27 giugno 2013

SULLE ULTIME ABIURE DI LUCIANO CANFORA 1 e 2




Anche se trovo assai discutibile accostare la vita di Antonio Gramsci a quella di Delio Cantimori  - ancora più discutibile  “sollecitare” i testi di Gramsci, seguendo le orme dell’ultimo Lo Piparo,  per fargli dire  più di quanto il sardo volesse! -  il seguente articolo di Canfora merita di essere letto come un segno dei tempi barbari che ci è toccato di vivere.

P.S. Un carissimo amico, più indulgente di me nei confronti di Canfora, mi invita a spiegare meglio il mio punto di vista. Per farlo non trovo di meglio che ricorrere a Gramsci:

" Sollecitare i testi " . Cioè far dire ai testi, per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono. Questo errore di metodo filologico si verifica anche all'infuori della filologia, in tutte le analisi e gli esami delle manifestazioni di vita. Corrisponde, nel diritto penale, a vendere a meno peso e di differente qualità di quelli pattuiti, ma non è ritenuto crimine, a meno che non sia palese la volontà di ingannare: ma la trascuratezza e l' incompetenza non meritano sanzione, almeno una sanzione intellettuale e morale se non giudiziaria? "  
 (A. Gramsci, Quaderni, Ed. critica, vol. II, pag.838, Einaudi 1975.)


Luciano Canfora – Fascismo e comunismo, delusioni annunciate


«Mi pare che se dovessi ora uscire di carcere, non saprei più orientarmi nel vasto mondo, non saprei più inserirmi in nessuna corrente sentimentale, ma continuerei a vivere col solo cervello e con la sola volontà, vedendo in tutti gli uomini (anche in quelli che dovrebbero essermi vicini) non degli esseri viventi ma dei problemi da risolvere. Io non voglio pretendere che la ragione di questo mio imbozzolamento sia da ricercare solo fuori di me, il fatto è che da me stesso non so superare questa condizione che in un solo modo, rifugiandomi nel puro dominio dell'intelletto astratto, facendo cioè del mio isolamento la esclusiva forma della mia esistenza. Non ho voluto più oltre tenerti celato questo aspetto della mia vita».



Questo abbozzo di lettera alla moglie, scritto da Antonio Gramsci con tutta probabilità nel novembre 1931 — edito già da Felice Platone su «Rinascita» (aprile 1946) e da ultimo da Gianni Francioni (2007) — può essere accostato alla lettera nella quale Gramsci, scrivendo a Tania, definisce «un grande errore, un dirizzone» l'intera propria vita (27 febbraio 1933). Entrambi i testi gramsciani, che sono palesemente in reciproca correlazione, trovano rispondenza in un altro appunto, inedito e autobiografico: quello di Delio Cantimori, datato 28 marzo 1956, intitolato «I miei grandi sbagli». Lo aveva pubblicato Luisa Mangoni, e ora lo ripubblica Albertina Vittoria nell'introduzione, assai ben fatta, al carteggio tra Cantimori e Gastone Manacorda (Amici per la storia, Carocci). In tale appunto, si affollano autocritiche di carattere privato e di carattere politico. Qui premono queste ultime, indicanti appunto i «grandi sbagli» che Cantimori si rimprovera: «1. Credere di capire qualcosa di politica»; «4. Saltare tra i comunisti. 5. Iscrivermi al Pci. 6. Lasciare i miei studi per tradurre Marx». E come rimedio indica: «Per il resto ritirarsi nei propri studi. L'unico rimedio».


L'abbozzo di Gramsci del novembre '31, vergato alla c. 23r-v del cosiddetto Quaderno B, rimase fuori dalla stesura definitiva della lettera cui inizialmente apparteneva (30 novembre 1931 a Giulia, Lettere dal carcere, edizione Fubini-Caprioglio, pp. 532-533). Pur avendo scritto «non ho voluto più oltre tenerti celato questo aspetto della mia vita», alla fine Gramsci decise di non scrivere a Giulia quelle parole pesantissime. Pesantissime anche sul piano politico, in quanto dichiarano comunque chiusa la sua vicenda politica, pur nell'eventualità che «dovessi ora uscire di carcere». Sarebbe un puerile autoinganno non leggere in termini politici la frase «non saprei più inserirmi in nessuna corrente sentimentale». (Libero, beninteso, chi lo vuole, di pensare che con quelle parole Gramsci si dichiarasse incerto se aderire, una volta fuori del carcere, al romanticismo alla Berchet o allo stilnovismo o alla scuola siciliana di Cielo d'Alcamo).


La politica intesa come culmine dell'azione morale (non come mestiere più o meno estemporaneo o, peggio, lucrativo) è esperienza totalizzante, coinvolge tutti gli aspetti dell'esistenza. Ciò si verifica tanto più quando si tratti di una politica sorretta da idee e concezioni grandi e impegnative: quelle che taluni da ultimo chiamano, con sussiegosa ignoranza, «le ideologie». In tali scelte, specie se attuate in momenti storici quali quelli vissuti da Gramsci (prima del carcere) e da Cantimori (dopo la Liberazione), si investono e si bruciano tutte le energie di un individuo, intellettuali e pratiche. È quasi immancabile la delusione soggettiva; e merita rispetto. Essa nasce dalla constatazione di non aver potuto comprendere appieno le ragioni profonde delle vicende pur così intensamente vissute e la vera natura delle forze agenti nei conflitti, nei quali ci si è tuffati a capofitto, seguendo un archetipo che fu già alla base del primo proselitismo cristiano («Lascia tutto e seguimi!»). 



Sono soprattutto i militanti dotati di grandi risorse intellettuali che alla fine non reggono; e solo alcuni di essi serbano in sé la convinzione che, pur non potendo andare le cose diversamente da come sono andate, ne valeva la pena. «Rifugiarsi nel puro dominio dell'intelletto astratto, facendo del mio isolamento la esclusiva forma della mia esistenza» è l'approdo di Gramsci nel novembre 1931. E non ridiremo qui le tempeste e le brucianti delusioni, provenienti dalla propria parte, che lo avevano indotto a tale dichiarazione programmatica. «Ritirarsi nei propri studi. L'unico rimedio» è l'approdo di Cantimori alla fine di marzo del 1956.


Chi — come Cantimori — aveva scelto il comunismo lasciandosi alle spalle l'esperienza, a lungo coltivata, di «fascista di sinistra di matrice mazziniana» (come il fantomatico signor Cappa della mirabile e autobiografica introduzione cantimoriana al primo tomo del Mussolini di Renzo De Felice); chi — come lui — passava al comunismo sul finire della guerra mondiale, cioè nel momento di massima identificazione del comunismo in Stalin; chi dunque «saltava tra i comunisti», come Cantimori si esprime in quel prezioso appunto, prendendo tardive distanze dalla rivoluzione «sbagliata» (quella fascista e anche quella nazionalsocialista) non poteva non rimanere travolto da quel terremoto, mai risarcito, del comunismo mondiale che fu il XX Congresso del Pcus, culminato nella demolizione — storiograficamente frettolosa, ma politicamente incalzante — della figura e dell'opera di Stalin (inclusa la gestione sua della «grande guerra patriottica»). Uno storicista integrale come Togliatti poté, non senza scricchiolii, reggere il colpo; un ex «fascista di sinistra» molto meno: soprattutto nella convinzione, facile da prodursi in quella circostanza, di aver commesso per la seconda volta lo stesso errore politico.


Il XX Congresso era già stato, nelle sue sedute pubbliche (febbraio 1956), una prova sconcertante (istruttivo il Diario del XX Congresso di Vittorio Vidali, Vangelista Editore, 1974), specie quel misterioso martellamento contro gli «errori» di «una certa personalità» (cioè Stalin, innominato). Ma il rapporto «segreto», nella sua sommaria e talora maldestra foga iconoclastica, era molto di più: scardinava fedi e certezze consolidate, fedi e certezze per le quali milioni di uomini erano andati incontro alla morte inneggiando a Stalin. La prima notizia del «rapporto segreto» la diede Harrison Salisbury sul «New York Times» il 16 marzo 1956; il suo articolo fu tradotto in Italia quasi immediatamente da «Relazioni internazionali» (autorevole settimanale dell'Ispi di Milano) in edicola il 24 marzo; e la sostanza del rapporto la diffuse poco dopo il quotidiano dei comunisti jugoslavi «Borba» a Belgrado, ripreso in tutto il mondo. L'appunto di Cantimori è del 28 marzo.


Cantimori aveva svolto un ruolo direttivo nella politica culturale ed editoriale del Pci nel decennio 1945-55. In quegli anni, disse Gastone Manacorda in un importante convegno su Cantimori svoltosi nella natia Russi nel 1978, i «classici del marxismo» da pubblicare, studiare e diffondere erano quattro: Marx, Engels, Lenin e Stalin. E tale era il convincimento di Cantimori (e dello stesso Manacorda, a quel tempo). Il tracollo di tutto ciò, implicito — per chi avesse la sensibilità di non autoingannarsi — nel «rapporto segreto», era troppo forte perché una scelta di vita non ne venisse messa in crisi in radice. È quello che accadde allora a Cantimori e che determinò le sue scelte intellettuali e pratiche successive, fino alla morte precoce nel 1966. Del che dà conto questo importante carteggio egregiamente curato da Albertina Vittoria, una delle migliori nostre studiose di quell'importante capitolo della storia culturale d'Italia che fu la politica culturale del Pci.

Corriere della Sera  27  giugno 2013, pag.36

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