La Germania e noi
di Franco Buffoni
1. Una trentina di anni fa, quando
ancora scorrazzavo per l’Europa in macchina, mi accadde un significativo
episodio su un’autostrada tedesca. Percorrevo il breve tratto tra Bonn e
Colonia, dove ero atteso all’Istituto Italiano di Cultura; ed ero in
ritardo per via di un malinteso sull’orario. Guidavo allora una BMW 320 a
iniezione, una vettura – guarda caso – tedesca, che in condizioni di
assoluta sicurezza consentiva velocità molto elevate. Mi portai in
corsia di sorpasso e pigiai sull’acceleratore: certamente viaggiavo
oltre il limite consentito su quel tratto autostradale. Ad un tratto una
Mercedes che avevo superato, d’impeto mi si fece vicinissima con i fari
abbaglianti sgranati costringendomi a farmi da parte. Dopo avermi
risuperato, la Mercedes rallentò fino a rientrare nella velocità
consentita, ma senza lasciare la corsia di sorpasso. Impedendomi fino a
Colonia di consumare la mia infrazione.
All’autista della Mercedes non avevo
arrecato alcun disturbo, l’uomo non era in divisa, non era un tutore
dell’ordine, era un comune cittadino. E se proprio vogliamo parlare di
rischio, la sua manovra era stata molto più azzardata della mia. Ma
l’aveva compiuta per farmi rispettare la legge. Sentendosi perfettamente
virtuoso.
Questo episodio mi insegnò molte più cose sul carattere tedesco di un intero trattato di sociologia.
2. Negli anni settanta e ottanta,
malgrado questa ed altre piccole disavventure dello stesso segno, la
Repubblica Federale Tedesca era comunque il paese straniero dove
soggiornavo più volentieri. Trovavo i ragazzi tedeschi più maturi e
consapevoli rispetto a quelli inglesi e francesi, coi quali pure avevo
modo di rapportarmi spesso. Mi faceva invece abbastanza paura l’Austria,
dove non vedevo in atto alcun processo di revisione critica del
passato: una sensazione poi confermata dall’elezione di Waldheim alla
presidenza e dalla successiva difesa a oltranza di quella scelta da
parte della nazione tutta.
In Germania, no. Nei miei amici coglievo
sempre un senso di consapevolezza rispetto al passato: non
necessariamente mite, ma ferito sofferente. E da Adenauer fino a Schmidt
a Kohl riconoscevo nei comportamenti dei cancellieri il bisogno comunque di credere sinceramente nell’Europa.
Quel qualcosa da farsi perdonare che i
tedeschi profondamente sentivano – e io stando tra loro percepivo – fece
molto bene al processo di integrazione europeo, e trovò un degno
coronamento nell’atteggiamento squisitamente politico di Kohl nei
confronti di Ciampi e Prodi, quando si trattò di favorire l’entrata
dell’Italia nell’euro insieme agli altri paesi fondatori dell’unione.
3. In seguito all’entrata nell’euro, le
politiche economiche e sociali italiane sono state esecrabili, con la
totale rinuncia a compiere per tempo le necessarie riforme. Abbiamo
tergiversato in modo ignobile e probabilmente avremmo continuato a
traccheggiare, se non fossimo stati costretti ad agire in modo drastico
nel novembre del 2011.
Immonda è stata anche l’incapacità di
alcune regioni italiane ad acquisire i fondi europei. Perché sui fondi
europei non si può imbrogliare: occorre presentare progetti coerenti e
verificabili, con articolazioni concettualmente serie e motivazioni realmente al
servizio del territorio e dei cittadini. Se l’unico obiettivo è
l’arricchimento personale o clanistico, i fondi europei – come una
calamita usata al contrario – si allontano inderogabilmente.
Trovo anche piuttosto repellente
lamentarsi dell’euro oggi,come se qualcuno ci avesse obbligati ad
entrare nell’Unione Europea e a cambiare moneta. O forse l’entrata
nell’euro – allora – venne vista da certuni come la panacea per il
nostro debito? E magari come il mezzo per poter continuare con le
vecchie politiche lassiste senza dover fare i conti (in senso
letterale)…
Reputo infine meschino e marionettistico
– degno del paese di Arlecchino e Pulcinella – prendersela con paesi
meno corrotti, più efficienti e meglio organizzati del nostro, in grado
di erogare ai propri cittadini servizi migliori e a prezzi più
contenuti. Al riguardo mi piace citare una riflessione del grande
filologo Graziadio Isaia Ascoli tratta dal Proemio al primo volume dell’Archivio glottologico italiano (1873):
“S’invidia ai Tedeschi, non già un ingegno privilegiato, non già una
dottrina che in ogni parte sodisfaccia, ma quel felicissimo complesso di
condizioni, mercè il quale nessuna forza rimane inoperosa e nessuna va
sprecata, perché tutti lavorano, e ognuno profitta del lavoro di tutti, e
nessuno perde il tempo a rifar male ciò che è già fatto e fatto bene.
S’invidia la densità meravigliosa del sapere, per la quale è assicurato,
a ogni funzione intellettuale e civile, un numeroso stuolo di
abilissimi operaj”. Trent’anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1907,
Graziadio Isaia Ascoli sarebbe stato definito un italiano di “razza”
ebraica.
4. Ammesse le nostre colpe, ricordàti i
nostri peggiori difetti, con pari franchezza devo aggiungere che
l’atteggiamento dell’attuale cancelliera tedesca nei confronti
dell’Europa – dell’idea politica di Europa – è quanto di più miope e
controproducente si possa concepire. Il distacco psicologico e morale
rispetto a Kohl mi pare incolmabile. Certo, mi si può rispondere, prima o
poi la Germania doveva pur uscire dal senso di colpa. Ma per ritornare
alla miope arroganza di sempre? Per dare ragione a Adenauer che definì i
tedeschi “pecore carnivore”? Magari nominando un governatore della
Bundesbank biondo e giovane, che solo per sguardo e tratto somatico,
mentre depreca stizzito l’operato di Draghi a favore dell’Europa unita,
ricorda al resto d’Europa altri giovani biondi dal berretto rigido,
stizziti per la lentezza con cui i loro ordini venivano eseguiti…
Molto più delle mie parole valgano
quelle dell’ex ministro degli esteri tedesco Fischer, che nel 2012,
valutando l’atteggiamento di Merkel nei confronti dell’Unione,
sentenziò: “Con queste politiche, e soprattutto con questo approccio
solo economico-finanziario ai problemi politici, la Germania rischia di
affossare l’intera Europa per la terza volta in un secolo”.
5. La questione non riguarda soltanto i
cosiddetti PIGS – Portogallo, Italia, Grecia, Spagna – ma anche la
Francia, che ha bisogno di rilanciare le proprie esportazioni tanto
quanto l’Italia. Purtroppo sia per la Francia, sia per l’Italia, il
primo mercato è quello tedesco, con i suoi ottanta milioni di
consumatori. Purtroppo: perché Merkel continua ostinatamente a
perseguire un modello di crescita (tedesca) trainato dall’export
(tedesco): un modello che inevitabilmente finisce col soffocare
l’economia francese, italiana, greca ecc.
Allargando lo sguardo all’universo
globo, è palese come vi sia uno squilibrio tra paesi che consumano
troppo, come gli Stati Uniti, e paesi che risparmiano troppo, come la
Cina, il Giappone, e per l’appunto la Germania. Ma non si può pretendere
che il riequilibrio avvenga solo da una parte. Così come è vero che
certi paesi devono imparare a risparmiare di più, altri paesi dovrebbero
favorire un incremento dei propri consumi. Una maggiore propensione a
consumare che dovrebbe tradursi in un aumento delle importazioni. Ma
questo è proprio ciò che la Germania guidata da Merkel non fa e non
vuole fare.
Non si può pretendere che il
riequilibrio avvenga solo da una parte, perché se tutti i paesi
facessero come la Cina, il Giappone o la Germania – puntando fortemente
al risparmio e all’attivo della propria bilancia commerciale – dovremmo,
come umanità complessivamente intesa, cercare di avere un saldo attivo
con qualche altro popolo extraterrestre.
Se questa riflessione può valere per la
Cina e il Giappone nei confronti degli Stati Uniti, a maggior ragione
vale per la Germania nei confronti dei PIGS, che hanno la sua stessa moneta,
e che dunque si trovano con le spalle al muro, impossibilitati come
sono a incrementare le loro esportazioni svalutando – come avveniva in
passato – le monete nazionali. Ma con le agenzie internazionali di
rating che li giudicano come se fossero entità autonome e indipendenti,
affossandone ulteriormente ogni possibilità di ripresa.
La pretesa tedesca di ergersi a modello
per l’intera Europa è dunque solo il frutto miope di una meticolosa
arroganza, che contrasta nettamente con il senso profondo dell’unità
europea, e anche – in ultima analisi – con gli stessi interessi
tedeschi, se visti in prospettiva.
In altri termini, e ormai da anni, la
Germania di Merkel non solo non favorisce la crescita dei PIGS,
imponendo loro politiche di austerità che ne deprimono i consumi
interni, ma irresponsabilmente non ne incoraggia le esportazioni. Dando
purtroppo ragione alla sconsolata analisi di Fischer e alla sferzante
definizione di Adenaeur.
6. Se davvero si mirasse ad una Europa
unita anche nelle politiche di difesa; se si capisse che avendo la
stessa moneta il processo di integrazione economico è ormai
irreversibile e deve essere solo favorito nell’interesse di tutti (un
interesse magari non a breve, ma certo a medio e a lungo termine),
l’unica politica economica seria da favorire sarebbe quella della messa
in comune del debito europeo, con emissione di obbligazioni garantite
dalla banca centrale.
A chi obiettasse che sto solo aprendo il
libro dei sogni, rispondo che questo atteggiamento lungimirante nei
confronti dei debiti (delle colpe?) dei deboli è già stato tradotto in
pratica in Europa, e proprio a favore della Germania: nel 1945.
Per non ripetere l’errore commesso nel
1919, quando l’allora impero tedesco venne soffocato dai debiti di
guerra, nel 1945 si indisse una conferenza internazionale che in pratica
cancellò i debiti della Germania, permettendole di riprendersi in pochi
anni dal disastro e di rifiorire economicamente.
Proprio a questo è chiamata la Germania
oggi: ad essere lungimirante nei confronti dei deboli PIGS, come lo
furono le potenze vincitrici del 1945 nei suoi confronti; a non
continuare a comportarsi da miope, magari ricordando che il difetto di
miopia delle potenze occidentali nei suoi confronti nel 1919 non fece
che favorire l’ascesa al potere del nazionalsocialismo.
7. Odio e amore, dunque, da parte mia
nei confronti dell’immenso territorio che sta sopra la mia testa. E
sopra quella della mia famiglia. Mio nonno Francesco Buffoni aveva
fondato – recandosi personalmente in Prussia ad acquistare le macchine –
uno dei primi ricamifici a Gallarate, nel 1910. Ma poi, sergente nella I
Guerra Mondiale, per i postumi dei gas nervini austriaci, dal 1924
restò paralizzato su una sedia a rotelle. Morì nel 1944, mentre suo
figlio Piero – mio padre – tenente di fanteria nella II Guerra Mondiale,
si trovava nel Lager di Oberlangen, dove trascorse due anni sempre
rifiutandosi di firmare per la Repubblica di Salò: aveva giurato fedeltà
al re, mai avrebbe accettato di riacquistare la libertà passando alla
“repubblica”, come scrive nel suo diario.
Sfuggì una frase a mio padre nei primi
anni Sessanta, mentre il giornale-radio dava notizia dell’ennesimo
assassinio di fuggitivi da Berlino Est. Alla mia domanda di scolaretto
“I Vopos, le guardie di frontiera che sparano dalle torrette del Muro,
sono russe?”, mio padre – che della sua esperienza non faceva mai parola
– bofonchiò: “Se fossero russe non prenderebbero così bene la mira”.
8. Io sono stato decisamente più
fortunato di mio padre e di mio nonno: quando compii vent’anni, nel
1968, ero studente alla Bocconi. Ma feci a tempo a conoscere le guardie
di frontiera tra le due Germanie. Nel 1973 rientravo in Italia da
Edimburgo – dove mi ero trasferito per continuare gli studi – con la mia
128 gialla targata Varese e comprata a rate. Cambiavo ogni volta
itinerario: quell’anno presi la nave da Leith a Copenaghen, mi fermai ad
Amburgo e poi decisi di visitare Berlino Ovest scendendo a Sud
attraverso Lipsia e Monaco. Giunto in località Ludwiglust entrai nel
territorio della DDR. Era il tramonto: fotografie di fronte e di
profilo, permesso di transito. Non feci molto caso a ciò che stava
scritto su quel foglio. Ripartii baldanzoso, ma non avevo fatto i conti
con la strada, che subito dopo la frontiera divenne stretta e
accidentata: in pratica era rimasta quella del tempo di Weimar o al più
di Hitler. Alle otto di sera capii che non ce l’avrei fatta a
raggiungere Berlino Ovest per cena come avevo previsto. Mi fermai in una
Gasthaus molto modesta. Dopo cena, stanco, chiesi una stanza per la
notte. Al mattino ripartii e in un paio d’ore raggiunsi il confine.
Avevo un permesso di transito di sei ore. Dove e con chi avevo trascorso le altre dieci?
Auto, passaporto e bagaglio requisiti, stringhe delle scarpe sequestrate: in cella.
Alle tre del pomeriggio un ufficiale mi
interroga: ripeto la nuda e cruda verità già detta al mattino ai
graduati: avevo fame ed ero stanco, mi sono fermato a dormire. Dovevo
dimostrarlo. E lì mi salvò l’amore per la lettura: mi ricordai che al
Frühstück stavo leggendo Rilke e che probabilmente la ricevuta della
Gasthaus era rimasta nel libro. Dal bagaglio requisito riapparvero le Elegie duinesi. Telefonata, conferma, rilascio con rimprovero severo: “Das ist sehr unmoralisch”.
9. Nel 1970 ero a Londra, a studiare
nella biblioteca del British Museum, e lì conobbi Rainer, un coetaneo
tedesco, che oggi esercita come psicanalista a Berlino. Per un paio
d’anni fummo molto legati, con alterne vicende e alcune mie visite a
Colonia dove abitava. Dieci anni dopo la conclusione del nostro
rapporto, Rainer mi contattò chiedendomi per favore di rispedirgli tutte
le numerose lettere che mi aveva scritto in quei due anni: gli
servivano professionalmente, costituivano la sua Bildung. Cosa che feci,
meticolosamente…
10. Invece di lettere io scrivevo
poesie. E tuttora ne scrivo. Alcune sono ambientate in Germania o hanno
la Germania come soggetto. Alcune sono apparse in libri precedenti, da I tre desideri a Guerra; altre sono inedite. Ne propongo qui due. Viel Spass.
“Se penso alla Germania di sera
Io non riesco a dormire”.
H. Heine
H. Heine
Oggi che la Germania
Non è più il mostro accucciato
Che ho conosciuto nell’infanzia,
Oggi che è tornata arrogante
E la sua
Meticolosità nell’efficienza
Mi appare per quel che è
- Nevrosi da obbedienza -
Io le ripeto: quieta, zitta, a cuccia
Già hai dato il meglio, non strafare.
*
Angst
Furto d’anima
Siamo tra la crisi del ventinove
E la nomina di Hitler alla Cancelleria,
Siamo qui nell’interim
A cavalcare
Nel timore di farci scavalcare…
Da Atene Roma Madrid e Lisbona?
No, da Berlino Nord Sud Est e Ovest.
Ma non volevate dominare il mondo?
E adesso che l’Europa l’avete conquistata…
Cercate di capire, il primo e il secondo
Dei nostri recenti tentativi
Non sono stati propriamente sbagliati:
Li abbiamo solo messi in atto
Con mezzi sbagliati.
E adesso
Che i mezzi sono quelli che funzionano,
Adesso che ci avete conquistati
Non ci volete più,
Non la volete più l’Europa?
Adesso abbiamo paura. Angst, nur Angst…
Dunque, fateci capire: l’Europa la volete
Ma non fisicamente…
Ne desiderate solo l’anima,
Il resto dobbiamo tenercelo
Nutrendolo come possiamo…
Ach so…
Franco Buffoni, 8 luglio 2014
Fonte: http://www.leparoleelecose.it/
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