Il filosofo e
sociologo francese racconta le letture che hanno accompagnato la sua
formazione.
Edgar Morin
Ho imparato da Dostoevskij la lotta tra fede e dubbio
Viviamo età estetiche differenti, dall’infanzia alla maturità, e, una volta adulti, diventiamo insensibili alle opere che hanno affascinato la nostra infanzia, la nostra giovinezza, la nostra adolescenza. Ci intenerisce riandare alle favole di Perrault, ai romanzi della contessa di Ségur, perché pensiamo alla nostra infanzia, ma li consideriamo ormai come cose da e per bambini. Tuttavia queste opere ci hanno segnato profondamente.
Così, per quanto mi riguarda, mi hanno segnato in profondità i romanzi di avventura di Gustave Aimard, i romanzi di avventure canine di Jack London. Più tardi, verso i 13-15 anni, hanno avuto un’importanza enorme il Jean-Christophe di Rolland e i romanzi di Anatole France. Il primo è romantico, lirico, trasportato dall’amore per l’umanità. Il secondo è scettico, critico, ironico, distaccato. Entrambi mi svelano, mi rivelano, esprimono due sentimenti antagonisti che sono molto forti in me, perché derivano dallo stesso evento fondamentale: la morte di mia madre quando avevo dieci anni.
Da un lato sono
disincantato per sempre, ho perso l’assoluto, sono portato a
dubitare di tutto, tanto più in quanto ho ricevuto un imprinting
culturale molto debole: i miei genitori sono sefarditi laicizzati
d’ascendenza spagnola e poi italiana, non ricevo da loro nessun
credo tradizionale e, a scuola, mi nutro di romanzi che leggo
sotto il banco, durante le lezioni, e a casa, durante i pasti;
sono romanzi che mi emozionano e mi rapiscono, così come i film
(che vedrò un po’ a caso), che mi danno la mia cultura di base.
Certo incorporo la
sostanza della Francia, integrando in me Vercingetorige, Giovanna
d’Arco, Napoleone, le battaglia di Bouvines, di Valmy, della
Marna. Ma più tardi mi sentirò di patria mediterranea, con
l’amore per la Spagna e l’Italia da dove vengono i miei
antenati, e come qualsiasi individuo nutrito di più culture,
legato a ciascuna ma non assolutizzandone alcuna, potrei essere
facilmente idoneo a diventare cittadino del pianeta Terra.
L’altro aspetto di me stesso, che viene dall’aspirazione sempre rinnovata di ritrovare l’integrazione in una sostanza materna infinita, oceanica, mi spingerà non solo verso tutto ciò che esprime il romanticismo, ma anche verso la ricerca della fede, dell’effusione, della comunione. Così, avendo perduto mia madre, ho cercato di ritrovare altrove, in modo diverso, la comunione oceanica, ma allo stesso tempo ho sempre custodito in me il sentimento dell’irreparabile, della perdita e del disastro; il dubbio è rimasto incrostato in fondo a me stesso, sia per l’esperienza della morte e del non ritorno della madre, sia per il debole imprinting culturale nel mio spirito, da cui l’impossibilità, malgrado gli sforzi, di credere nella religione della salvezza (il cristianesimo).
Conflitto sempre vissuto, mai superato, tra fede e dubbio, e sempre nutrito dai libri. Da qui la mia fascinazione per gli autori che hanno vissuto più intensamente questo conflitto (Pascal, Dostoevskij), per i filosofi che in fondo non lo sopprimono mai (Eraclito, Hegel, e anche Marx), e anche la mia attrazione irresistibile per il dubbio fondamentale (Montaigne) ma allo stesso tempo per lo slancio fondamentale oltre il dubbio e la ragione (Rousseau). Sono stato segnato da ciò di cui avevo sete.
Parlerò quindi innanzi tutto di qualcuno di questi autori, che sono per me fondamentali, non solo perché riguardano quello che c’è di fondamentale in me, ma perché li ho conosciuti nell’età stessa in cui le letture possono nutrire e segnare nel profondo l’intelligenza, l’anima e l’essere tutto intero.
Cito in primo luogo
Dostoevskij. Sono sicuramente stato segnato da Resurrezione di
Tolstoj, da Padri e figli di Turgenev, dai racconti tristi e
nostalgici della Steppa e da Zio Vanja di Cechov, e nei primi
decenni sono stato sconvolto da Divisione cancro, Il primo cerchio
e La casa di Matrjona di Solzenicyn, e dal dantesco Vita e destino
di Grossman, scrittore «medio» che diventa sublime nel momento
in cui s’ immerge a Stalingrado, e percepisce con una giustezza
visionaria come Stalingrado sia al tempo stesso la più grande
vittoria e la più grande sconfitta dell’umanità, e susciti una
scena terribilmente grandiosa come quella del grande inquisitore
ad Auschwitz, tra un giovane capo SS e un deportato comunista.
Ma quello che per me resta il più presente, il più intimo, è Dostoevskji. Dmitrij, Ivan e Alëša Karamazov, Stavrogin e gli altri eroi dei Demoni, Raskolnikov non mi hanno mai lasciato. Nessun altro ha portato altrettanto senso della sofferenza, della tragedia, della derisione, del delirio propriamente umano (e non avrei proposto l’idea di Homo sapiens-demens come nozione chiave del mio Paradigma perduto se questo sentimento così profondo dell’indistinguibilità tra follia e ragione nell’essere umano non fosse stato di continuo rigenerato dagli scrittori e soprattutto dal ricordo di Dostoevskij).
Senza dubbio
trovavo nei Fratelli Karamazov gli eroi che corrispondevano a
vocazioni profonde e contraddittorie del mio essere, come nella
maggior parte di noi. Ma ciò che trovavo soprattutto, nell’intera
opera di Dostoevskij, più acuto, più intenso, più doloroso e
violento che in qualsiasi altro autore, compresi gli altri russi,
è il senso della sofferenza, è la pietà infinita e stravolta
per questa sofferenza, il tormento delle anime straziate, le
instabilità profonde dell’identità, i momenti di verità
dell’amore, l’insondabile mistero degli esseri e della vita.
Il mio primo
sentimento filosofico (se oso usare questa parola) mi è venuto da
Dostoevskij: l’idea prioritaria che bisogna avere compassione
per la sofferenza. Quello che sentivo in lui non è tanto il fatto
che fosse un ex rivoluzionario diventato tradizionalista, un ex
occidentalista diventato slavofilo, ma il persistere corrosivo,
nel secondo Dostoevskij, del dubbio, del nihilismo, e la lotta
furiosa, disperata tra la fede e il dubbio, la lotta che in me non
è mai cessata tra la speranza e la disperazione.
E io oggi so che le
più grandi menti europee sono quelle che non hanno smesso di
vivere interiormente un conflitto fondamentale, un antagonismo
irriducibile; anche quando hanno apertamente scelto un partito
contro l’altro, quest’ultimo lavora in modo sotterraneo, ma
attivamente, all’interno del primo.
La Stampa - 1.6.2014
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