09 luglio 2014

QUANDO SI BRUCIAVANO GLI ERETICI





  Ecco la storia di Riccardo Perucolo, pittore veneto bruciato dall'Inquisizione nel 1568

Massimo Firpo


Riccardo Perucolo. La cella del pittore eretico


Arrestato dall'Inquisizione a Conegliano nel 1567, e trasferito nelle terribili carceri veneziane dei Pozzi per essere processato, Riccardo Perucolo fu interrogato, torturato e condannato a morte l'anno dopo, nonostante all'ultimo momento si fosse dichiarato pentito e disposto ad abiurare. Già processato nel 1549, quando gli era stata comminata una pena tanto mite quanto umiliante, egli era un recidivo, un relapso, per il quale i sacri canoni prevedevano la sentenza di morte. Per risparmiargli le atroci sofferenze del rogo, gli fu concesso il privilegio di essere sgozzato prima di appiccare il fuoco.

Non ancora quarantenne, schierato su posizioni calviniste, ma con inflessioni anabattiste, Perucolo era un modesto "maistro" pittore di provincia che poteva tuttavia compiacersi del fatto che le sue cose andassero "prospere". Di lui si conservano solo alcuni fregi decorativi a palazzo Sarcinelli nella sua città natale, sede della bella mostra appena conclusa, «Un Cinquecento inquieto da Cima da Conegliano al rogo di Riccardo Perucolo», a cura di Giandomenico Romanelli e Giorgio Fossaluzza.

Quanto sappiamo della sua vita e del suo tragico epilogo è stato raccontato nel 1995 in un affascinante libro di uno storico dell'arte quale Lionello Puppi, Un trono di fuoco. Arte e martirio di un pittore eretico del Cinquecento, frutto di un'accurata ricerca d'archivio.


A riaprire il caso è stata una scoperta fatta durante i lavori di restauro dei Pozzi, dove in una delle celle, la n. X, sono venuti alla luce straordinari graffiti: una Madonna con bambino tra san Rocco e san Sebastiano, una Crocifissione tra san Benedetto e sant'Antonio abate sulle pareti e un angelo sulla volta, che rivelano non comuni competenze iconografiche e la mano di un esperto disegnatore.

Anche da altre antiche prigioni (primo tra tutti lo Steri di Palermo), raschiando dalle pareti i ripetuti strati di calce volti a preservare dalle epidemie quei cupi antri umidi e maleodoranti, sono emerse le scritte e i disegni dei carcerati: grida di rabbia, di pentimento, di disperazione, di paura, di speranza, ultimi messaggi affidati al mare della storia da vinti e reietti d'ogni tipo.



Ma nel caso della cella X dei Pozzi si imponeva la qualità di alcune parti di quel graffito, e soprattutto si imponeva la conoscenza del fatto che per oltre un mese Perucolo era stato recluso in quel girone dantesco. Di qui la decisione di Romanelli, allora direttore di Palazzo Ducale, di riprendere la ricerca, il cui percorso è tuttavia approdato non tanto a nuovi documenti quanto a un'intensa partecipazione emotiva alla drammatica vicenda attestata da quell'ultimo abbozzo di affresco per cercare di capirne il significato.

Ne è scaturito un romanzo, tutto incentrato su personaggi e fatti reali, ma rievocato in punta di penna per tracciare i paesaggi, gli ambienti, i profili umani che accompagnarono la vita di Riccardo Perucolo. L'ex vescovo di Capodistria Pier Paolo Vergerio, per esempio, di cui egli custodiva una "scrittura", impegnatosi in una vigorosa riforma della diocesi che aveva accompagnato la sua evoluzione dottrinale in senso riformato, fino alla fuga in Svizzera nel 1549, proprio mentre il pittore di Conegliano incappava per la prima volta nei rigori del Sant'Ufficio; oppure Giovanni Della Casa, il nunzio a Venezia (e in quanto tale inquisitore deputato a procedere contro l'oscuro pittore di Conegliano) la cui mancata nomina cardinalizia a causa di comportamenti e scritti moralmente discutibili sarebbe stata causa di disillusioni e amarezze sulle quali Romanelli indaga in pagine penetranti.




C'è un punto però che a mio giudizio resta irrisolto, un punto cruciale e tutt'altro che eluso dall'autore, che si chiede esplicitamente come fosse possibile "che un lutheran dipingesse dei santi", anche perché nel 1547, chiamato ad affrescare la loggia del palazzo pretorio di Conegliano lo stesso Perucolo (come spesso gli capitava) non era stato capace di tenere a freno la lingua con i passanti che gli chiedevano che cosa stesse dipingendo: «Qua voio far doi santacci – era sbottato – che le persone crede che i siano in paradiso, che forse sono a casa del diavolo a scaldarse i piè».

Sin dalle origini del resto la Riforma protestante aveva polemizzato aspramente contro le immagini sacre, sia con libri e libelli sia con violente campagne iconoclaste. Anche per questo in quei convulsi decenni non era affatto facile fare il pittore e professare dottrine ereticali, vista l'assoluta prevalenza della committenza di soggetti religiosi, la cui raffigurazione comportava il rischio di diventare servi del demonio e strumenti dell'Anticristo.

Di qui i miei dubbi sul fatto che l'autore di quei graffiti, Perucolo o altri che fosse, vi esprimesse il suo "insopprimibile e tragico bisogno di libertà", ricorrendo "a delle figure che non gli imponessero un'abiura morale, che non toccasero quel che aveva di più caro, la sua dignità e la sua fede. Né santi né santacci, non Cristofori o cavalieri di fantasia, bensì Nostra Signora e santi protettori e guaritori, sofferenza e riscatto: salvezza, infine", come scrive Romanelli.

In realtà, proprio intorno alle immagini dei santi, e in particolare di quei santi protettori e guaritori, ai loro miracoli e alle loro grazie, si coagulava una miriade di culti superstiziosi e apotropaici sfruttati da un clero ignorante e corrotto per trarre profitto da una devozione popolare alimentata dai timori, dalla perenne precarietà, dalle sovrumane fatiche di vite sempre ai limiti della sopravvivenza ed esposte senza difese a malattie e carestie.

Mi sembra quindi più probabile che le devote immagini tracciate sulle pareti di quella cella da Riccardo Perucolo (se davvero egli ne fu l'autore) fossero piuttosto un ultimo, disperato tentativo di sottrarsi al patibolo dimostrando il suo pentimento e la sua volontà di tornare in seno alla Chiesa di Roma: una sorta di abiura visiva, insomma, volta a corroborare la confessione di fede del tutto ortodossa da lui sottoscritta alla fine dei suoi giorni.

Il che non esclude ovviamente che nel segreto del cuore egli continuasse a professare le sue eresie: ma lo storico deve necessariamente arrestarsi su questa soglia dell'anima, valicabile invece da chi ha scelto la strada della narrazione romanzesca con tutta la libertà che essa consente.


il Sole24 ore – 6 luglio 2014


Giandomenico Romanelli
Il pittore prigioniero
Marsilio, 2014






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