economisti americani avevano negli anni Duemila creato l’illusione di un mercato immobiliare che avrebbe continuato a crescere; e si sono poi ritrovati nel 2008 ad assistere allo scoppio della più gigantesca bolla speculativa della storia umana. Oggi, mentre altri tacchini continuano a proclamare che «la cultura non è un lusso»  sono sempre più numerosi gli analisti che parlano di una «bolla educativa» pronta a scoppiare e a trascinare nella povertà la parte più fragile della classe media. Ma quali sono precisamente gli effetti perversi che produce questo sistema sul piano economico e sociale?

[1] Ivan Illich, Descolarizzare la società, Mondadori, Milano, 1983.
[2] «Rapport et projet de décret relatifs à l’organisation générale de l’instruction publique Présentation à l’Assemblée législative : 20 et 21 avril 1792», su http://www.assemblee-nationale.fr/histoire/7ed.asp. Si veda anche B. Jolibert «Condorcet (1743-1794)», in «Perspectives: revue trimestrielle d’éducation comparée», Paris, UNESCO : Bureau international d’éducation, vol. XXIII, n° 1-2, 1993, p. 201-213.
[3] P. K. Feyerabend, «Concerning an appeal for philosophy» in «Common Knowledge» 3, 1994, pp. 10–13.
[4] I. Wallerstein, La retorica del potere. Critica dell’universalismo europeo, Roma, Fazi, 2007
[5] S. Zizek, Contro i diritti umani, Milano, Il Saggiatore, 2005.
[6] «PIAAC-OCSE : rapporto nazionale sulle competenze degli adulti», Roma, ISFOL 2014, online su http://sbnlo2.cilea.it/bw5ne2/opac.aspx?WEB=ISFL&IDS=19827
[7] Sullo stato dell’università e della cultura italiana si veda C. Giunta, L’assedio del presente. Sulla rivoluzione culturale in corso, Il Mulino, Bologna 2008.
[8] A. Wolf, Does education matters? Myths About Education and Economic Growth, Penguin, Londra 2002.
[9] «People first. Il capitale sociale e umano: la forza del Paese», a cura di Luca Paolazzi, Centro studi Confindustria 2014, disponibile online.

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Pezzo pubblicato su  http://www.minimaetmoralia.it/  venerdì, 18 luglio 2014

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