Tra Atene e Gerusalemme. Ceronetti, Quinzio e papa Francesco
di Luca Illetterati
Viene da pensare non di rado a Papa
Francesco leggendo l’Epistolario tra Guido Ceronetti e Sergio Quinzio da
poco pubblicato da Adelphi.
Il titolo, Un tentativo di colmare l’abisso, è preso a prestito da una frase di Quinzio contenuta nella seconda lettera che egli invia a Ceronetti e nella quale già si dipanava, in modo evidentemente chiarissimo, la distanza forse incolmabile tra gli orizzonti di senso dentro cui si muovono queste due personalità estreme ed eccentriche, straordinariamente e ossessivamente coerenti a se stesse e soprattutto radicalmente inattuali e per questo capaci, come poche altre, di penetrare attraverso i loro sguardi obliqui nella superficie di quel quasi trentennio (1968-1996) nel quale si è sviluppata, con schiettezza e persino talora con asprezza, la loro amicizia e il loro vicendevole leggersi.
Il titolo, Un tentativo di colmare l’abisso, è preso a prestito da una frase di Quinzio contenuta nella seconda lettera che egli invia a Ceronetti e nella quale già si dipanava, in modo evidentemente chiarissimo, la distanza forse incolmabile tra gli orizzonti di senso dentro cui si muovono queste due personalità estreme ed eccentriche, straordinariamente e ossessivamente coerenti a se stesse e soprattutto radicalmente inattuali e per questo capaci, come poche altre, di penetrare attraverso i loro sguardi obliqui nella superficie di quel quasi trentennio (1968-1996) nel quale si è sviluppata, con schiettezza e persino talora con asprezza, la loro amicizia e il loro vicendevole leggersi.
Viene da pensare a Papa Francesco fin
dall’inizio. E’ il 1969 e il 20 luglio, come noto, Neil Armstrong, mette
per la prima volta piede sulla luna. Qualche giorno dopo, il 24 luglio,
Ceronetti (che pubblicherà di lì a qualche anno per Rusconi Difesa della luna e altri argomenti di miseria terrestre)
scrive a Quinzio una breve lettera nella quale, fra l’altro, si legge:
“Hai letto le enormità dei Giornali sull’impresa spaziale? Sono
atterrito da un simile USO della parola! E il povero papa Paolo, che
concilia tutto, tutto…”. Il 30 luglio Quinzio risponde, anche lui
brevemente, dicendosi d’accordo, ma aggiungendo qualcosa in più, che
riguarda nello specifico la dimensione della religione, piuttosto che la
hybris degli uomini che è invece al centro della riflessione
ceronettiana: “nel momento in cui accadono fatti che possono essere
compresi solo in base a ‘categorie’ religiose – scrive Quinzio – la
religione non c’è più”, mentre di fronte a eventi e circostanze rispetto
a cui essa non può che produrre discorsi che risultano “i più vacui e i
più penosi” la religione fa sentire la propria voce urbe et orbi.Perché questo scambio in relazione alla conquista della luna? Cosa c’entrano la religione e la Chiesa in questo?
Il papa di allora, Paolo VI, aveva in
effetti pronunciato un discorso insieme di entusiasmo e di attenzione
qualche giorno prima dell’allunaggio durante un’udienza ed era poi
tornato sull’argomento con lo stesso tono insieme ‘progressivamente’
conciliante e prudente nell’Angelus dello stesso 20 luglio. E il giorno
dello sbarco aveva mandato subito un messaggio agli astronauti che forse
aiuta a capire i commenti di Ceronetti e di Quinzio: “Qui parla a voi
astronauti, dalla sua specola di Castel Gandolfo, vicino a Roma, il Papa
Paolo VI. Onore, saluto e benedizione a voi, conquistatori della Luna,
pallida luce delle nostre notti e dei nostri sogni! Portate ad essa, con
la vostra viva presenza, la voce dello spirito, l’inno a Dio, nostro
Creatore e nostro Padre. Noi siamo a voi vicini con i nostri voti e le
nostre preghiere. Vi saluta con tutta la Chiesa cattolica il Papa Paolo
VI”.
Viene da pensare a papa Francesco, si
diceva, perché in qualche modo quella tendenza alla conciliazione e
all’estenuante mediazione di Paolo VI, denunciata da Ceronetti in nome
della difesa di un sacro neutralizzato dalla tecnica, e quella timidezza
nel pensare ciò che le categorie religiose solamente devono pensare a
fronte di una loro estensione là dove di esse non sembra esserci bisogno
alcuno, sembra per molti versi la morsa, sicuramente tragica e a volte
viene da pensare anche disperata, dentro la quale si muove anche questo
pontificato. Un po’ come lo erano stati in condizioni storiche e
soprattutto in contesti comunicativi del tutto diversi quello di
Giovanni XXIII e dello stesso Paolo VI, anche questo papa sembra tutto
teso a cercare di fare pace con il mondo, a mostrarsi disponibile e
ospitale verso le sue esigenze, nella speranza, in questo modo,
attraverso un linguaggio comprensibile e quotidiano, attraverso gesti
semplici, gioviali e quotidiani, di vedersi riconciliato con esso. E
tuttavia il papa è ovviamente del tutto consapevole che questo desiderio
di mondo, questo suo parlare il linguaggio del mondo, questo suo
adoperarsi per mostrare continuamente che il cristianesimo non è
estraneo o straniero rispetto non solo alle vicende, ma anche alle
maniere del mondo, rappresenta il suo rischio estremo. Nei gesti
ordinari e nel linguaggio diretto e immediato di papa Francesco sembra
nascondersi, infatti, il terrore, la paura profonda, che la rivelazione,
la parola cristiana, a causa del suo voler rimanere fedele a se stessa
risulti sempre più ostica e straniera, sempre più lontana, inefficacie e
in fondo persino inutile rispetto alle vicende del tempo. Papa
Francesco, dopo lo strepitoso fallimento del papato ratzingeriano,
sembra essersi caricato il peso di riavvicinare la Chiesa al mondo, di
farla andare incontro al tempo, di toglierla da un isolamento frutto
dell’ancoraggio alla propria tradizione, ma anche, e qui l’elemento
appunto tragico, alla propria identità. Sembra che papa Francesco abbia
come compreso che una tradizione che vuole rimanere identica a se
stessa, che vuole portare il mondo a sé piuttosto che incalzare il mondo
sul suo stesso terreno, non è più, di fatto, una tradizione, non è più
quella capacità di consegnare se stessa al tempo che è il cuore e il
sangue di una tradizione autentica e che costituisce l’elemento che più
di ogni altro ha caratterizzato la forza del cristianesimo nella storia.
Contemporaneamente, però, nel suo dimostrarsi capace di relazione
immediata con il mondo, la parola cristiana rischia di annullare quella
distanza che è invece la condizione di possibilità della sua esistenza e
del suo significato. Rischia cioè di ridursi ad altro, di rinunciare al
suo essere scandalo e vergogna, promessa e sconfitta, attesa e
salvezza. Non si tratta dunque, evidentemente, di una tragedia
momentanea, passeggera, circostanziata. Perché questo rapporto di
adesione e critica rispetto al mondo, di internalità ed esternalità
rispetto al tempo, è semmai ciò che segna fin dall’inizio, fin dal suo
evento costitutivo – l’incarnazione – il cristianesimo, il quale rischia
di non essere più se stesso, e quindi di essere niente, nel momento in
cui si fa dimentico di questa tragedia, di questa aporia originaria e
fondativa, di questa contraddizione dentro la quale si gioca tutto il
suo senso.
Ne è potentemente e dolorosamente
consapevole il cristiano Quinzio, come anche, in modo più distaccato, il
non cristiano e per alcuni versi anticristiano Ceronetti.
Di fronte alla critica ceronettiana di
aver citato le scritture in latino Quinzio infatti risponde: “Significa
stabilire un rapporto con la storia, che così ha trasmesso e deformato
il testo: così come l’ho ricevuto, tento di ‘adoperarlo’, di forzarlo”.
La fedeltà all’origine sembra a Quinzio una pratica e una pretesa
anti-cristiana: la ricerca di “una purezza oggettiva, miticamente
moderna, delle parole di Gesù” (22). Non c’è invece nessuna purezza nel
Cristianesimo, secondo Quinzio. Il Cristianesimo, per il commentatore
delle Bibbia, è impuro fin dall’inizio, è originariamente contatto e
infezione del tempo, contiene in sé il germe della propria morte, è un
necessario tradimento. “Penso che anche il cristianesimo, come Cristo, –
scrive infatti ancora Quinzio – debba morire nella storia” (291). E se
questo morire nella storia appare a Ceronetti come il segno della
non-verità del cristianesimo, è invece per Quinzio la testimonianza
della sua verità non in senso logico e metafisico, ma vitale e concreto.
Facendo i conti con questa contraddizione ed esprimendola in se stesso
il cristianesimo è, per Quinzio, parola che parla schiettamente alla
vita senza anestesie concettuali nei confronti del male, del dolore,
delle rabbie che abitano le esistenze degli uomini. Il cristiano,
secondo Quinzio, ama la vita, la vuole vivere, lotta per essa. E per
questo è lontano dall’arte, che Ceronetti invece ama e pone al di sopra
di qualsiasi fede. “Che arte e fede divergano – scrive Ceronetti a
Quinzio il 12 agosto 1983 – è un tuo dogma personale – che a me fa
ORRORE, semplicemente”. Quinzio lo comprende e comprende soprattutto
l’orrore. Ma è convinto che la vita sia dalla parte del deserto della
fede, piuttosto che della fioritura dell’arte: “la bellezza ‘funziona’
come una compensazione, una trasposizione, un’elusione della vita. La
vita piena è quella alla quale si anela dal deserto dove si muore, come
all’acqua viva anela la cerva assetata” (280). E per questo il marxismo,
così come anche la psicanalisi e in generale tutti i grandi progetti
trasformativi ed emancipativi della modernità vanno letti, secondo
Quinzio, come eresie cristiane, riarticolazioni della sua radice
giudaica.
Atene e Gerusalemme è in fondo la
polarità dentro la quale si muove questa strepitosa corrispondenza. E se
Ceronetti si dichiara cittadino di Gerusatene, per Quinzio il
mondo si muove invece non nel pacificato incontro, ma nel conflitto
lacerante fra questi due poli. E quanto più il Cristianesimo si sposta
in direzione di Atene, tanto più si allontana da se stesso, dalla sua
radice ebraica. Atene, secondo Quinzio (e con Atene anche Ceronetti) è
il tentativo di “trovare consolazione al di là della storia, al di là
del tempo, al di là del finito, nella bellezza e nella morte
liberatrice”. Atene rimane indifferente all’idea della resurrezione dei
corpi. La vive come un’impossibilità logica e quindi anche reale. E non a
caso Ceronetti si dichiara inorridito dall’idea stessa della
resurrezione, ovvero da ciò nella cui attesa si trova invece per Quinzio
l’unica fonte di senso possibile per l’esistenza.
La visione radicalmente anticristiana
che Atene rappresenta è stata però, secondo Quinzio, introiettata e
fatta propria dal cristianesimo, che si è fatto così messaggio
essenzialmente spirituale (dimentico dei corpi) e dunque consolatorio,
ultraterreno. Diventando così molto più digeribile, affatto scandaloso,
tutto sommato ragionevole e rassicurante. Ma in questo movimento, nel
tentativo di non consumarsi nell’estenuante attesa del Regno, il
cristianesimo si è come trasformato nell’altro di se stesso, è diventato
la creatura bastarda di sé, si è fatto linguaggio neutro e sorridente,
buono per tutti, privo di tragedia.
“La Chiesa – scriveva Quinzio firmandosi Pietro II in quel testo formidabile che è la pseudoenciclica Mysterium Iniquitatis,
pubblicato sempre da Adelphi nel 1995 – ha lottato spesso, purtroppo
sospinta anzitutto da una cieca paura, contro l’ottimismo del progresso.
Ha tuonato a lungo contro l’idea prevalente nel mondo per cedere infine
per uno strano paradosso, proprio quando quell’idea rivelava oramai le
sue crepe e stava tentennando” – e il riferimento potrebbe essere qui
anche al Concilio Vaticano II ma più in generale a un ethos della religione cattolica che si è andato affermando nel corso degli ultimi decenni del Novecento
L’uomo moderno, tanto per Ceronetti,
quanto per Quinzio, è l’uomo che non ha bisogno di Dio. Ma se
l’antimodernismo ceronettiano è fortemente caratterizzato in senso
estetico, poetico e metafisico ed è legato alla possibilità di salvare
uno spazio del sacro come radice di senso ultima rispetto alla
distruzione di ogni senso rappresentato dal delirio tecnicistico,
l’antimodernismo quinziano è invece radicalmente tragico: egli vede nel
moderno la realizzazione anticristiana del cristianesimo, il suo
(necessario?) trasformarsi, per sopravvivere, in etica del mondo, in
messaggio universalistico, il suo inevitabile morire per potersi
salvare: La Chiesa – scrive ancora Pietro II in Mysterium Iniquitatis
– proprio in questi ultimissimi anni è stata spesso riconosciuta e
apprezzata nel mondo che in definitiva l’ha eletta maestra di vita
morale, maestra d’umanità. (…) La Chiesa ha dunque celebrato il suo
ultimo, apparente trionfo storico”. Ma questo trionfo è anche la grande
apostasia della Chiesa, che riduce ad etica la salvezza escatologica, e
ne fa un che di ragionevolmente umano. Per questo Pietro II si trova
costretto a scrivere che “La Chiesa di Cristo, che è suo corpo (cfr. Ef
1, 23) deve seguire la sorte di Gesù Cristo che ne è il capo (cfr. Ef 1,
22), deve cioè seguirlo nella morte, e come lui essere crocefissa nel
mondo”.
Viene da pensare a papa Francesco leggendo questo Epistolario.
4 luglio 2014
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