Carlo Vulpio
Come uscire da rabbia e disgusto. Ritornare dallo stato di sudditi a quello di cittadini sovrani
Che l’Italia fosse al penultimo posto in Europa (dopo, c’è solo la Romania) per il livello di istruzione della popolazione e del numero di laureati è uno dei tanti dati negativi che ci umilia e ci fa rabbia; ma non ci sconvolge, non solo perché siamo quasi assuefatti alle statistiche negative che ci riguardano, ma anche perché, forse, non abbiamo perso definitivamente la voglia di rimboccarci le maniche e di riscattarci.
Ma che ogni settimana
nel nostro Paese, nonostante la Grande crisi e le imprese che
muoiono come mosche, aprano quattro nuove aziende di tatuaggi,
mentre siamo saldamente al terzo posto (dopo Corea del Sud e Grecia
e davanti agli Stati Uniti) per interventi di chirurgia estetica in
rapporto alla popolazione, è — pur non essendoci nulla di male —
uno di quei diabolici dettagli rivelatori dello stato di salute
(anche mentale) di un’epoca, di un’economia, di un popolo.
I dati e le statistiche però, che sono spesso opinabili e a volte anche «truccati», bisogna saperli «leggere» e ricondurre a una visione d’insieme, che sia d’aiuto a capire per poter poi agire. Compito per niente facile, che Giuseppe De Rita e Antonio Galdo — con un volume agile e «tutta polpa», Il popolo e gli dei , edizioni Laterza (pp.112, e 14) — riescono a svolgere con onestà intellettuale, poiché chiamano ogni cosa con il proprio nome e non risparmiano critiche a nessuno: alla «politica» e al suo contrario, il «disprezzo per la politica», seguito all’operazione Mani pulite e al suo strabismo; alla «dittatura del capitalismo finanziario» e dei «mercati», a loro volta governati dalla téchne di algoritmi che ne sono diventati i veri sovrani (Emanuele Severino); alla forbice, che ormai è un abisso, tra i ricchi e i poveri e tra i lavoratori dipendenti e i top manager, e persino alla presunta immacolatezza della «società civile».
La critica di De Rita e Galdo è serrata, impietosa, ma non è disperante e sfascista, così come non è «contro l’Europa» un altro libro a cui questo assomiglia molto, Il mostro buono di Bruxelles , di Hans Magnus Enzensberger.
La tesi di fondo de Il
popolo e gli dei , sempre più lontani l’uno dagli altri, è la
medesima: la progressiva perdita di sovranità degli Stati
nazionali e quindi dei popoli, che gli autori non esitano a
definire «furto di sovranità» da parte di pochi dei, con la
conseguente riduzione dei cittadini allo stato di sudditi, degli
individui in pubblico per la tv — e per il web, con la sua idiota
logica binaria — dei politici in «una compagnia di giro per i
talk show».
Sono dunque i risultati
di questi processi a essere disperanti, non le analisi e le
critiche. È per esempio disperante, sostengono gli autori,
constatare che mentre la riunificazione della Germania è stata
compiuta, il Sud e il Nord d’Italia sono tra loro più distanti
di prima, con relativo corollario di una nuova ondata di
emigrazione di giovani non più rimpiazzata, come in passato, dalla
crescita demografica, perché fare un figlio costa e di politiche
per le famiglie (vogliamo aggiungerci anche la scuola, le
infrastrutture, la sanità, le imprese, l’ambiente e il
paesaggio?) non se ne scorgono nemmeno all’orizzonte.
«La fiducia è ai
minimi storici» avvertono De Rita e Galdo e i sentimenti oggi
prevalenti sono rabbia e disgusto. Invertire la rotta al più
presto è dunque indispensabile. Già, ma come?
Prima di tutto, bisogna
«uscire dalle politiche di rigore e di austerity» decise altrove
e poi, ecco la proposta coraggiosa, se non altro perché in
controtendenza rispetto alla infatuazione del «tutti a casa»,
riscoprire il gusto e la funzione della politica, che non è né
una brutta cosa né una brutta parola.
Solo la politica,
dicono gli autori, può rilanciare la partecipazione democratica. E
a questo scopo occorre rilanciare i partiti. Sì, i «famigerati»
partiti, quelle «organizzazioni ancorate a un progetto e a un
territorio», magari pensati in una forma nuova, ma di certo
migliori sia degli attuali comitati elettorali, poco turbati dal
«furto di sovranità» perché sono i primi a praticarlo, sia di
quegli dei lontani e avversi.
Il Corriere della sera –
14 giugno 2014
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