24 giugno 2013

PER UN MONDO PIU' GIUSTO







Una lettura interessante di ciò che sta accadendo in Turchia e Brasile, fondata sui modelli interpretativi di Samuel Huntington, studioso di grande valore ma poco apprezzato in Italia.

Moisés Naim - Dalla Turchia al Brasile, il filo che unisce la protesta

In principio fu la Tunisia, poi il Cile e la Turchia. E ora il Brasile. Che cos’hanno in comune le proteste di piazza in Paesi così diversi tra loro?Varie cose… e tutte sorprendenti.

1. Piccoli incidenti che diventano grandi. In tutti questi casi, le proteste sono partite da avvenimenti locali che inaspettatamente si sono trasformati in un movimento nazionale. In Tunisia tutto cominciò quando un giovane venditore ambulante di frutta, non sopportando più gli abusi delle autorità, si immolò dandosi fuoco. In Cile furono i costi degli studi universitari. In Turchia un parco, e in Brasile le tariffe degli autobus. Con sorpresa dei manifestanti stessi – e dei governi – queste rivendicazioni specifiche hanno trovato eco tra la popolazione e si sono trasformate in proteste generalizzate su temi come la corruzione, la disuguaglianza, l’alto costo della vita o l’arbitrio di autorità che agiscono senza tener conto delle opinioni dei cittadini.

2. I Governi reagiscono male. Nessuno dei governi dei Paesi dove sono scoppiate queste proteste è stato in grado di anticiparle. Inizialmente non hanno nemmeno compreso quale fosse la loro natura, e non erano preparati per affrontarle con efficacia. La reazione comune è stata quella di inviare i reparti antisommossa per disperdere le manifestazioni. Alcuni governi si sono spinti più in là e hanno scelto di schierare l’esercito. Gli eccessi della polizia o dei militari hanno finito per aggravare ulteriormente la situazione.

3. Le proteste non hanno capi né una catena di comando. Queste mobilitazioni di rado hanno una struttura organizzativa o leader chiaramente definiti. Alla fine qualcuno dei protestanti si mette in luce più degli altri, che li designano (o i giornalisti li identificano) come portavoce. Ma questi movimenti – organizzati spontaneamente attraverso reti sociali e messaggi di testo – non hanno né leader né una catena di comando.

4. Non c’è qualcuno con cui negoziare o qualcuno da incarcerare. La natura informale, spontanea, collettiva e caotica delle proteste disorienta i governi. Con chi negoziare? A chi fare concessioni per placare l’ira delle piazze? Come fare a sapere se quelli che appaiono come i leader sono realmente in grado di rappresentare e impegnare gli altri?

5. È impossibile prevedere le conseguenze delle proteste. Nessun esperto è riuscito a prevedere la primavera araba. Fino a poco tempo prima della loro repentina defenestrazione, Ben Alì, Gheddafi o Mubarak erano considerati da analisti, servizi segreti e mezzi di comunicazione come leader intoccabili, di cui si dava per certa la permanenza al potere. Il giorno seguente, quegli stessi esperti spiegavano perché la caduta di questi dittatori era inevitabile. Come non si sa perché né quando cominciano le proteste, così non si sa come e quando termineranno e quali saranno i loro effetti: in alcuni Paesi non hanno avuto conseguenze di vasta portata, o hanno prodotto solo riforme di minor rilevanza; in altri, le mobilitazioni hanno fatto cadere governi. Non sarà questo il caso del Brasile, del Cile o della Turchia, ma non c’è dubbio che il clima politico in questi Paesi già non è più lo stesso.

6. La prosperità non compra la stabilità. La principale sorpresa di queste proteste di piazza è che sono avvenute in Paesi di successo, dal punto di vista economico. La Tunisia aveva la migliore situazione economica del Nordafrica. Il Cile è un esempio mondiale del fatto che lo sviluppo è possibile. Definire la Turchia un “miracolo economico” negli ultimi anni è diventata una banalità. Il Brasile non solo ha tirato fuori milioni di persone dalla povertà, ma è riuscito perfino nell’impresa di ridurre la disuguaglianza. Tutti questi Paesi oggi hanno una classe media più numerosa che mai. E allora? Perché scendere in piazza a protestare, invece di festeggiare? La risposta sta in un libro pubblicato nel 1968 dal politologo statunitense Samuel Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale.

La sua tesi è che nelle società che sperimentano trasformazioni rapide, la domanda di servizi pubblici cresce a velocità più sostenuta della capacità che hanno i governi di soddisfarla. È questo il divario che spinge la gente a scendere in piazza per protestare contro il governo. E che alimenta anche altre, giustificatissime proteste: il costo proibitivo dell’istruzione superiore in Cile, l’autoritarismo di Erdogan in Turchia o l’impunità dei corrotti in Brasile. Sicuramente in questi Paesi le proteste si spegneranno, ma questo non significa che le loro cause scompariranno: il divario di Huntington è incolmabile.

E questo divario, che produce turbolenze politiche, può essere trasformato in una forza positiva che favorisce il progresso.


(Da: La Repubblica del 24 giugno 2013)

Moisés Naím (1952) è uno scrittore e giornalista venezuelano, membro dell' International Economics Program del Carnegie Endowment for International Peace.

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