Lo spettacolo della miseria e dell'emarginazione è difficile da
accettare. Ma se si pensa che i poveri siano pigri, viziosi e incapaci,
in una parola diversi e inferiori, allora tutto diventa più semplice.E'
una ricetta che ha sempre funzionato: ieri con i contadini dell'Ancient
regime, gli operai della rivoluzione industriale, i neri d'America, i
popoli delle colonie e oggi con i migranti dal Sud del mondo.
Guido Barbujani
Genetica da ciarlatani. Razzismo vecchio e nuovo
Sessant'anni fa gli Stati
Uniti abolivano la segregazione scolastica: da allora, almeno in
teoria, tutti possono frequentare le stesse scuole, a prescindere dal
colore della pelle. Mentre a Topeka, in Kansas, Michelle Obama
celebrava l'anniversario con un bel discorso su come si combatte il
razzismo, Nicholas Wade annunciava su «Time» (Cosa ci dice la
scienza su razze e genetica; 9 maggio 2014) che «l'analisi dei
genomi di tutto il mondo stabilisce che le razze hanno una base
genetica, nonostante importanti organizzazioni nelle scienze sociali
sostengano il contrario».
Mettiamolo subito in
chiaro: l'analisi dei genomi non stabilisce affatto quella roba lì;
al contrario, è ormai evidente (tranne a chi non vuol capire) che,
per descrivere la biodiversità umana, l'idea ottocentesca che siamo
divisi in razze distinte non funziona. Ma in realtà nell'articolo di
Wade di genetica non c'è traccia. I genetisti, paradossalmente,
potrebbero quasi esserne contenti: la loro disciplina è diventata
una bandiera da sventolare per farsi prendere sul serio, i ciarlatani
ci fanno ricorso per darsi una parvenza di attendibilità.
Ma così si finisce per
sottovalutare un fenomeno (politico: qui la scienza c'entra solo in
modo strumentale) che invece non va preso sottogamba. Come altri suoi
concittadini della destra estrema, Wade è stufo di giocare in
difesa: basta coi sensi di colpa. Non nega affatto che nella società
americana i bianchi (certi bianchi, fra cui quelli che leggono
«Time») dispongano di risorse che agli altri sono negate: case
migliori, scuole migliori da cui si accede a posti di lavoro meglio
retribuiti.
Però, in polemica con
chi vorrebbe per tutti pari opportunità, ci dice che la
disuguaglianza sociale va accettata, e anzi promossa, perché
naturale: in America si vive così bene, non nonostante, ma in virtù
di, queste disparità.
Il percorso per arrivare a conclusioni così
impegnative è tortuoso, e vale la pena di seguirlo con attenzione.
Lo storico Gregory Clark,
racconta Wade, avrebbe dimostrato che la "propensione a
lavorare" è aumentata in Inghilterra nel 17esimo e 18esimo
secolo; la prova starebbe nell'aumento di ore lavorate nello stesso
periodo. Ma non sarà stato invece lo sviluppo dell'industria a
richiedere orari di lavoro sempre più lunghi, e alla fine disumani?
Clark è sicuro di no: gli inglesi hanno fatto la rivoluzione
industriale perché avevano tanta voglia di lavorare. Basterebbe
leggere Dickens per farsi venire qualche dubbio, ma andiamo avanti.
Da dove verrebbe questa
passione per il lavoro, a cui andrebbero attribuiti i successi
dell'Impero Britannico? Ma dai geni, naturalmente: secondo Clark, in
quei due secoli (a differenza che nel presente) i ricchi avevano più
figli dei poveri. Ed ecco la stupefacente serie di equazioni che ne
consegue: i ricchi sono congenitamente migliori dei poveri («i figli
ereditano dai genitori le stesse attitudini che li hanno resi
ricchi»); più figli fanno i ricchi, più cresce la qualità
genetica della popolazione; e viceversa, se i poveri si ostinano a
fare tanti figli, andrà sempre peggio.
Quindi, che non ci salti
in mente di ridurre gli squilibri sociali, finiremmo per peggiorare
ereditariamente (ecco dove starebbe la genetica) la società in cui
viviamo.
Wade non ha bisogno di dirlo esplicitamente, ma la
conseguenza è una sola: cercate di non nascere poveri e neri, e se
no arrangiatevi. Non si tratta di idee nuovissime, ma oggi vengono
rilanciate dal cosiddetto potere bianco, in inglese white supremacy:
il movimento che considera minacciata l'egemonia bianca nella società
americana, e fa di tutto per difenderla. La genetica, come si vede, è
solo un espediente retorico.
Che i ricchi bianchi
siano biologicamente superiori ai poveri neri è un vecchio cavallo
di battaglia segregazionista, certo non il risultato dell'analisi dei
genomi. Ma può funzionare, in tempi di opinione pubblica
disorientata. Certi bianchi, e non più i membri del Ku Klux Klan, ma
stavolta i lettori di «Time», andranno a letto più sereni se li si
convince che difendendo i loro privilegi agiscono per il bene di
tutti.
Insomma, gli Stati Uniti d'America ripudiano il razzismo, ma
non quando si manifesta educatamente sulle colonne di una rivista
rispettabile. Negli Stati Uniti un presidente è stato costretto a
dimettersi per aver mentito alla stampa, ma gli organi di stampa
possono mentire, purché le loro bugie siano protette da una patina
di scientificità.
Nel suo bel libro La
macchia della razza. Storie di ordinaria discriminazione (Elèuthera,
2013) Marco Aime scrive che il razzismo sta cambiando; tramontato
quello basato sul colore della pelle, ne sta nascendo uno nuovo,
nuove forme di pregiudizio e discriminazione sociale, fondati su
presunte inconciliabili differenze fra culture. Temo che sia anche
peggio di così. Anche nell'America di oggi, il razzismo classico, ci
annuncia Nicholas Wade, gode di ottima salute e dispone ancora di
eccellenti tribune.
il Sole24 ore – 6
luglio 2014
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