Ecco la
storia di Riccardo Perucolo, pittore veneto bruciato
dall'Inquisizione nel 1568
Massimo Firpo
Riccardo Perucolo. La cella del pittore eretico
Arrestato dall'Inquisizione a Conegliano nel 1567, e trasferito nelle terribili carceri veneziane dei Pozzi per essere processato, Riccardo Perucolo fu interrogato, torturato e condannato a morte l'anno dopo, nonostante all'ultimo momento si fosse dichiarato pentito e disposto ad abiurare. Già processato nel 1549, quando gli era stata comminata una pena tanto mite quanto umiliante, egli era un recidivo, un relapso, per il quale i sacri canoni prevedevano la sentenza di morte. Per risparmiargli le atroci sofferenze del rogo, gli fu concesso il privilegio di essere sgozzato prima di appiccare il fuoco.
Non ancora quarantenne,
schierato su posizioni calviniste, ma con inflessioni anabattiste,
Perucolo era un modesto "maistro" pittore di provincia che
poteva tuttavia compiacersi del fatto che le sue cose andassero
"prospere". Di lui si conservano solo alcuni fregi
decorativi a palazzo Sarcinelli nella sua città natale, sede della
bella mostra appena conclusa, «Un Cinquecento inquieto da Cima da
Conegliano al rogo di Riccardo Perucolo», a cura di Giandomenico
Romanelli e Giorgio Fossaluzza.
Quanto sappiamo della sua
vita e del suo tragico epilogo è stato raccontato nel 1995 in un
affascinante libro di uno storico dell'arte quale Lionello Puppi, Un
trono di fuoco. Arte e martirio di un pittore eretico del
Cinquecento, frutto di un'accurata ricerca d'archivio.
A riaprire il caso è
stata una scoperta fatta durante i lavori di restauro dei Pozzi, dove
in una delle celle, la n. X, sono venuti alla luce straordinari
graffiti: una Madonna con bambino tra san Rocco e san Sebastiano, una
Crocifissione tra san Benedetto e sant'Antonio abate sulle pareti e
un angelo sulla volta, che rivelano non comuni competenze
iconografiche e la mano di un esperto disegnatore.
Anche da altre antiche
prigioni (primo tra tutti lo Steri di Palermo), raschiando dalle
pareti i ripetuti strati di calce volti a preservare dalle epidemie
quei cupi antri umidi e maleodoranti, sono emerse le scritte e i
disegni dei carcerati: grida di rabbia, di pentimento, di
disperazione, di paura, di speranza, ultimi messaggi affidati al mare
della storia da vinti e reietti d'ogni tipo.
Ma nel caso della cella X
dei Pozzi si imponeva la qualità di alcune parti di quel graffito, e
soprattutto si imponeva la conoscenza del fatto che per oltre un mese
Perucolo era stato recluso in quel girone dantesco. Di qui la
decisione di Romanelli, allora direttore di Palazzo Ducale, di
riprendere la ricerca, il cui percorso è tuttavia approdato non
tanto a nuovi documenti quanto a un'intensa partecipazione emotiva
alla drammatica vicenda attestata da quell'ultimo abbozzo di affresco
per cercare di capirne il significato.
Ne è scaturito un
romanzo, tutto incentrato su personaggi e fatti reali, ma rievocato
in punta di penna per tracciare i paesaggi, gli ambienti, i profili
umani che accompagnarono la vita di Riccardo Perucolo. L'ex vescovo
di Capodistria Pier Paolo Vergerio, per esempio, di cui egli
custodiva una "scrittura", impegnatosi in una vigorosa
riforma della diocesi che aveva accompagnato la sua evoluzione
dottrinale in senso riformato, fino alla fuga in Svizzera nel 1549,
proprio mentre il pittore di Conegliano incappava per la prima volta
nei rigori del Sant'Ufficio; oppure Giovanni Della Casa, il nunzio a
Venezia (e in quanto tale inquisitore deputato a procedere contro
l'oscuro pittore di Conegliano) la cui mancata nomina cardinalizia a
causa di comportamenti e scritti moralmente discutibili sarebbe stata
causa di disillusioni e amarezze sulle quali Romanelli indaga in
pagine penetranti.
C'è un punto però
che a mio giudizio resta irrisolto, un punto cruciale e tutt'altro
che eluso dall'autore, che si chiede esplicitamente come fosse
possibile "che un lutheran dipingesse dei santi", anche
perché nel 1547, chiamato ad affrescare la loggia del palazzo
pretorio di Conegliano lo stesso Perucolo (come spesso gli capitava)
non era stato capace di tenere a freno la lingua con i passanti che
gli chiedevano che cosa stesse dipingendo: «Qua voio far doi
santacci – era sbottato – che le persone crede che i siano in
paradiso, che forse sono a casa del diavolo a scaldarse i piè».
Sin dalle origini del
resto la Riforma protestante aveva polemizzato aspramente contro le
immagini sacre, sia con libri e libelli sia con violente campagne
iconoclaste. Anche per questo in quei convulsi decenni non era
affatto facile fare il pittore e professare dottrine ereticali, vista
l'assoluta prevalenza della committenza di soggetti religiosi, la cui
raffigurazione comportava il rischio di diventare servi del demonio e
strumenti dell'Anticristo.
Di qui i miei dubbi sul
fatto che l'autore di quei graffiti, Perucolo o altri che fosse, vi
esprimesse il suo "insopprimibile e tragico bisogno di libertà",
ricorrendo "a delle figure che non gli imponessero un'abiura
morale, che non toccasero quel che aveva di più caro, la sua dignità
e la sua fede. Né santi né santacci, non Cristofori o cavalieri di
fantasia, bensì Nostra Signora e santi protettori e guaritori,
sofferenza e riscatto: salvezza, infine", come scrive Romanelli.
In realtà, proprio
intorno alle immagini dei santi, e in particolare di quei santi
protettori e guaritori, ai loro miracoli e alle loro grazie, si
coagulava una miriade di culti superstiziosi e apotropaici sfruttati
da un clero ignorante e corrotto per trarre profitto da una devozione
popolare alimentata dai timori, dalla perenne precarietà, dalle
sovrumane fatiche di vite sempre ai limiti della sopravvivenza ed
esposte senza difese a malattie e carestie.
Mi sembra quindi più
probabile che le devote immagini tracciate sulle pareti di quella
cella da Riccardo Perucolo (se davvero egli ne fu l'autore) fossero
piuttosto un ultimo, disperato tentativo di sottrarsi al patibolo
dimostrando il suo pentimento e la sua volontà di tornare in seno
alla Chiesa di Roma: una sorta di abiura visiva, insomma, volta a
corroborare la confessione di fede del tutto ortodossa da lui
sottoscritta alla fine dei suoi giorni.
Il che non esclude
ovviamente che nel segreto del cuore egli continuasse a professare le
sue eresie: ma lo storico deve necessariamente arrestarsi su questa
soglia dell'anima, valicabile invece da chi ha scelto la strada della
narrazione romanzesca con tutta la libertà che essa consente.
il Sole24 ore – 6
luglio 2014
Giandomenico Romanelli
Il pittore prigioniero
Marsilio, 2014
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