18 giugno 2013

MOSTRA SULL'OPERA DI BOLANO A BARCELLONA



                               Alberto Magnet - Bolaño nelle catacombe
                                                       Trad. di Jaime Riera Rehren

Qualche settimana fa sono andato a vedermi la mostra sull’opera di Roberto Bolaño – decimo anniversario della morte – al Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona. Lo spazio della mostra consiste di una sala con due ali di grandi dimensioni dove potrebbe dispiegarsi una mostra sull’arte delle grandi dinastie egizie. Anche se lo spazio si trova al piano terreno, entrando si ha l’impressione di essere scesi sotto il livello del suolo, e coni e bastoncelli stentano ad abituarsi alla penombra regnante. L’enorme sala – per via della scarsa illuminazione e di una colonna sonora avvolgente che fa pensare a fatidici e sgradevoli lamenti provenienti dalle viscere della terra, e che a tratti sembra riprodurre in sordina le preghiere di fedeli atterriti nelle profondità di una catacomba – predispone il visitatore a sprofondare in un inquietante stato d’animo. Un misto di tensione e allerta che certo non contribuisce a un’esperienza rilassata. Per fortuna in quello spazio di più di mille metri quadrati non c’erano in quel momento che venticinque persone.
Se riesce a superare l’impatto di un simile allestimento, concepito da chi non ha mai letto Bolaño ma ha frequentato assiduamente le discoteche o ha sofferto di orrendi incubi lisergici, gli occhi del visitatore si posano su una targa di metacrilato dove si può leggere una frase del Manifesto Infrarealista del 1976, probabilmente uscita dalla penna dello stesso Bolaño: “Non solo nei musei c’è la merda”. Sembra che lo spirito dello stesso Bolaño si sia piazzato all’ingresso della mostra per avvertirci di ciò che troveremo all’interno.
D’altronde non a caso faccio riferimento alle dinastie dell’antico Egitto, giacché persino chi non ha mai visitato una mostra di questo genere ha la sensazione di trovarsi in un ambiente che invita ad addentrarsi in un passato remoto, con scaffali allineati lungo i muri che racchiudono oggetti che potrebbero essere collezioni di antichissimi gioielli, suppellettili liturgiche, reperti rinvenuti in qualche tomba reale sepolta sotto secoli di sabbia, esposti in una luce meschina che sembra ammonire: Si guarda ma non si legge. In realtà questi dettagli potrebbero anche apparire secondari nel commentare una mostra, tuttavia per chi soffre di un qualche problema alla schiena (il 60% circa della popolazione mondiale), l’altezza a cui sono collocati gli scaffali costituisce una vera sfida. La scelta di esporre il materiale in questo modo è frutto della malsana idea che concepisce i manoscritti di Bolaño come oggetti-feticcio, esposti per essere guardati o ammirati, ma certamente non per essere letti. La calligrafia dello scrittore, minuta e fitta, non si presta alla lettura da una distanza superiore ai quaranta centimetri, il che obbliga l’occasionale lettore ad adottare un’umile e dolorosa inclinazione a novanta gradi.
Viene esposta anche una quantità di fotografie, che hanno la particolarità di mostrare lo scrittore nella fase della sua vita che comincia in Catalogna nel 1977 e finisce con la morte. Si possono vedere solo poche immagini dei periodi precedenti, quello messicano e quello cileno. Anche i manoscritti e i diari esposti appartengono soprattutto alla sua vita catalana. Si potrà dire che è stato il periodo più importante dal punto di vista della produzione letteraria, ma l’insieme degli oggetti in mostra offre a mio avviso una visione assai parziale di una vita che è andata ben al di là della realtà di Barcellona, Girona o Blanes. Come se una mano oscura avesse imposto dei limiti alla possibilità di mostrare un Bolaño più completo, di aprirsi a un’interpretazione più poetica e meno commerciale della sua opera, al suo tenero e intimo sguardo sul mondo. Una prospettiva aperta alle diverse fasi della sua vita avrebbe dovuto includere necessariamente, per esempio, l’importante periodo finale, trascorso insieme a Carmen Pérez de Vega, la donna che lo accompagnò fino all’ultimo giorno. In questo senso aleggia sulla mostra del Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona l’ombra di una censura. Invece di una mostra sulla vita e l’opera di Roberto Bolaño, dall’infanzia infrarealista fino alla maturità dell’autore dei Detective selvaggi e di 2666, con l’enorme carica di vitalità che la contraddistingue, il visitatore trova una celebrazione della vita e dell’opera di san Roberto Bolaño.
In effetti, se la misera illuminazione di quella sala fosse sostituita da moccoli di candela, nulla cambierebbe. L’orrendo suono avvolgente suggerisce la grave agonia di un organo che trasmette subliminalmente l’idea che ci troviamo di fronte a oggetti sacri normalmente occulti ai semplici mortali, fissati, imbalsamati per sempre in tetre nicchie, come quell’insolita collezione di occhiali tristi e spersonalizzati al fondo di una piccola teca.
Tutto ciò rimane immensamente lontano dall’autentico universo di Bolaño, la cui principale virtù è stata e continua a essere quella di gettare luce sulla vita e su un panorama delle lettere ispaniche – e universali – che a volte a lui sembrava un “deserto di noia”. La vita di Bolaño è contrassegnata dalla volontà di aprirsi al mondo e di rompere i confini accostando la poesia a un’esperienza vitale le cui radici appartenevano all’esilio, una vita che, appunto, metteva radici, profonde o fugaci, dovunque lui si trovasse. La precarietà a cui fu quasi permanentemente costretto, non fu mai pretesto per fuggire dal mondo e cercare un rifugio nel buio che domina l’inquietante spazio dove sono finiti i suoi manoscritti. L’ottimismo che sottostà alla forza con cui Bolaño affrontò i passaggi più difficili della sua esistenza e lo aiutò ad attraversare i “deserti di noia”, è un ottimismo gaio, nutrito dal permanente scambio con la luminosità di ogni cosa, di ogni amicizia, di ogni esperienza. Chiunque può rendersene conto se, schiena permettendo, riesce a leggere gli scritti esposti, scoprendone il valore intrinseco che ad ogni riga smentisce la meschinità oscura che li accoglie.
Uscendo dalla mostra, il visitatore torna a vedere la targa sulla spazzatura e i musei, e la contraddizione si fa evidente. Sospetto che a Bolaño sarebbe costata una grande fatica autorizzare una mostra su ciò che lui stesso rifiutava di definire “la sua opera”, ma se per qualche motivo ci fosse stato costretto, avrebbe imposto un cambiamento fondamentale: accendere le luci e aprire le porte per far entrare il sole di mezzogiorno, la luce e l’aria, elementi che cospirano contro l’oscurantismo del culto.

Alberto Magnet è cileno e vive a Barcellona, è nato nel 1953, lo stesso anno di Bolano. Vive in catalogna dagli anni successivi al golpe. Scrittore e traduttore, collabora con diverse testate giornalistiche online.

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