14 luglio 2014

NADINE GORDIMER


Il 13 luglio è morta Nadine Gordimer. La ricordiamo con un’intervista di Giuliano Battiston pubblicata su il manifesto nel 2008. (Fonte immagine)

Ricordando Nadine Gordimer

Come racconta in uno dei saggi raccolti in Vivere nell’interregno, Nadine Gordimer ha cominciato a scrivere quando aveva appena nove o dieci anni, e lo fece con “un atto senza responsabilità”. Con il passare degli anni, però, grazie all’“apparentemente esoterica speleologia del dubbio, guidata da Kafka più che da Marx”, questa scrittrice naturale – dotata della capacità di cogliere nelle vite degli altri “vapori di verità condensata” e, “come un dito che disegna su un vetro”, di scriverne la storia – ha cominciato a riconoscere la vergognosa politica razzista del governo sudafricano, e a interrogarsi sul paradosso che lega il regno dell’immaginazione creativa a quello dell’impegno sociale. Infatti, più si immergeva nel primo, “per attraversare gli abissi dell’aleatorio e assoggettarli alle parole”, e più i suoi libri si caricavano inaspettatamente di valenza politica; più si abbandonava, senza resistenza, al soggetto da cui veniva scelta – perché, come spiega, ogni scrittore è scelto dal suo tema, e non viceversa – e più la sua scrittura diventava un potente e sensibile scandaglio delle contraddizioni del Sudafrica.
Per questo, pur non rinunciando mai a combattere pubblicamente il regime dell’apartheid, perfino quando farlo significava essere accusati di “pornografia politica” o finire in carcere, Nadine Gordimer si è poi convinta che il suo compito principale fosse quello di rivendicare ed esercitare il diritto all’autonomia e all’integrità artistica, perché – sostiene – solo mantenendo un equilibrio instabile tra la storia e l’immaginazione uno scrittore può illuminare, con “la debole luce di una piccola torcia” o con “una fiaccola improvvisa”, “il labirinto sanguinoso ma ricco di bellezza dell’esperienza umana e dell’essere”, dando vita all’univa vera rivoluzione: “la rivoluzione dell’immaginazione”. Abbiamo discusso con Nadine Gordimer del suo lavoro, del Sudafrica e della sua ultima raccolta di racconti, Beethoven era per un sedicesimo nero.
Nel “Dialogo del tardo pomeriggio”, uno dei saggi raccolti nel volume “Vivere nella speranza e nella storia”, lei cita una intervista fatta a Nagib Mahfuz, durante la quale una giornalista chiede allo scrittore egiziano: “Qual è il tema che più le sta a cuore?” e lui risponde: “La libertà”. Anche lei potrebbe rispondere lo stesso, e potrebbe forse aggiungere quell’“indicatore del livello dello spirito dall’origine misteriosa” che definisce come “il senso della giustizia”?
In chi fa il mio mestiere lo scrittore convive sempre con l’individuo e con la sua responsabilità. Quando si è musicisti, pittori o scrittori, il proprio talento implica la responsabilità di portare la libertà e la giustizia in quel che si suona, si dipinge o si scrive. Chi svolge questo tipo di professioni, infatti, ha in prestito un talento che deve restituire, il più onestamente possibile. Allo stesso tempo, ognuno di noi – indipendentemente dall’ambito nel quale si esprime – è dotato della responsabilità di rendersi consapevole dei modi in cui vivono le persone e delle leggi alle quali sono sottomessi. Dunque, dobbiamo assumerci la responsabilità di quanto accade non solo nel nostro paese, ma in tutto il mondo, e fare tutto ciò che ci è possibile per promuovere la libertà e il senso di giustizia.
Non è un caso che lei si sia spesso interrogata sul rapporto che lega creatività e responsabilità. A giudicare dai suoi scritti, sembrerebbe che, secondo lei, lo scrittore possa adempiere ai propri doveri verso la società solo se, innanzitutto, riesce a salvaguardare l’integrità della propria immaginazione. Questo significa che la responsabilità dello scrittore verso la scrittura precede quella verso la società?
 Sì, la nostra prima responsabilità è nei confronti del nostro lavoro, verso la nostra libertà in quanto scrittori. Se non salvaguardassimo questa libertà, correremmo facilmente il rischio di diventare dei propagandisti. Certo, come tutti anche noi scrittori abbiamo delle forti convinzioni politiche, ma non possiamo permetterci che queste convinzioni interferiscano con il nostro lavoro o peggio lo fagocitino. Ottenere una sorta di bilanciamento è lo scopo per il quale ho cercato di combattere lungo tutto il corso della mia vita: in quanto essere umano sono stata una fiera oppositrice del regime dell’apartheid, e in quanto cittadina del Sudafrica mi sono assunta una serie di rischi, ma in tutti i momenti in cui ho indossato la veste di scrittrice non ho mai presentato le persone di cui condividevo le idee politiche come angeli: sento il dovere di mantenere la mia libertà artistica e di mostrare l’essere umano nella sua interezza. Tutti, compresi gli eroi, hanno le loro ombre e le loro duplicità.
In diverse occasioni lei non si è limitata a ragionare in termini generali sul ruolo dello scrittore nella società, ma si è anche chiesta dove situarsi, ammettendo di aver oscillato tra la voglia di lasciare il paese e un “terribile, ostinato e inquietante desiderio di rimanere”. Eppure, anche nei periodi più difficili, non ha mai scelto l’esilio. Dipende forse dal fatto che sente la responsabilità anche come un impegno verso il luogo a cui si “appartiene”?
Sì, la intendo anche così. Come diceva Jean-Paul Sartre, andare in esilio è, in qualche modo, come perdere il proprio posto nel mondo. In Sudafrica, molti sono stati costretti all’esilio perché altrimenti sarebbero stati uccisi o avrebbero trascorso tutta la vita in prigione, mentre altri hanno deciso volontariamente di andar via perché non sopportavano più di vivere in un paese che imponeva ai neri condizioni di vita così ingiuste. Nel mio caso, forse non sono stata sufficientemente coraggiosa da compiere azioni che mi avrebbero portata dritta in prigione, ma ne ho fatte alcune per le quali ho rischiato molto. Comunque, io e mio marito, Reinhold Cassirer, abbiamo ragionato in termini vaghi su questa ipotesi, e abbiamo deciso di restare: sono nata in Sudafrica, sono un’africana bianca e per me abbandonare il mio paese, proprio quando viveva momenti così difficili, avrebbe significato veramente perdere il mio posto nel mondo. Comunque, siamo stati ampiamente ricompensati nel 1994, quando per la prima volta tutti i sudafricani di ogni colore, hanno votato insieme per le elezioni democratiche.
E oggi che il Sudafrica si trova a vivere quello che lei chiama “il giorno dopo la festa”, qual è la situazione? In che modo i sudafricani stanno affrontando il compito che Flaubert – da lei citato – definiva come “il più difficile e il meno attraente”, ossia la transizione?
In effetti, si tratta di un compito difficilissimo: nel corso di una battaglia si è talmente concentrati sull’obiettivo di sconfiggere il nemico che le uniche cose a cui si pensa sono i modi per vincerla. Allo stesso modo, in Sudafrica si pensava solo a demolire il regime oppressivo dell’apartheid, e non c’era il tempo né l’energia per pensare a quanto sarebbe dovuto accadere dopo. Mi sembra comunque che in Europa e negli Stati Uniti si faccia molta fatica a comprendere un fatto essenziale: l’apartheid si fondava sul razzismo, ma il razzismo è ben più radicato dell’apartheid, perché ha accompagnato la nostra storia, privando dei loro diritti coloro che risiedevano nel paese, sin dal 1652, quando Jan van Rebeeck, uno dei leader della Compagnia Olandese delle Indie orientali, mise piede in Sudafrica. Mi sembra assurdo pretendere che il mio paese, in soli quattordici anni, riesca a eliminare l’eredità negativa costituita da questa storia secolare di razzismo. Alcuni paesi europei godono della democrazia da diversi secoli, eppure non riescono a eliminare la disparità fortissima tra ricchi e poveri. Come potete pretendere da noi quel che voi non siete riusciti a fare nel corso di secoli?
Torniamo alla letteratura: nel corso della sua lunga attività di scrittrice – a partire dalla sua prima pubblicazione, quando era poco più che una bambina – lei non ha mai smesso di scrivere racconti, e ha anche cercato di spiegarne l’origine. Ci può raccontare perché, nella sua personale collezione di metafore letterarie, il racconto è paragonabile a un uovo di gallina?
Mi piace usare questa metafora perché l’uovo è “completo”: è costituito dal bianco e dal tuorlo, da cui sarebbe potuta nascere una gallina, dunque potenzialmente contiene la vita. Quando mi prende il desiderio di scrivere un racconto, e comincio a ragionare sulla forma che potrebbe assumere, la storia mi appare nella sua totalità, dall’inizio alla fine: come un uovo, è tutta lì, in quell’idea. Quando scrivo un romanzo, invece, mi viene da pensare piuttosto alle cose che poi finiranno col trovarsi nel mezzo, e devo ragionare sul modo in cui potrebbe iniziare la storia. La scrittura di un romanzo, dunque, è una sorta di viaggio, fatto di tappe e di passaggi, una strada che cambia mentre la percorriamo, anche se conosciamo la partenza e la meta finale. I racconti, invece, come un uovo si possono tenere completamente in una mano.
In questa ultima sua raccolta di racconti ce n’è uno particolarmente insolito perché sembra attingere in modo esplicito alla sfera privata: è titolato “Dreaming of the Dead” e racconta di un incontro tra lei, Edward Said, Susan Sontag e Anthony Sampson in un ristorante cinese di New York. Lo ha scritto come un omaggio all’amicizia?
Sebbene le storie che racconto non abbiano mai avuto a che fare con la mia vita personale, in questo caso, invece, ho scritto un racconto molto “intimo”: è un omaggio ad alcuni amici amati, che hanno avuto un ruolo essenziale nella mia vita e con i quali ho avuto il privilegio di condividere momenti importanti. Ho messo insieme i miei sogni, i ricordi che ho di loro, e mi sono presa la libertà di usare la conoscenza che avevo delle loro personali idiosincrasie per dare vita a una storia, ironica e affettuosa, ambientata in un ristorante cinese, che ricorda quello in cui era solita portarmi Susan Sontag quando capitavo negli Stati Uniti. Anche i riferimenti alla musica non sono casuali: ricordo che Edward Said, con il quale mi capitava di discutere sul rapporto tra la scrittura e la vita, mi diceva sempre: “siamo entrambi degli scrittori, ma io ho una cosa più di te, perché sono musicista”. E in effetti era un grande musicista. Per quel che riguarda Anthony Sampson, lo ricordo come un grande scrittore e un grande storico. Dunque sì, Dreaming of the Dead è il mio personale tributo al valore dell’amicizia.
Un’ultima domanda su una questione contingente, che però rimanda anch’essa al rapporto tra politica e letteratura. Recentemente alcuni si sono appellati all’esempio del Sudafrica dell’apartheid per giustificare il fatto che, a volte, il boicottaggio è un’arma legittima. Questa volta il bersaglio sarebbe il Salone del libro di Torino, che quest’anno è dedicato a Israele, nel sessantesimo anniversario della sua nascita. Lei cosa ne pensa?
Ritengo che il boicottaggio sia assolutamente sbagliato. Non partecipare a un incontro letterario, evitando di incontrare scrittori che provengono da un paese di cui non si condividono le azioni governative, mi sembra una assurda riduzione della letteratura al comune denominatore della politica. Non dimentichiamoci, poi, che ci sono diversi scrittori israeliani che non condividono o che condannano le politiche adottate dal loro governo. Comunque, è ridicolo paragonare questo conflitto alla situazione sudafricana: lì i bianchi non potevano reclamare alcun vero diritto, perché gli unici che detenevano erano quelli guadagnati con la forza del dominio coloniale. Nel caso degli israeliani e dei palestinesi, invece, la complessità della situazione deriva proprio dal fatto che entrambi hanno diritti incontestabili.

da: http://www.minimaetmoralia.it/
 

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