24 novembre 2011

HANNO UCCISO PADRE CASTENZIO

Pubblichiamo la prima parte di un racconto inedito di Santo Lombino che prende spunto da un fatto realmente accaduto a Bolognetta nel 1920.

Non c’era nessuno in Piazza Matrice, quella sera. Nessuno, perché non c’era che la luce di qualche fanale a gasolio, nelle strade e nelle piazze di Bolognetta. Nessuno, perché tutti o quasi quelli che avevano lavorato in campagna quel giorno, alle undici di sera erano molto stanchi. Nessuno, perché l’indomani dovevano partire da casa per arrivare in campagna prima del sorgere del sole, e perciò era meglio andare a dormire presto…

Il reverendo arciprete Castrenze Ferreri, che tutti chiamavano padre Castenzio, andava a letto più tardi, dato che in genere si alzava verso le otto, per andare a dire messa. Era seduto a prendere il fresco, quella sera di maggio dell’anno 1920, davanti alla canonica, a trenta metri dalla chiesa madre. Gli avevano fatto compagnia Mastro Titta, il calzolaio che ogni tanto giocava con lui a briscola usando come base un piccolo tavolo mezzo sgangherato, e Mariano V. che di lavorare ne mangiava poco e preferiva farsi il giro del paese scambiando quattro chiacchiere prima col pescivendolo, poi col venditore di aghi e spilli Giacomo Giardina da Godrano, e la sera, dopo il rosario, con Padre arciprete. Il quale era in paese ormai da dodici anni e conosceva Mariano e le sue abitudini: verso le dieci e mezza se ne andava via chiedendo la benedizione.

Ora era solo, il parroco, e stava già pensando di ritirarsi per leggere le ultime pagine del breviario, quando suonò la campana dell’orologio del campanile. Undici colpi uno dietro l’altro, col solito ritmo da più di vent’anni, quando il meccanismo non era rotto. I fratelli Scibetta di Bisacquino l’avevano costruito nel 1896 e venduto al comune per trecentoventi lire, al tempo del sindaco Lo Brutto, che all’orario ci teneva tanto perché non voleva che i suoi iurnateri arrivassero tardi all’antu.

Furono pochi attimi: un lampo dal vicolo, un rumore assordante, un urlo di Padre Castenzio. Dopo una pausa di silenzio, assicuratisi che non ci fossero pallottole vaganti, uscirono dalle loro case i vicini. Arrivò il sagrestano, Filippo D.P., e la moglie Assunta, che cominciò ad urlare “U parrinu, u parrinu ammazzaru!”. Il marciapiedi fu pieno di gente accorsa mezza vestita. Filippo e mastro Matté, il falegname, videro che il parroco, caduto a terra vicino alla porta, respirava ancora. Solo alcuni minuti dopo cominciò a lamentarsi e a chiedere aiuto. I due si accorsero che dall’abito talare all’altezza dei polmoni usciva sangue, prima lentamente, poi in abbondanza. La moglie del sacrestano prima portò un panno per tamponare la ferita al polmone sinistro, poi corse dentro a prendere due lenzuola, con cui quattro uomini sollevarono lentamente il religioso e lo portarono dentro casa, mettendolo a letto, nella stanza accanto alla cucina. Arrivò pure il dottore Machì, giovanissimo, che era stato chierichetto per anni al seguito di Padre Castenzio e impallidì a vedere tutto quel sangue.

Intanto era arrivato il sindaco, Michelangelo D. P., a cui il ferito si rivolse subito con gesti accorati, chiedendogli di avvicinarsi al giaciglio. Entrò subito il comandante della regia stazione dei carabinieri, il maresciallo Vittorio D., un abruzzese dai baffi spioventi, che il parroco conosceva bene anche per averlo ogni tanto confessato. Infine arrivarono quasi di corsa e quasi contemporaneamente il giovane Carmelino L. B., caporalmaggiore in licenza dalla caserma di Torino dove prestava servizio dopo la fine della guerra mondiale, e “don” Serafino, pregiudicato, capo della cosca mafiosa locale. Davanti a loro, prima che il maresciallo chiedesse qualcosa, il parroco gridò. “L’ho visto, chi mi ha sparato!”. A gesti o a parole, gli chiesero tutti nello stesso momento chi fosse stato, e quello: “Mi ha sparato Luminato, figlio di Giovanni T.” Poi si corresse: ” No, suo cugino Luminato, figlio di Peppino T. Sì, l’ho visto con i miei occhi.”

I presenti rimasero increduli attorno al letto. “Ma come può essere? Un picciotto così educato!” esclamò il sindaco, che conosceva bene quel giovane, poco più che ventenne, bracciante agricolo, figlio di contadini. “E’ stato lui, l’ho visto in faccia, mi ha sparato scappando dietro il campanile…” E si fermò, perché sentì una fitta al petto molto forte. Cominciò a rancorarsi senza smettere più. Il dottorino si dava da fare, fece anche un’iniezione, ma capiva che i proiettili avevano colpito anche il cuore, oltre che i polmoni. Fuori la gente aumentava di numero e di parole: la guardia municipale Mariano Z. e il carabiniere Proietti, arrivato col maresciallo, fermarono quelli che poterono, sostenendo che all’arciprete sarebbe mancata l’aria, con tutti quei curiosi attorno.

Il maresciallo decise allora di andare alla casa terrana di Luminato: prese con sé due altri carabinieri, il calabrese e il palermitano, arrivati nel frattempo, e cercò di raggiungere nel più breve tempo possibile l’abitazione della famiglia del giovane, distante non più di centro metri, sulla via Notar Monachelli. Uno dei due militari semplici bussò alla porta, gridando: “Aprite!”. Dopo un attimo, la porta di legno si aprì, il padre di Luminato chiese cosa volessero, poi chiamò il figlio, che si dovette rivestire, alla luce di una lanterna. Il maresciallo entrò velocemente, andò a cercare negli angoli più riposti della casa, salì sul solaio, sollevò qualche materasso, vi trovò un fucile ancora caldo e con forte odore di polvere esplosa. Lo prese e lo portò con sé, stringendolo con forza e fierezza, a mo’ di trofeo. Il ragazzo fu ammanettato e portato in caserma senza spiegazioni. Al ritorno dalla missione, il maresciallo si presentò di nuovo al parroco ormai moribondo, si chinò verso di lui per chiedergli a quattr’occhi se davvero Luminato fosse il suo assassino. E quello ripeté spazientito: “Lui fu, ancora ve lo devo dire? Lui fu!”. “Ma che motivo aveva, perché doveva fare questo?” chiese il sindaco. “E’ stato… è stato per l’affare dei marmi”, rispose con qualche difficoltà. “Per l’altare di sant’Antonino…”. Poi padre Castenzio, che aveva ricevuto l’estrema unzione dal sacrestano e aveva baciato il crocifisso e l’immagine della Sacra famiglia staccata dal capezzale del letto, non parlò più. Il medico allargò le braccia rassegnato.

L’indomani arrivarono col carretto da Vicari, paese di origine dell’arciprete, due sorelle, un fratello più grande e uno zio, tale Pecoraro o Pecoraino, non si capì. Tutti gli abitanti del paese vollero vedere il corpo della loro guida spirituale esposto tra fiori e lumini. “Aveva cinquantaquattro anni, era un buon parroco”, dissero tanti, “Non ha mai fatto male a nessuno”, aggiunsero. “Forse”, dissero altri…

Alla fine del funerale, che durò a lungo perché la messa cantata fu concelebrata da tre arcipreti, quello di Marineo, quello di Misilmeri e quello di Cefalà Diana, molti cittadini andarono in processione a fare le condoglianze ai familiari del defunto, quasi tutti sconosciuti ai paesani. Tra gli altri arrivò “don” Serafino che, dopo essersi detto amareggiato per il delitto, spiegò a Stefano Ferreri, fratello maggiore del parroco, come lui e altri in paese non credessero che padre Castenzio avesse veramente riconosciuto l’assassino in quel giovane mite, incensurato e noto per la sua laboriosità. Anzi, spiegò con ricchezza di particolari l’impossibilità che chicchessìa venisse riconosciuto nel buio della notte. Il fratello rimase perplesso, non sapeva cosa rispondere. A conclusione dell’incontro, il visitatore lo informò che aveva intenzione di fare un esperimento l’indomani sera, alla stessa ora del delitto: fare spuntare una persona dall’angolo della strada per vedere se dalla porta della canonica si potesse vedere in faccia con chiarezza qualcuno che da lì emergesse dall’ombra con un’arma in mano… Il fratello non seppe mai come fosse andato l’esperimento progettato da “don” Serafino. (continua)

SANTO LOMBINO

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