Quella che segue ci sembra un'analisi impeccabile dell'ideologia e della prassi che hanno provocato il successo dell'uomo che ha costruito e rafforzato il suo potere divorando i suoi antagonisti e assorbendone così i nefasti caratteri.
Il populismo tecnocratico del «rottamatore»
L'Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e
mezzo), negli ultimi vent'anni, un record mondiale. Populismo: che è
concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un
processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che
culturale e politico, nel senso che è appunto l'economia capitalista ad
essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo -
prima delle merci e del denaro - le mappe concettuali, cognitive,
relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato;
trasformando quello che era il cittadino dell'illuminismo in lavoratore,
merce, capitale umano - ovvero in mero homo oeconomicus. Tre
populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della
Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo
portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo
stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la
responsabilità di essere sovrano di se stesso. Effetto culturale -
questo - dell'antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e
culturalmente monopolista deve rimuovere ogni sovrano concorrente. Berlusconi: il populista che prometteva la modernizzazione neoliberale
del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare
nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali). Un populismo
aziendalista, con la figura del padre/leader sostituita da quella
dell'imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta
nell'esprimere il modello culturale che tutti dovevano apprendere:
l'edonismo, il godimento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica
ed egotistica. Per legittimare - questa l'azione appunto culturale,
pedagogica prima che economica - le retoriche neoliberiste dell'essere
imprenditori di se stessi e della competizione come unica forma di vita.Bossi e la Lega: il mezzo populismo (non solo perché limitato a una
parte del territorio), apparentemente il più classico dei populismi con
il richiamo alla tradizione, ai simboli di terra e di sangue. All'essere
padroni a casa nostra: da intendere però non come sovrani sulla nostra
terra ma come padroni nel senso antico del capitalismo. Populismo da
piccola impresa, da capitalismo molecolare come versione localistica
dell'ordoliberalismo tedesco e della sua pedagogia per imporre il
modello impresa all'intera società. Grillo: il populista contestatore, il teorico del net-populismo come
forma perfetta della democrazia. Grillo come l'uomo del cambiamento ma
incapace di cambiare (dice solo no) e forse populista anche di se
stesso.
E Matteo Renzi. Un populismo di tipo nuovo ma evoluzione dei precedenti. Perché anch'egli cerca il rapporto diretto con il popolo e lo invoca come propria totalizzante legittimazione. Perché aspira ad essere insieme Partito di Renzi e Partito della Nazione. Un partito-non-partito tuttavia, ormai anch'esso trasversale - e quasi un non-luogo nel senso di Marc Augé: come un aeroporto, un supermercato, un luogo di consumo di politica.
Un populismo che invoca il popolo contro le caste e il sindacato salvando invece le oligarchie che lo sostengono come un sol uomo; che ha grandi mass-media schierati dalla sua parte e che gli consentono ciò che mai avrebbero consentito a Berlusconi; un populismo fideistico e teologico-politico (noi contro loro, noi il tutto che non accetta il due e il tre e il molteplice e gli eretici; noi il nuovo, gli altri il vecchio).
Un populismo che vuole rottamare appunto il vecchio, ma che non rottama, non corregge (una volta si chiamava autocritica, ma il nuovo che avanza travolge anche la memoria) i molti errori del passato: il sì all'austerità, all'articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio.
Un populismo finalizzato alla modernizzazione dell'Italia - e ogni populismo è stato, storicamente anche una via per la modernizzazione, facendo accettare al popolo, in nome del popolo quelle trasformazioni che altrimenti non sarebbero state possibili per trasformare un paese e quel popolo. Per questo, quello di Renzi è un populismo tecnocratico: che produce quella modernizzazione neoliberista che Berlusconi non è riuscito a produrre e Grillo fatica a poter produrre.
Un populismo nel nome della tecnocrazia, che la tecnocrazia ama; un populismo che trasforma (forse questa volta per davvero) il potere politico nel senso richiesto dalla tecnocrazia: meno democrazia (la riforma del Senato, le proposte di nuova legge elettorale); meno diritti sociali e quindi politici (diventati un costo); più decisionismo; meno partecipazione e più adattamento alla realtà immodificabile del mercato; meno cittadinanza attiva e più accettazione della ineluttabilità del reale. Perché le sue pratiche politiche - al di là delle apparenze e delle discussioni con Angela Merkel e di alcuni interventi comunque virtuosi - sono tutte dentro alla cultura della modernizzazione richiesta dall'ideologia neoliberista (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, un nuovo modo di essere imprenditori di se stessi, riduzione ulteriore dello stato sociale, crescita invece di sviluppo, competizione invece di solidarietà); e la flessibilità sul Fiscal compact (invece della sua abolizione, per evidente irrazionalità e surrealtà economica), pure invocata, è un pannicello caldo rispetto al nuovo new deal che sarebbe invece necessario (e urgente). Un populismo futurista, inoltre: nel nome della velocità, delle macchine, delle parole in libertà, dell'azione per l'azione.
Il populismo di Renzi è dunque più di un classico neopopulismo, che ha dominato la scena per trent'anni coniugando populismo e neoliberismo, mercato e popolo, modernizzazione e impoverimento e disuguaglianze. E' un neopopulismo tecnocratico - per altro discendenza diretta di quello neoliberista - che scardina ancor più di quello neoliberista le forme e le pratiche della democrazia; riduce a niente la società e la società civile; attacca il sindacato o lo rende inutile (in coerenza con le tecnocrazie globali); che spettacolarizza se stesso proponendosi come outsider, come rottura, come alternativa, in realtà portandoci nella società dello spettacolo della tecnocrazia.
Una tecnocrazia che non si espone più direttamente con i noiosi e antipatici tecnici, ma con la fantasia e l'estro di un populismo mediatico e spettacolare, moderno e postmoderno insieme, dove twittare è più importante che ascoltare.
Da: Sbilanciamoci info, newsletter, 4 luglio 2014
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