Angelo d'Orsi
L’ascensore
sociale funziona. In giù
E parliamo un
po’ di classe operaia, raccontiamo come vive,
giorno dopo giorno, tirando la vita coi denti. Parliamo non
di giovani disoccupati, la grande tragedia
nazionale, ma di gente che il lavoro ce l’ha — a quali
condizioni… — e fatica a mantenerlo,
sottoposta a ricatti, costretta
a condizioni iugulatorie, con
salari al minimo; e quando lo perde, per l’incessante
chiusura di officine, aziende, imprese, fa ancora più
fatica a rimediarne un altro.
Non voglio offrire
statistiche e sguardi di insieme, ma
raccontare una storia, una vicenda come tante,
esemplare, ritengo. Famiglia proletaria,
nell’ex capitale: del Ducato di Savoia, del Regno
d’Italia, dell’automobile, della Fiat. Il padre operaio
specializzato giunto al reparto progettazione
auto, aristocrazia operaia, insomma, che al
lavoro ha sempre guardato con rispetto e persino
con amore; qualche sciopero, ma via via sempre
meno nel corso dei decenni; una moglie con un lavoro non
qualificato, due figli, che fanno le scuole
tecniche.
Il maschio frequenta
l’Istituto per Geometri, ma comincia
a frequentare i cantieri, nel tempo
libero e nelle vacanze, si impratichisce del
lavoro, e quando finisce trova subito un impiego.
Lavora sodo negli anni seguenti, diventa capocantiere,
per la ditta che lo ha assunto, mette su famiglia: compra
una casetta, col mutuo, fuori città, nel luogo dove ha sede la
sua ditta: casa e bottega. Come suo padre vive per il
lavoro, lo ama, si impegna, e non bada a straordinari.
Il babbo
è orgoglioso, ha fatto studiare il
primogenito, che è salito nella scala
sociale; ma c’è di più. Il nostro operaio
specializzato ha una seconda figlia, che fa le
scuole commerciali, prende il suo diploma, e vuole
a tutti i costi andare all’università. Il babbo le
dice d’accordo, ma non possiamo permettercelo.
E lei si mantiene lavorando per tutto il periodo
degli studi. E dopo la laurea — ottenuta nei
quattro anni, e bene — continua, avrebbe
aspirazioni intellettuali, ma sa di non
poterselo permettere; conserva la passione
per i libri, per lo studio, e rifiuta le
proposte di continuare nella vita degli
studi, che il suo relatore di tesi le fa.Le riesce
impossibile conciliare quella dimensione,
a cui pure terrebbe, con la vita reale.
Una vita reale nella
quale è passata ormai dai lavoretti nelle fiere
o come aiuto parrucchiera, ad assunzioni
a tempo determinato in un’azienda, con rinnovi
semestrali.
È seria come tutti
in famiglia: sarà l’etica del lavoro tipica della
cultura piemontese? E i datori di lavoro le
rinnovano il contratto, fino a che si
stabilizza: è una lavoratrice che si fa
sfruttare fino in fondo. Piega la testa, ed è brava:
perciò, a un certo punto il lavoro a tempo
indeterminato arriva. Il miraggio diviene
realtà. E questo le fa credere che può, come suo
fratello, comprare un piccolo appartamento,
con un mutuo trentennale.
Ma fa fatica, troppa
fatica, i costi aumentano mese dopo mese, le utenze, le
spese condominiali, il cibo, i detersivi,
e il suo compagno che ha messo su un’attività
nel momento sbagliato, con la crisi galoppante, non ce
la fa ad aiutarla. Anzi: chiede un fido bancario,
e le rate strozzano lui e lei, che intanto vende
gli oggettini d’oro, salta il pasto di mezzodì e usa
i buoni pasto della ditta per fare la spesa a fine
settimana. In casa i pranzi sono ridotti
a farinacei, patate e, di rado, proteine,
a cui provvedono perlopiù i genitori
nei pasti domenicali, quando i due “giovani”
(ormai entrambi sui 40) ritornano nelle dimore di nascita;
le mamme li provvedono con cibarie, olio, caffè.
Una vita di stenti.
E lei sa di doversi considerare “fortunata”
con i suoi circa 1.100 euro mensili, anche se alla
quarta settimana non riesce ad arrivare,
e cerca occupazioni per arrotondare. Va
a fare le pulizie in una dimora privata dopo
l’ufficio un paio di volte alla settimana.
Intanto, la crisi ha
colpito il fratello maggiore: la ditta ha perso
mese dopo mese, le commesse in precedenza
numerose. E un anno e mezzo fa ha chiuso. Era una
piccola, ma fiorente azienda. Kaputt. Il geometra
quarantenne viene messo con gli altri dipendenti
in cassa integrazione: finita la cassa, comincia
a cercare. Prima fa il giro dei cantieri, poi
manda curricula alle ditte edili: non riceve risposte.
Quando gliene danno sono sconsolate e sconfortanti.
Spulcia gli
annunci sui giornali: ma settimana dopo
settimana allarga il raggio della sua ricerca.
Cerca qualunque cosa. Va a scaricare
frutta ai mercati generali, quando capita. E continua
a salir l’altrui scale. A bussare a porte
che rimangono ostinatamente chiuse.
I genitori condividono le ambasce
del figlio, e le difficoltà della figlia. Sono
impotenti. E probabilmente il padre
pensa che suo figlio che era la prova del miglioramento
della condizione familiare, ora testimonia
un fallimento, una sconfitta. Ma arriva infine la
buona notizia: forse il figlio sarà “preso”, ossia
assunto. In una ditta metalmeccanica. Come
operaio semplice, manovale. Ma avrà un salario.
Basso, poco più di 900 euro trattandosi di un primo
impiego, ma pur sempre un salario.
Infine, non sarà
superfluo aggiungere che questo posto, se sarà
davvero confermato, è stato ottenuto
solo grazie al fatto che all’Ufficio del personale
della ditta c’è qualcuno che è amico di un amico
che è amico di…Insomma, anche per essere assunti, come
operaio generico, in una grande azienda del Nord,
occorre una raccomandazione.
Ma questo è solo
un dettaglio: siamo pur sempre in Italia.
Quello che conta è la forza simbolica di questa
piccola storia, una come tante. Sentiamo parlare
di “cambio di passo”, di mobilità, di riforme, di
modernità, di ascensore sociale, della generazione
di Telemaco che sostituisce quella di Ulisse (che
sciocchezza, Renzi!): ebbene, l’ascensore quando
funziona, va in discesa.
il manifesto - 10 Luglio
2014
Nessun commento:
Posta un commento