F. Dürrenmatt
Giustizia in panne
di Antonio Tricomi
Pubblicato per la prima volta nel 1956 e da poco riproposto in traduzione italiana, La panne (Adelphi, Milano 2014, pp. 87, € 10,00) è uno spietato apologo nel quale Friedrich Dürrenmatt sembra muovere dal Kafka sia del Processo sia del Castello
per interrogarsi sulla labilità di qualsivoglia etica individuale e di
ogni legge socialmente condivisa che ambiscano a pretendersi
inderogabili in un mondo in cui «non vi è più un dio che minacci, né una
giustizia, né un fato come nella quinta sinfonia». In un mondo, cioè,
nel quale possono riaffiorare forme esclusivamente grottesche o
paradossali, e proprio per questo sovente estremistiche, di verità, di
autocoscienza e addirittura di «grazia», in un solo caso: quando «un
semplice contrattempo si dilata involontariamente a fenomeno
universale». Soltanto allora torna ad imporsi agli uomini non il sensato
rispetto di una ragionevole moralità pubblica e privata, ma la cieca
ubbidienza a un surreale codice etico assoluto che all’origine di ogni
nefasta casualità, come pure alla base di qualsiasi realizzazione
sociale, scorge la traccia di un criminogeno disegno, o l’esito di una
sconcia aspirazione, di questo o quel soggetto: in altri termini,
un’ontologica colpa individuale che, appena accertata, suggerisce al reo
di ritenersi egli per primo degno di un’inappellabile condanna a morte.
Perché, ci spiega insomma Dürrenmatt, quando si verifica un intoppo, o
per l’appunto una panne, in quell’efficiente meccanismo socioculturale
che regola la deliberata evaporazione del senso tipica della nostra era,
può solo accadere che una vuota giustizia fin lì meramente e persino
serenamente formale si converta, in maniera non altrettanto pacifica e
astratta, nella cinica parodia di un irrefrenabile giustizialismo che
alle sue vittime infligge la pena comunque del ridicolo. Accettare
quell’oltranzistico processo alle intenzioni che solo si rivelerebbe
congruo in un contesto che sapesse presentarlo come esito naturale del
legittimo desiderio di punire ogni infrazione di un vigente e
comunitario orizzonte di senso, vuole infatti dire, in un mondo orfano
di qualsiasi significato autentico, scivolare pateticamente
nell’assurdo, non già poter riscattare d’improvviso e appieno la propria
grigia vita di menzogne e mancanze. Finché la legge si dimostra una
farsa, anche il richiamo o la sottomissione ad essa si tramutano in
pantomime dai risvolti distruttivi.
Oltre che del caustico romanzo breve di
Dürrenmatt, il 1956 è l’anno della pubblicazione del primo volume di un
classico del pensiero (anti-accademico) contemporaneo: L’uomo è antiquato, al cui autore lo psicanalista Franco Lolli ha appena dedicato un’agile ma densa monografia, appunto intitolata Günther Anders
(Orthotes, Napoli-Salerno 2014, pp. 93, € 10,00). In fondo, il filosofo
di Breslavia riconduce la medesima liquefazione del senso e l’identica
eclissi dell’etica tratteggiate, in altro modo, dallo scrittore svizzero
di lingua tedesca a una causa precisa: il tramonto di ogni ipotesi
antropocentrica nell’epoca del trionfo, giudicato definitivo, di una
tecnica capace di ergersi ad attore unico e sovrano incontrastato di un
mondo in cui – riassume Lolli – l’uomo è divenuto «superfluo, un
sovrappiù, semplice pezzo di un ingranaggio che ha acquistato autonomia e
che non riconosce il debito verso chi lo ha messo in moto». L’attacco
al sistema capitalistico, che nella Panne resta implicito,
serbandosi su un piano trascendente, con Anders e con la sua attenta
«sociopatologia della vita quotidiana» – come ancora Lolli la definisce –
si fa cioè scoperto e anzi radicale, risolvendosi nell’apocalittica
denuncia della letale affermazione di un «tecnototalitarismo» (o
“totalitarismo morbido” che dir si voglia) che mira a produrre
l’estinzione del genere umano e, in ultimo, del mondo stesso. Avendo
pensato il suo libro non come una ricognizione specialistica, ma al pari
di un corpo a corpo con un autore a lui caro anche perché capace di
offrirgli spunti critici da mettere a frutto nell’interrogazione
epistemologica dei fondamenti teorici del proprio mestiere, Lolli perciò
si spinge, da un lato, ad ammettere le colpe di una certa psicanalisi
soprattutto americana nel convalidare quella dittatura della «logica
consumistica» ritenuta da Anders consustanziale all’egemonia della
tecnica e che conduce all’apoteosi «di una ideologia che fa
dell’eliminazione del limite lo strumento più raffinato per limitare la
libertà del singolo». Dall’altro lato, lo psicanalista si prodiga nel
tentativo di difendere Anders da ogni accusa di nichilismo, ricordandone
il desiderio di «contrapporre all’attitudine contemplativa e
disincantata tipica del disfattismo nichilista, la passione e l’ardore
della sua denuncia nonché il suo impegno sociale», speso fino agli
ultimi mesi di vita. E qui il movente – per così dire – dichiaratamente
personale del volume viene forse ancor più alla luce. All’interno di una
vieppiù reazionaria retorica pubblica, la nostra era conosce una
sovraesposizione del discorso psicanalitico che potrebbe paradossalmente
essere letta come un sintomo dell’esaurimento dell’originaria carica di
rottura con l’ordine dato o persino alla stregua di un certificato di
morte di quella pratica. Che Lolli abbia allora inteso implicitamente
ribadire che è compito della psicanalisi fuggire il rischio di una non
remota deriva nichilistica tornando urgentemente a resistere a ogni
forma di irreggimentazione, pur magari a costo di una maggiore
perifericità in seno al dibattito intellettuale?
16 luglio 2014
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