20 novembre 2011

COSA CI HA INSEGNATO LEONARDO SCIASCIA

Ho seguito nei giorni scorsi a Palermo il Convegno organizzato dagli Amici di Leonardo Sciascia per ricordare, in modo non agiografico, i cinquant’anni de Il giorno della civetta. Un libro frainteso, come tanti altri, dello scrittore di Racalmuto. La prima opera letteraria che parla di mafia, tradotta in tutte le lingue del mondo.
Al Convegno hanno partecipato studiosi di fama internazionale come Claude Ambroise. Ma a noi è mancato il contributo di Vincenzo Consolo, amico fraterno di Sciascia, considerato da tanti l’ultimo suo erede.
Anche per questo vogliamo riproporre una parte del discorso che lo scrittore di Sant’ Agata di Militello ha tenuto all’Università di Siviglia in occasione del ventesimo anniversario della morte del racalmutese. 


«Mio nonno era stato caruso, uno di quei ragazzini che nelle zolfare siciliane venivano adibiti al trasporto del materiale. Era entrato in miniera all'età di nove anni, alla morte del padre, e vi restò fino alla fine dei suoi giorni», ha scritto Sciascia in La Sicilia come metafora.
I carusi, i carusi delle zolfare. Ne parlano per primi, di questa drammatica realtà sociale, i due studiosi Franchetti e Sonnino nella loro Inchiesta in Sicilia del 1876, in un capitolo aggiuntivo all'Inchiesta stessa dal titolo Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane: si alzava per la prima volta un velo su una terribile realtà pressoché sconosciuta, e l'Italia ne rimaneva inorridita. Sono bambini anche di cinque, sei, sette anni che al soldo del picconiere, cui sono legati per il cosiddetto «soccorso morto», la somma che il picconiere anticipava alla famiglia per avere al suo servizio il caruso, bambini che trasportano sulle loro spalle il carico di zolfo dalla profondità fino alla superficie, al calcarone. Scrivono Franchetti e Sonnino: «Vedemmo una schiera di questi carusi che usciva dalla bocca di questa galleria dove la temperatura era caldissima ... Nudi affatto, grondando sudore, e contratti sotto i gravissimi pesi che portavano, dopo essersi arrampicati su, in quella temperatura caldissima, per una salita di un centinaio di metri sotto terra quei corpicini stanchi ed estenuati uscivano all'aria aperta, dove dovevano percorrere un'altra cinquantina di metri, esposti a un vento ghiaccio». I carusi, i picconieri, e su su poi, gli ausiliari, i calcaronai, arditori, spesalori, il capomastro, il gabelloto, il proprietario. Il proprietario della miniera era proprietario del suolo dove veniva scavata la miniera, lui, il proprietario, era padrone «usque ad coelum ed usque ad inferas». Il proprietario era un «gattopardo» che se ne stava lontano dalla miniera, lontano nel suo palazzo di Palermo, di Catania o di Agrigento.
(...) Gli zolfatari, i salinari, gli alunni poveri e affamati del maestro Sciascia. Scrive in Cronache scolastiche : «Entro nell'aula con lo stesso animo dello zolfataro che scende nelle oscure gallerie»; e il Circolo della Concordia, le strade, i braccianti, i preti, la mafia: Racalmuto, la Sicilia.
Senza lo zolfo, lo scrittore Sciascia non si potrebbe spiegare. Spiegare la sua tagliente logica, la sua penetrante capacità di lettura della realtà, della storia, il suo morale, civile bisogno di smontare le tessere della storia proditoriamente o casualmente mal disposte e rimetterle nell'ordine della verità; spiegare la sua indignazione quando un uomo, un potere, un sistema esercita violenza, offesa su un altro uomo, su una minoranza, su una società. (...).
Dal buio profondo della zolfara, dalle calcinate pietre di Racalmuto, con la luce della ragione degli illuministi, con la cristiana pietà del Manzoni, Sciascia è uscito agli spazi dell'agorà, di una società ideale, alla speranza di una civiltà «perfezionata». E di lui possiamo dire, come egli ha detto del racalmutese fra Diego La Matina, «che era un uomo, che tenne alta la dignità dell'uomo». Dopo le prime opere narrative (Le parrochie di Regalpetra, Gli zii di Sicilia), Sciascia affronta il romanzo poliziesco, il romanzo giallo con Il giorno della civetta (1961) Sentì l'impellenza di affrontare un tema scottante e urgente: quello della mafia. Scrive, anni dopo, in una nota a una riedizione del romanzo: «... Allora il governo non solo si disinteressava del fenomeno della mafia, ma esplicitamente lo negava ... la mafia non sorge e si sviluppa nel vuoto dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole o manca) ma dentro lo Stato...».
Il romanzo poliziesco: uno strumento, il più opportuno e il più appuntito, il più robusto e il più valido, il più lucido per affrontare la realtà, l'oscura, terribile realtà siciliana, italiana. Il cui linguaggio, duro e affilato, preciso e incisivo non può che essere di rattenuta emozione e di dispiegata comunicazione, di grande chiarezza e ordine contro l'oscurità e il disordine. Qual è la funzione del romanzo poliziesco di Sciascia? È la funzione civile. Tutta l'opera dello scrittore è di ispirazione e tema civile, ma nei suoi polizieschi viene esplicata l'epopea della piazza, dell'agorà: una conversazione loica e laica sui fatti sociali e politici, una serrata, filosofica «conversazione in Sicilia», conversazione uguale a quella effigiata nella Flagellazione di Piero della Francesca, su cui ha indagato Carlo Ginzburg (Indagini su Piero). In Piero, dice lo storico, c'è uno spostamento di piano: dal sacro all'umano, dal dramma alla speculazione. In Sciascia, il dramma si sposta dal mito alla realtà, dall'esistenza (dal pirandelliano smarrimento esistenziale) alla storia. Senonché, il poliziesco - che egli chiama qualche volta parodia o sotie - è il rovesciamento del genere: c'è il delitto, l'investigazione, ma non si arriva mai alla soluzione del dramma, alla sutura dello squarcio nel corpo sociale. Non si arriva mai all'individuazione del colpevole del delitto, alla sua condanna. Non si arriva mai a questa soluzione perché quei delitti sono di origine politico-mafiosa. E il potere politico-mafioso non può mai condannare se stesso. (...)
Sempre più nel tempo resterà il nome di Sciascia, la sua figura morale, il suo insegnamento. Diciamo ancora mondo kafkiano, pirandelliano, camusiano o borgesiano. Dobbiamo cominciare a dire oggi che questo nostro mondo, questo nostro paese soprattutto, si è fatto e si fa sempre più sciasciano, poiché la metafora letteraria di Sciascia, al di là della cronaca, della storia appena passata allarga il suo spettro sul nostro contesto, sulla condizione esistenziale e civile di noi uomini di questo nuovo millennio. Il sonno della ragione si è fatto più duro, ci ha pietrificati; i poteri politici corrotti provocano, in varie parti del mondo, atroci disastri, orrori di ogni sorta; la peste mediatica umilia la nostra dignità, ci priva della nostra libertà. Il crollo del muro di Berlino ha rivelato che stalinismi e fascismi imperavano e imperano ancora al di là e al di qua di quel muro. Ha rivelato che dentro ogni tirannia, reale o mascherata, dentro sotterranei o fogne, le cosche ripugnanti del potere politico-mafioso eleggono sempre la loro dimora.”

VINCENZO CONSOLO

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