11 luglio 2014

ALIMINUSA NELLA POESIA DI PINO BATTAGLIA

Il Monte San Calogero da Aliminusa (foto SdM, 2013)





                                                                                                                   
                                                     
 L'àriu abballa sulu e 'mpurrazza
spacchiu; aggarbizzatu
splenni lu sènsiu di lu lòchiru,
abbutta, e sprucchia l'àriu.


L'aria balla sola e porta
seme; ben in ordine
splende la ragione del luogo,
vanagloria , e abortisce l'aria.



 Giuseppe Giovanni Battaglia,
                                                  Fantàsima, 1991


Leonardo Sciascia nella prefazione a “La piccola valle di Alì”, una delle più belle raccolte del poeta, scrive: «Quello che mi ha interessato di più è il dialetto, un dialetto integrale e lontano come restituzione alla memoria, all’infanzia, alla vita dei nostri paesi».

La poetica di Battaglia si fa spazio tra la sua forte identità di cultura contadina e la sua difficile assimilazione del mondo urbano; non ci sono pregiudiziali chiusure, ma se Battaglia prende la strada della città, il suo cuore resta legato alla sua terra e, con essa, ai suoi volti, alla sua religione e ai suoi riti, al canto dei suoi uccelli, al profumo dei suoi fiori e al vento che tutto scuote ed accarezza; però, la città è dura più di quanto non sia faticoso il lavoro in casa della madre ed il lavoro del padre nelle stagioni di semente e di raccolta; e l’artista fa la spola tra una città che promette ma non mantiene, e un paesino che non promette perché ha già dato, ma richiede tempo per apprezzare i suoi doni”.  

Don Cosimo Scordato



Soprana
Alto è il monte e un vento spira
Che porta odori di buone erbe;
qui né santuari né passi d’uomo,
ma di suoni armonie e d’uccelli
certezza di canto. Nella grande
valle il tempo riunito; l’uno è
l’erba, la sentenza è pronunziata;
per dimorare è la pietra,
è per radicarsi l’albero.


La terra ia vascia

La terra ia vascia,
 vascia Signuri,
e si zappa calatu;
suduri e suduri
ca ia megghiu la morti
Un ia iocu zappari
si la terra ia vascia
e lu zapponi‘un sciddica,
si la notti lu viddanu
si sonna a zappari
sempri la terra vascia
da La piccola valle di Alì



Nota di Granetto per Poesie '79/86
(per approfondire vedi anche  il sito web:
 
http://www.gnomiz.it/nexus/arte00/xx55.htm


Perché Sciascia amava la poesia di Battaglia, definita da Ulivi "sacrale"? Forse perché, in Battaglia, si cela il segreto di tramutare le pause nel luogo dove un angelo illumina lo spazio, fra parole dicibili solo per allusione. In Montale l'enigma dell'indicibilità del "punto morto del mondo" fra crescere il nichilismo del "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", un Musil nel "punto vuoto" ci è concesso perderci, ma non ritrovarci, Battaglia, invece, si scarta fin dall'inizio, per lasciare germogliare la grazia, l'amore, il profumo, il sapore di una rosa: la rosa di Paracelso. La ragione nella sua finitudine ammutolisce, il cuore s'illumina d'immenso, inondando di luce anche chi ha fatto del dubbio una religione.
Tesio scrive della poesia di Battaglia come di un "viaggio conoscitivo e simbolico che traduce l'avventura gnoseologica della mente ", ma in questi versi c'è qualcosa di più ineffabile della tracotanza umana del conoscere, c'è il dimenticarsi, l'azzerarsi, l'umiltà e il timor di Dio; l'immortalità contemplativa che ripete"ieraticamente lo stesso gesto fissato una volta per tutte" (Squarotti).
Sciascia e Pasolini compresero il demone tragico di questa poesia in forma di lotta fra dimenticanza-lontananza dell'autore e accettazione cristiana della persona, della materia, della natura, come doni divini. Battaglia fa del sacro di se stesso, sacrum facere (sacrificio) e a noi non resta che amarlo.
Giuseppe Giovanni Battagliasette poesie per i sette quadri della Genesi (1986 - 1987)

Luigi Granetto: Il primo e il quinto giorno della genesi (200X180 cm.)  nello studio romano 1986
Luigi Granetto: Il primo e il quinto giorno della genesi (200X180 cm.)  nello studio romano 1986
"La Genesi, in seguito diventata la prima sala del "Il Trono Vuoto", ha rappresentato per me qualcosa di analogicamente vicino all'impegno di un musicista nella composizione di un requiem: una testimonianza laica dell'ordine concettuale che rende possibile concepire l'unità. L'idea di dipingere i sette quadri della creazione del mondo, reprimendo in me l'idea del ridicolo che una tale impresa poteva far scaturire, mi venne dopo un incontro, a Firenze, con il vecchio Chagall. Quel mito vivente, che ebbe in dono dal suo Dio la tracotanza dell'eterna giovinezza, non si dava pace nell'affermare una presunta limitatezza della pittura yiddish, rispetto alle possibilità polisense della tradizione rinascimentale italiana. Un po' scherzando, un po' sul serio, Chagall s'atteggiava a povero ebreo errante, incapace di capire il proprio personale successo per aver dipinto un epica minore di un popolo di così scarsa importanza..! Fu in quel clima ironico che mi invitò a lasciar perdere "l'intelligenza non intelligente" dei pittori troppo critici, sempre in crisi, sempre affettati, specialmente quando si mascherano di un impossibile rigore, mi invitò a riprendere il contatto con me stesso e con la "forza della tradizione". Chagall mi disse che non bisognava dar troppa importanza al potere del linguaggio fino a quando non si aveva qualcosa di importante da dire. Fu una lezione di leggerezza e di dannazione nello stesso tempo: così capita a chi va in cerca di maestri invece di darsi alla bella vita." Giuseppe Giovanni Battaglia.

 
Primo giorno
L'arido regni dov'è terra e l'oscuro dov'è cielo,
luce dia dunque risalto alla mia luce
affinché io possa definire il mio contrario.
Il giorno sia del puro e sia dominio,
la notte del perso nel proprio equivoco.
 Secondo giorno
Somma e chiara azzurro le dia senso e generi
sapienza e mancamento. Leggera e passiva
sia principio e patria ma d'essa provenga
perdita e allontanamento. Limpida s'incanti
per nutrizione e torbida avvolga disamore.
 Terzo giorno
L'asciutto sia allora attraversato da vene
sotterranee e sorgenti, ma l'acqua sia il mare.
La Terra germogli e sia della sapienza
specchio e deformazione; inferma, sacrifichi
di suo andare per istruimento.
Quarto giorno
Dal sole e la luna consegua generazione
e corruzione. Sia il tempo, e sia una scatola
chiusa dove chiara e torbida è l'aria.
Vengano contati i giorni per innalzamento e caduta
e i luminari mi siano di presidio e mutamento.

Quinto giorno

Vaghino gli animali d'acqua nel molle ventre
della passiva luna e gli animali d'aria
negli antri del sole. A ciascuno il suo
affinché da corrispondenze e dissimilazioni
consegua significato e svotamento.
Sesto giorno
Vengano gli animali dell'asciutto e dimora
abbiano e nocumento. Sia l'uomo e sia Uno,
maschio e femmina affinché abbiano
dominio e mancamento; d'altezze
s'inebrino per emendamento.

Settimo giorno
(sospensione)
M'abbandono, e mi dona altra vaghezza
il perdurare nell'umido e nel secco.

Da: Presentazione e mostra delle opere dedicate alla notte alla Galleria Daverio di Milano, alla libreria "La Conchiglia" di Capri e alla Galleria "La Steccata" di Punta Ala Napoli Marotta & Marotta, 1991.

Notte Trasfiguratadell'imponderabilità e dei contrari fra lume spento e iridescenze, colori evocati e parole dimenticate per l'anima viandante di Alessandro Masi, opere di Luigi Granetto, poesie di Giuseppe Giovanni BattagliaE' una poesia che ritrova le proprie ragioni nella terra del rumore ovattato, nello schianto della sorpresa, nell'attesa della meraviglia. E' una notte speciale questa! Dunque, finalmente ritrovata nel segno del suono e della luce. E' una notte trasfigurata dall'incanto e dalla magia. Riscovata nel pozzo dei desideri inespressi, negli anfratti vorticosi dell'infanzia, nelle promesse prime e nei bisbigli de vento. E' una notte italiana.
"Dov'è il volto della notte? Di quella notte sfregiata, trasfigurata, smarrita, confusa dietro il ballo tragico del nostro tempo? Notte di magia, di alchimia. Notte di precipizio e di volo. Notte d'amore e notte di speranza. Dov'è più quel volto? E' fuggito con le ultime lucciole o si è celato dietro l'ora antelucana di un'alba di ansia e di paura? Prossimi al nuovo millennio e ancora più vicini alla luce, invochiamo segni di libertà, rivendichiamo il diritto dio esistere per vedere i colori del buio. Come ciechi barcolliamo dietro i nostri sogni ricolmi di frutti incestuosi, ricadendo nei nostri desideri, inciampando nella vanità del nostro sguardo riflesso. I nostri sogni non sorgono dal grembo delle stagioni (Montale).

I nostri sogni non generano che sogni, proprio come la pittura. Essi si espandono come macchie azzurrate da incanti lontani, scendono e colano lungo i margini della nostra innocenza, ritrovano antichi percorsi, fiutano il giusto, vivono di luce. I sogni abitano la notte come figli di un tempo denza dio. Vagano le oscurità, rantolando e raccogliendo briciole di stelle, riponendo sussurri di lune, accovacciandosi tra le tenebre trafitte.

Non altra scelta, né altri richiami potevano essere fatti oltre a quelli che - dando vita a questa collana - hanno saputo generare due tra i maggiori proptagonisti della cultura creativa italiana ndi questa piega di tempo: Luigi Granetto pittore e Giuseppe Giovanni Battaglia poeta. Due artisti per la notte. abitatori di illusioni. Creatori di simboli strani. un connubio perfetto, quasi osmotico si direbbe, guardando quanto è stato prodotto. uno conficcato nell'altro, uno riflesso dell'altro. Entrambvi deposti sull'orlo di un precipizio lirico, quasi una voragine di parole, di segni, di colori. La pittura di Granetto si avvita nell'incavo buio del tema come la poesia di Battaglia ai suoi segni.

Vive in loro il ritmo di un gesto che non è. e mai vorrebbe esserlo, misura e ordine di tutte le cose, la loro notte è un passaggio delicato tra la luna ed il cielo. E' unja notte fatta di odori, di incespicamenti amorosi che si consumano tra orizzonti di luci, tra erbe e paesaggi italiani. E' una notte speciale, pensata e vissuta nello scenario della memoria ancora intatto, maculato di stelle, limpido e tragico nel contempo.

Uno scenario pre-pasoliniano, spuntato per rabbia e per dolcezza, per ardimento e per paura. Queste dieci tele sono finestre apertye tra i campi in una notte d'agosto. I loro colori sono mantelli riavvolti di luci, percorsi da fremiti e piccoli gesti simili a mille riflessi di cielo. Sono racconti al minimo, segnati da evanescenze e luccichii lontani. Non c'è metafora perché qui tutto è intatto, simile al verosimile, prossimo nalla nostalgia e alla trasfigurata realtà. e in questo gioco delle apparenze ridiventa possibile ogni cosa, che una luna parli, che una donna sia simile a un fiore, che cascate iridiscenti di colore si riversino sul mondo fino a farlo traboccare di felicità, che buio sia luce. Mai come in opere come queste, il cui tema sacrifica ogni ornamento, si è generato il sacro fuoco della luce, quella meteora scintillante - quasi un guizzo - che da cosa passa a cosa, da luogo na luogo, da segno a segno. Come un angelo il suo sguardo sorvola tutto, imprigionando ogni segmento di spazio, corrugando materie, ritorcendo spessori, costringendo il suo gesto lungo il bordo felice di una penombra. La sua notte è quella mitica e sorgiva in cui la storia si rannicchia non per timore, ma per assoluto incontenibile, generando con sé e dopo di sé soltanto bave di colore, strisce tremule.

E in questa prospettiva, la poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia - come la già citata pittura di Granetto - diviene epifania di nuovi segni, di nuovi segmenti di vita. La sua parola cadenza l'ultimo rito del suono, quello prossimo al volo, aderente e fuggente il testo. La sua notte palpita di ricordi, alita lune ed amori, si insinua lentamente nell'universo fino a farne scintillìo polveroso ed astratto. E' come una musica che vive di frazioni di colore, che si nutre di timbri, che si articola in dissonanze ed assonanze."

(Alessandro Masi, 1991)

FONTE: http://www.parchiletterari.com/parchi/giuseppe-giovanni-battaglia/

Nessun commento:

Posta un commento