15 giugno 2013

ELSA MORANTE RILEGGE CATULLO





Riproponiamo un testo poco noto di Elsa Morante, pubblicato domenica scorsa dal 24 Ore:

ELSA MORANTE – LESBIA, MIO DISPERATO ETERNO AMORE

Gaio Vale­rio Catullo, poeta, da Verona, fu, al pari del suo con­cit­ta­dino Romeo, come tutti sanno, un amante infe­lice. Ma l’infelicità di Catullo fu, noi cre­diamo, assai più amara di quella di Romeo. Per un tenero amante, infatti, le cru­deltà della sorte sono, seb­bene feroci, più tol­le­ra­bili tut­ta­via di quelle inflit­te­gli dalla per­sona stessa ch’egli adora e da cui sola può venir­gli il net­tare, o il bal­samo, o il veleno.
Due grandi con­so­la­zioni aveva Romeo Mon­tec­chio nella sua tri­sta sorte: la prima, e suprema, quella di sapersi cor­ri­spo­sto da Giu­lietta; la seconda, quella di sen­tirsi un eroe da tra­ge­dia. Ora, il sen­tirsi eroi da tra­ge­dia con­sola di tante cose: gli eroi pos­sono atteg­giarsi in pose regali, decla­mare mono­lo­ghi illu­stri… È con­cesso, infine, ai Romei, di morire fra le brac­cia di Giu­lietta, e, se i super­stiti non saranno pro­prio spie­tati, di gia­cere nella mede­sima tomba. Ma nes­suna di simili con­so­la­zioni toccò al povero Catullo: per lui sol­tanto la mor­ti­fi­ca­zione e la ver­go­gna, e i fit­tizi pia­ceri sem­pre con­tesi, sem­pre tra­di­tori, pagati ogni volta con lagrime umi­lianti. Il caso di Catullo fu, se non erriamo, di quelli che il vici­nato sen­si­bile suole com­men­tare così: «Ah, che pec­cato! Quel pazzo Catullo avrebbe “tutto”: è un bel gio­vane, di ottima fami­glia, bene­stante, si fa onore coi versi. Ci sareb­bero tante ragazze per bene che lo vor­reb­bero, e invece si perde con quella…»; e qui avrebbe posto una parola di più, che pre­fe­riamo non tra­scri­vere, per­ché ver­rebbe can­cel­lata dai censori.

Com’era, Catullo, di aspetto? Con­fes­siamo che, dal tempo della scuola, non ci siamo più occu­pati molto di lui, né abbiamo, nella pre­sente occa­sione, con­sul­tato le Sto­rie per cer­carvi una descri­zione veri­tiera di que­sto infe­lice poeta. Per cui segui­te­remo a raf­fi­gu­rar­celo come ci piac­que pen­sarlo allora, al tempo che ave­vamo quat­tor­dici anni di età. Gra­zioso, ma un po’ sbat­tuto e pal­lido, sia per la pas­sione che lo strugge, e sia per la morte che lo incalza e lo rag­giun­gerà ai suoi trent’anni. Senza con­tare la vita disor­di­nata che ama con­durre, e le cat­tive com­pa­gnie che fre­quenta e alle quali, nelle sue poe­sie, non rispar­mia ogni sorta di con­tu­me­lie e paro­lacce. È di un’eleganza un po’ tra­san­data, e i suoi capelli son pro­fu­mati d’unguenti, ma spesso, tut­ta­via, scom­po­sti. Ha, insomma, la spa­valda e pate­tica appa­renza di quei per­so­naggi roman­tici che cer­cano di casti­gare nel liber­ti­nag­gio le loro dif­fi­cili pas­sioni.
E Lesbia, com’era? Gli sto­rici affer­mano che in realtà si chia­mava Clo­dia, ed era bel­lis­sima e cor­rot­tis­sima. Seb­bene fosse una donna mari­tata, Catullo la chiama mea puella, «la mia ragazza». E da prin­ci­pio, nei suoi versi, Lesbia si mostra in atti così deli­cati da farsi dav­vero cre­dere una buona ragazza, e non la donna infame ch’è pas­sata alla sto­ria. Il suo ritratto più famoso, che pure i bam­bini cono­scono, ce la dipinge pue­rile e affa­bile men­tre gioca col suo amico pas­se­rotto, che le mor­dic­chia il dito. E quando, per sua mala sorte, il pas­sero muore, Lesbia è un’immagine di materna pietà: «Gli occhietti della mia ragazza» rac­conta l’attristato Catullo «son gonfi e rossi dal piangere».

Ben più mali­ziosa si dimo­strò, in una occa­sione ana­loga, la «donna cat­tiva» d’un altro poeta. Alludo alla Eugène di Ver­laine; la quale, mor­tole l’adorato frin­guel­lino, dopo averli dato essa stessa glo­riosa sepol­tura nel Pan­theon, non poté tenersi dall’osservare: «Forse, con­ve­niva meglio met­terlo sul mio cap­pello!».
Dice­vamo che da prin­ci­pio Lesbia è tutta gra­zie e gene­rosi abban­doni, e Catullo, quasi pre­sen­tando il breve corso dei suoi pia­ceri, vor­rebbe accu­mu­larli senza tre­gua, con ava­ri­zia sma­niosa e forse già dispe­rata: «O Lesbia mia, i soli segui­te­ranno a sor­gere e tra­mon­tare; ma a noi, tra­mon­tato una volta per sem­pre la nostra breve luce, toc­cherà dor­mire una eterna notte. Oh, dammi mille baci, e poi altri cento, e poi mille ancora, e poi cento altri ancora. E adesso, tutte que­ste migliaia di baci, mischia­mole insieme in fretta, senza con­tarle, per paura che l’invidia, al cono­scere un tal numero di baci, non ci getti la mala sorte». I timori super­sti­ziosi di Catullo han pre­sto ragione. Inco­min­ciano le discor­die e quelle sepa­ra­zioni che, seb­ben pas­seg­gere, paiono ogni volta defi­ni­tive e fatali agli amanti, cui nes­suna espe­rienza basta: «Ah, mise­ra­bile Catullo!» grida il poeta a se stesso «fini­scila di fare il pazzo e ras­se­gnati a con­si­de­rare per­duto ciò che non tor­nerà mai più. Per te splen­det­tero un tempo can­didi soli, esi­sté un tempo in cui, dovun­que la ragazza fra tutte più amata ti con­du­cesse, là tu andavi. E una volta solo con lei, face­vate insieme quei gio­chi squi­siti che tu volevi, e lei non disvo­leva. Allora, allora splen­det­tero can­didi soli per te. Adesso lei non vuol più saperne; e dun­que, poi­ché non v’è altro da fare, o Catullo, fatti forza e non voler più saperne tu pure. Non cor­rere die­tro a chi fugge, e non cedere a que­sta ango­scia. Resi­sti, fatti un animo riso­luto, sii infles­si­bile. Addio, fan­ciulla. Catullo ormai è infles­si­bile, non ti cer­cherà e non ti pre­gherà se tu rifiuti. E tu, quando non sarai più pre­gata, inco­min­ce­rai a rim­pian­gere. Ah, guai a te, pove­rina! Quale vita ti resta! Chi verrà dun­que a cer­carti? a chi sem­bre­rai bella? chi ame­rai? a chi dirai: “sono tua” ? chi bace­rai? Basta; ma tu, Catullo, bada, non cedere, sii inflessibile».

Simili accenti son certo pie­tosi, ma si avverte in essi, tut­ta­via, un sapore di scherzo e d’idillio e, di là dal dram­ma­tico liti­gio, s’intravvede la ricon­ci­lia­zione. Ma quale ama­rezza nuova ci svela il Carme Undi­ce­simo, là dove Lesbia è sma­sche­rata e la spa­ven­tosa realtà si spo­glia d’ogni lusinga! Ivi Catullo prega com­pa­gni e amici di gri­dare a tutti i venti, sì che pene­tri fin tra gli ircàni e gli arabi, e vali­chi le Alpi, e corra alla Gal­lia e alla Bri­tan­nia remota, que­sto mes­sag­gio che lui mede­simo, Catullo, manda a Lesbia: «Viva ella e pro­speri coi suoi tre­cento amanti, che abbrac­cia tutti in una volta, non aman­done alcuno. E non si curi più dell’amore mio, che per sua colpa è caduto come il fiore del prato che l’aratro schiac­cia passando».

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