“Due volte sciocco chi, svelando un segreto a un altro, gli chiede calorosamente di non farne parola con nessuno.”
“ So che è un segreto, perché lo si sussurra dappertutto.”
Il secondo è un proverbio inglese e conferma una sorta di legge ben attestata in tutti gli ambienti: il modo più efficace per propalare una notizia è bisbigliarla all’orecchio di un amico, supplicandolo di tenerla come una confidenza personale riservata. La legge in questione è formulata nella prima citazione che ho trovato in un articolo sulla “discrezione in politica” (sic!) e che è assegnata a una novella del grande Cervantes, scritta quattro giorni prima di morire, il 19 aprile 1616. Vorrei mettere l’accento proprio sulla parola che titolava quell’articolo, per altro ironico: «discrezione». Essa parte da una radice lessicale già impegnativa perché rimanda al discernimento, al giudizio, all’oculatezza, dote ormai rara ai nostri giorni così sbrigativi, capaci solo di procedere a slogan e battute. Ma quel vocabolo trascina con sé un corteo di virtù e di valori vari, come la prudenza, il tatto, la misura, il rispetto, la sensibilità. Soprattutto la discrezione va a braccetto con la riservatezza, che a sua volta si coniuga col pudore nel senso più lato del termine. C’è, infatti, un’intimità personale che ora è rubricata sotto il vocabolo privacy, ma che è qualcosa di più profondo perché racconta la storia segreta, interiore, esclusiva vissuta da ognuno di noi. Essa è sovente custodita nella tomba della propria anima per sempre; tuttavia, può essere donata come segno di confidenza assoluta a un’altra persona a cui si è legati da un vincolo d’amore o di amicizia. Proprio per questo, violare una simile confessione è un atto spudorato, è un tradimento, è un sacrilegio nei confronti di quella realtà sacra che è appunto l’amore autentico.
G.Ravasi, Il Mattutino, pubblicato in Avvenire di oggi 17 novembre 2011
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