Un'analisi chiara e sintetica del pasticcio renzusconiano in un articolo de Il manifesto:
La Costituzione non è lo statuto di una maggioranza
Una valanga di 7000 emendamenti può sembrare un ostacolo insormontabile per la riforma Renzi-Boschi. Ma è un’illusione. Regolamento e prassi conoscono raffinate tecniche anti-ostruzionistiche. Per le regole in atto, un ostruzionismo di minoranza che blocchi l’assemblea non è possibile. Siamo di fronte a qualche giorno di lavoro parlamentare, niente che non si possa gestire accorciando (di poco) le vacanze. A meno che la maggioranza riformatrice non si dissolva. Per questo è decisiva la tenuta del patto Renzi-Berlusconi, difeso dai due stipulanti a spada tratta, accada quel che accada.
In qualche misura l’esito rimane incerto, essendo stata pura rappresentazione teatrale la soporifera assemblea di Renzi con i parlamentari Pd, e rimanendo alta la febbre in Fi. C’è da sperare che la migliore politica ritrovi fiato e iniziativa. Perché il testo approvato in commissione prefigura un’architettura istituzionale distorta e priva di equilibrio. Si è parlato di blando autoritarismo, si è richiamato il progetto Gelli-P2. Di certo, si può temere una riduzione degli spazi di democrazia.
Come? Vediamo alcuni punti salienti. Azzeramento della rappresentatività e del peso politico-istituzionale del senato con il carattere non elettivo e il taglio dei poteri; riduzione della camera a obbediente braccio armato del governo attraverso una legge elettorale che riduce la rappresentatività, taglia le voci in dissenso, crea una artificiale maggioranza numerica, garantisce la fedeltà al capo attraverso le liste bloccate; potere di ghigliottina permanente del governo, che può strozzare a suo piacimento il dibattito imponendo il voto a data certa su un testo proposto o comunque accettato dal governo; innalzamento del numero di firme richiesto per l’iniziativa legislativa popolare a 250.000 (ora 50.000); innalzamento delle firme richieste per il referendum abrogativo a 800.000 (ora 500.000).
Un colpo grave ed evidente alla rappresentanza politica da un lato, alla partecipazione dall’altro. Sono poco più che una foglia di fico le disposizioni che rinviano ai regolamenti parlamentari la garanzia dell’iniziativa legislativa popolare, o riducono in qualche misura il requisito del quorum strutturale per il referendum. Assai più contano altri effetti, magari indotti e non immediatamente visibili, delle modifiche proposte. Ad esempio, il Capo dello Stato viene eletto da deputati e senatori. Ma la riduzione drastica del numero dei senatori, rimanendo immutato quello dei deputati, lascia in sostanza la elezione del capo dello stato nelle mani della sola camera, consegnata alla maggioranza di governo dalla legge elettorale, con l’aggiunta di una manciata di sindaci e consiglieri regionali amici. Basterà aspettare il nono scrutinio per avere un capo dello stato di maggioranza, rimanendo mero flatus vocis che sia rappresentante dell’unità nazionale, e garante della costituzione. E non dimentichiamo che il capo dello stato presiede il Csm, organo di autogoverno della magistratura. E che per gli stessi componenti elettivi del Csm vale il discorso appena fatto. Mentre i tre membri della Corte Costituzionale eletti dalla camera sono rimessi alla scelta della maggioranza garantita dal premio, con qualche sostegno sottobanco che non si nega a nessuno. Per non dire della revisione della Costituzione ancora rimessa alla maggioranza di governo della camera, e agli equilibri politici del tutto occasionali e imprevedibili del senato. In quali mani finiranno diritti e libertà? La Costituzione come statuto di una maggioranza?
Una struttura priva di equilibrio. Dove sono i checks and balances? Invece, molto altro si poteva fare. Come ad esempio l’impugnativa ex ante davanti alla Corte Costituzionale di leggi non limitata alla legge elettorale, da parte di una minoranza parlamentare (come in Francia); o il ricorso diretto del cittadino alla stessa Corte in materia di diritti e libertà (Germania e altri paesi); o il referendum popolare approvativo automatico in caso che l’iniziativa legislativa popolare venga disattesa dal legislatore (Svizzera); o l’anticipo del giudizio di ammissibilità della Corte sul referendum in base all’avvenuta raccolta di un numero inferiore di firme rispetto al totale di quelle richieste (ad esempio, centomila), in modo da consentire ai promotori di raccogliere le restanti firme a quesiti ammessi.
Né va dimenticato il contesto più generale, e l’indebolimento di partiti politici, sindacati, associazioni. Si pensi alla cancellazione del finanziamento pubblico, alla diatriba sui contratti nazionali di lavoro, al rifiuto di concertazione. La stessa ascesa di Renzi è stata la negazione della funzione tipica e propria di un partito politico. In sostanza, nelle primarie Renzi ha usato il voto dei non iscritti contro il voto degli iscritti, per conquistare il partito degli iscritti.
Un tempo, se qualcuno voleva metter mano alla costituzione si parlava di ingegneria istituzionale. Ma almeno si presupponeva una laurea. Capiamo bene che oggi è chiedere troppo. Ma almeno dateci un geometra o un capomastro.
Da Il manifesto, 17 luglio 2014
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