06 giugno 2013

UNA CASA PER I GIOVANI D'OGGI







Riprendiamo dal sito Dinamopress: http://www.dinamopress.it/inchieste/carpentieri-coraggiosi una interessante inchiesta sull’attuale crisi del settore edilizio, con particolare riferimento al problema della casa che manca alle giovani generazioni.
 Gli autori dell’inchiesta mostrano come, per uscire dalla crisi, occorre cambiare radicalmente il nostro modo di pensare e di costruire case.

ROSSELLA MARCHINI e ANTONELLO SOTGIA  - CARPENTIERI CORAGGIOSI

 “Non esiste un buco del culo del mondo dove non ci possono entrare i grattacieli”.
Lo dice in “Resistere non serve a nulla” – il bel romanzo sul mondo della finanza senza patria di Walter Siti – uno di quei personaggi che, con un click e in pochi secondi, spostano masse di denaro in territori che spolpano. Anche piantando edifici.
Torri sempre più alte con ombre sempre più lunghe coprono la miseria e la devastazione sociale riciclando, in questa tipologia, l’immaginario dell’abitare che esse annientano. Anche nel nostro paese. Dal bosco “verticale” milanese, alla torre all’Eur della Provincia di Roma, pegno in cemento alla cartolarizzazione e alienazione di un immenso patrimonio pubblico e dei suoi spazi di riferimento urbani. Ovunque nel mondo. Dalle nuove città asiatiche ai grattacieli sul “planalto” di Luanda (Angola).
Per l’abitare domani è un altro giorno
Per restare in Italia, è più una domanda che un’asserzione. Pensando alle case, la materia di cui è fatta principalmente la città, il punto interrogativo è d’obbligo. La casa prende forma all’interno dei “pensieri” di trasformazione urbana sospinta da un vento insidioso che l’accompagna sulla città in modo continuativo, creando, contemporaneamente, la speranza di un abitare che non sia solo confinato e rappresentato dal feticcio della casa ma, al tempo stesso, ne celebri la potenza. Ora questo vento soffia molto debolmente. Incapace di proporre l’abitare, ingloba tutto in una bonaccia, che avvolge così la casa e i tanti lavori di chi le case le costruisce. Un crollo secondo analisti e costruttori.
Anni neri
Limitandoci ad esaminare quello che avviene in Italia, il Rapporto immobiliare del 2013 relativo al mercato degli immobili nel 2011, presentando il computo delle compravendite del settore, mostra che le transazioni eseguite sono ormai ridotte ai valori del 1985. Una caduta stimata con un meno 25,7% rispetto l’anno precedente. Questo vuol dire che almeno 150 mila appartamenti, rispetto a quanto era avvenuto l’anno prima, non hanno trovato un nuovo proprietario. Così, ad un mercato pesato intorno una movimentazione per un valore complessivo di 75,4 miliardi di euro ne sono venuti a mancare 27.
Meno peggio, rispetto il dato nazionale, è andata a Roma città (-23%) dove la crisi del mercato è iniziata con un anno d’anticipo (2006) rispetto quanto avvenuto nelle altre grandi città italiane (2007). Una consolazione effimera andando a vedere cosa è successo nelle principali aree metropolitane del paese. In questa classifica l’area metropolitana romana conquista e tiene saldamente (-31,7%) la corona della hit.
Non solo numeri
Fin qui il Rapporto. Con i suoi numeri. Con le sue considerazioni. A volte impietose: come quando, con asettica esposizione, si elegge ancora Roma quale leader degli acquisti di “nuda proprietà”, ovvero la modalità di acquisizione di un appartamento occupato da un anziano sulla cui morte, riconoscendogli l’usufrutto, scommettere per entrare in quelle stanze. Esistono (Torino) agenzie specializzate nel dare la caccia ad over 65 che versano in pesanti condizioni economiche, ma proprietari di casa; da negoziare sul mercato immobiliare. A partire da tabelle che fissano le condizioni secondo parametri statistici tarati sull’aspettativa di vita. Obbligazioni e cedole che, invece che sulle scadenze, puntano sui certificati di morte.
“Quando va l’edilizia va il paese”
Sembra che sia un detto francese, ma molti lo hanno fatto proprio. Come quei Consigli regionali che hanno licenziato Piani Casa nel tentativo disperato di fare cassa attraverso la corresponsione dei relativi oneri di urbanizzazione e imposizioni di tasse. Concessioni edilizie come sportelli bancomat o meglio “Zecca” (Tocci).
Per questo in molti tentano di rianimare questo settore guardandosi bene, però, dall’iniziare a staccarlo dalla sua grande coinquilina: la rendita, che del resto, dopo aver abitato come un paguro l’edilizia, rafforzando le pareti della conchiglia rappresentata dal profitto, ha deciso da qualche tempo di abbandonarla. Quando si è resa conto di poter ottenere di più (molto) facendo di meno. Che non occorreva neppure sporcarsi le mani con cemento e macchine che movimentano terra, spostare uomini e mezzi, con permessi, e prebende da elargire per cambiare destinazioni d’uso ad aree e immobili.
Finanza e immobiliarismo
Il mondo della finanza si serve dell’immobiliarismo per comprarsi la città e il territorio. Pezzo per pezzo. Di farsela costruire per poi mangiarsela. Ha bisogno di farlo attraverso le case che, negando la loro stessa funzione, rivoltano l’abitare senza passare per il diritto alla città. Costruisce così un nuovo paesaggio di riferimento all’interno del quale, con la proposizione ininterrotta della città diffusa, dare forza al continuo processo di espropriazione territoriale per fare di tutto il territorio merce.
Dove viviamo?
Viviamo all’interno di un territorio dove le forme dell’abitare vengono cancellate. Si realizzano case e, al tempo stesso, le si sollevano dal terreno, quasi smaterializzandole, per travasarle in operazioni continue così riassumibili: ci sono case (tante) ed altre (sempre tante) se ne vorrebbero fare (è il mercato edilizio); c’è chi pensa di farle diventare più grandi per continuarle a costruire senza consumare terreno (è la densificazione); chi di recuperare le molte costruzioni abbandonate che, nel tempo, hanno visto trasformare la propria alterigia, dovuta alle funzioni per cui erano nate (lavoro, istruzione, commercio, produzione), in struggenti fossili edilizi, per riconvertirle (è la rigenerazione).
Tutto questo all’interno di un processo che tende a considerare lo spazio della città interamente disponibile alle forme dello sfruttamento, assecondando un disegno che taglia servizi, elimina ogni assistenza, estirpa diritti. Intervenendo così sulla vita di tutti colpisce e colpisce duro. Senza riguardo alcuno attaccando, quasi un paradosso, anche il lavoro (i lavori) di chi, quelle case, deve realizzare prima della loro trasformazione in carta e permettere così di perpetuare la strategia del comando finanziario.
Siamo passati – a Roma, ma è lo stesso per le principali aree metropolitane del paese – dal vivere in un territorio definito come città senza case e in case senza città, in un insieme di frammenti edilizi dove questa definizione si invera in agglomerati di case senza servizi, isolati all’interno di una mutazione territoriale che nega l’abitare come costruzione collettiva della città.
Come succede tutto questo al tempo della crisi?
Andiamo con ordine.
Il primo passo per poter tirare su case è avere il progetto. Si ottiene la concessione edilizia per consegnarlo, nella sua forma esecutiva, ad un’impresa che realizzi gli edifici autorizzati. Occorre rivolgersi ad un professionista. Sarà lui a progettare gli spazi, calcolare le dimensioni delle strutture e degli impianti tecnologici, dirigere i lavori di costruzione, preparare il piano di sicurezza e verificare che le norme siano rispettate. Per la scelta dei tecnici è a disposizione un numero esorbitante di professionisti.
Si inizia con un pezzo di carta. Tra grandi firme…
In Italia ci sono 147 mila architetti e 75 mila ingegneri edili. Numeri che nascondono una realtà del mercato del lavoro molto complessa. Sono architetti liberi professionisti Renzo Piano, con i quasi 11,3 milioni messi a bilancio del proprio studio l’anno scorso, Antonio Citterio, architetto e designer milanese, con 11 milioni, Marco Tamino, a capo della società romana Ingenium Real Estate, con 8,2 milioni e Massimiliano Fuksas, altra grande firma italiana nota a livello internazionale, che rispetto al bilancio 2009 perde quasi metà dei ricavi, fermandosi (sic) a 7,8 milioni.
… e quelli a partita Iva
Vengono considerati liberi professionisti anche i giovani architetti, quelli che lavorano negli studi professionali attraverso l’inganno della partita Iva. Una marea di liberi professionisti “impropri” che lavorano come dipendenti a tutti gli effetti, in un unico studio, otto ore al giorno, per cinque giorni alla settimana, seduti al computer a eseguire gli ordini per 400, 600 o al massimo 850 euro.
Ovviamente facendo fattura, per quel lavoro che può finire da un giorno all’altro. In questo modo i giovani “professionisti” sono enormemente sottopagati, si trovano a dover versare contributi che non gli competerebbero, non hanno assistenza, ferie pagate, tredicesima ecc… mentre il datore di lavoro, anch’esso architetto, non paga ciò che dovrebbe. Gli ordini professionali, a cui è obbligatorio iscriversi, non hanno mai tutelato i loro giovani iscritti.
Nel pacchetto della Manovra bis per la liberalizzazione delle professioni è stata inclusa, ora, anche l’assicurazione professionale obbligatoria. Giusto per chi in effetti firma progetti, ma per chi lavora in uno studio dove i progetti vengono firmati da altri è l’ennesimo peso economico e l’ennesimo inganno.
Che succede in Europa?
Il mercato del lavoro dell’architettura  in Europa si è ridotto a un valore di 15 miliardi di euro. Il settore pubblico riguarda solo il 20% del totale ed è aumentata la dipendenza dall’edilizia privata.
Mentre crollava la produzione cresceva il numero degli architetti europei, oggi pari a 536 mila unità, il 10% in più rispetto al 2008. Complessivamente il numero di studi di architettura in Europa è aumentato da 130 mila nel 2008 a 162 mila nel 2012. Questo perché nuove realtà sono state avviate dai professionisti licenziati dai grandi studi e il numero totale degli architetti nel continente è cresciuto.
L’architetto balla da solo…
Gli studi che si organizzano mediante partnership sono dimezzati: dal 18% del 2008 al 9% della rilevazione attuale. La maggior parte di coloro che svolgono la professione continua a lavorare, da solo, in uno studio privato. La tipologia di svolgimento più rappresentativa è quella composta dall’unico titolare (32% del totale), in crescita rispetto al 2008. La quota di architetti che lavorano invece in agenzia o come freelance è aumentata: dal 15% nel 2008 al 18% nel 2012. Il settore pubblico registra infine un calo: dal 12% nel 2008 al 10% nel 2012.
… e guadagna di meno
La media delle tariffe orarie sono diminuite nel 2012. I guadagni medi hanno continuato a livellarsi verso il basso. La media annua europea nel 2008 era pari a 34.000 euro, oggi è di poco inferiore a 29.000 euro. Secondo l’Osservatorio annuale sul Mercato della Progettazione Architettonica (realizzato dal CRESME per il Consiglio nazionale dell’ordine degli Architetti) il mercato dei servizi di progettazione svolti dagli studi professionali di architettura è calato in Italia, dal 2006 al 2011 del 28%. Un calo che, considerando anche la crescita del numero di architetti iscritti all’albo, arriva quasi ad un decremento del 40% in termini di quota di mercato pro-capite.
E gli ingegneri?
Una situazione di tale difficoltà non poteva non avere un impatto anche sul mercato degli ingegneri. Secondo l’indagine Excelsior del Ministero del Lavoro la domanda complessiva di ingegneri nel 2012 è risultata in calo del 27,3% rispetto all’anno precedente. Siamo ai livelli più bassi registrati negli ultimi sette anni.
I grandi gruppi europei e in particolare le grandi società di ingegneria, hanno strutture multidisciplinari e sono diventate dei colossi organizzativi che sembrano appartenere a una dimensione per il nostro paese irraggiungibile.
La fotografia del nostro sistema professionale appare fragile e poco strutturata se confrontata con quanto succede sul piano internazionale, dove invece primeggiano colossi del design capaci di esprimere fatturati da centinaia di milioni con centinaia di addetti.
Fin qui chi disegna, ma che succede a chi costruisce?
Cosa intendiamo quando parliamo di imprese edili? Un insieme di persone con competenze diverse, tecnici, muratori, piastrellisti, impiantisti, manovali… in grado di costruire una casa, una strada, una rete di infrastrutture di servizio, capaci di stare al passo con l’innovazione tecnologica dei materiali e dei macchinari.
Tante sono state le imprese di questo tipo in Italia, differenziate per dimensione di fatturato e per numero di addetti. Hanno subito una trasformazione dopo la crisi degli anni novanta, diventando sempre più legate al mondo della finanza, che a quello dell’economia produttiva.
All’Ance (associazione nazionale costruttori edili) aderiscono 20 mila imprese, ma il numero totale di quelle operanti nel settore è molto maggiore. Questo numero non è composto da strutture analoghe per dimensione e fatturato, infatti sono imprese edili le grandi società quotate in borsa come la piccola impresa che opera sul mercato delle costruzioni. Si differenziano per categorie di lavoro per cui possono essere chiamate.
Grandi…
La più grande è Impregilo SpA (i suoi soci sono Benetton, Gavio e Ligresti) con 2 miliardi di euro di fatturato, di cui il 78% prodotto all’estero, con 17.400 dipendenti. Il settore in cui opera è quello degli impianti, grandi infrastrutture, lavori idraulici; l’edilizia vera e propria rappresenta solo lo 0,1%.
Segue la Astaldi SpA, il cui capitale sociale è tutto nelle mani della famiglia, con 2 miliardi di fatturato e 8.400 dipendenti (erano 11.200 nel 2009). Opera nel settore dei lavori ferroviari e infrastrutture, mentre l’edilizia è marginale. Seguono la Salini Costuttori, la Pizzarotti…
… e piccole
Ma sono tante le piccole imprese, familiari, artigiane, spesso tramandate di padre in figlio, sopravvissute alle peggiori crisi e messe in ginocchio da quella attuale. Molte sono quelle composte da stranieri con esperienza e piccoli capitali. Il settore in cui operano è esclusivamente quello dell’edilizia e sono quelle che più hanno risentito del calo dell’attività, dei ritardi nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione e dell’impossibilità di ottenere prestiti dalle banche.
Che succede a chi costruisce senza operazioni di finanza?
Dal 2008 al 2012 l’attività produttiva del settore delle costruzioni ha perso il 25% degli investimenti. Gli effetti sull’occupazione e sulle imprese sono stati pesantissimi: dall’inizio della crisi si stima che si siano persi 325.000 posti di lavoro nelle costruzioni, che salgono a 500.000 unità, considerando anche i settori collegati. Solo nel 2012 sono stati 81.000 gli addetti che hanno perso il lavoro. Il numero totale delle imprese edili è pari a 894.028 unità di cui 571.336 sono imprese artigiane, di quest’ultime nel 2012 ben 54.832 hanno chiuso la loro attività.
Ci si riduce ad uno…
L’offerta produttiva si è fortemente ridotta con la fuoriuscita dal settore di 27.000 imprese di costruzioni. In particolare, a fronte di un incremento di circa 12 mila imprese di costruzione con un solo addetto, si è verificata una forte riduzione delle imprese con più di un addetto, diminuite in due anni di quasi 40.000 unità.
L’aumento delle imprese con un solo addetto può quindi essere collegato al parziale riassorbimento di personale dipendente espulso dalle imprese a causa della crisi e rimasto nel settore con caratteristiche di offerta produttiva scarsamente strutturata.
… e si fallisce
Un ulteriore indicatore delle difficoltà del settore è il numero crescente di imprese di costruzioni entrate in procedura fallimentare. Nel triennio 2009-2011 sono 7.552 le imprese che hanno avviato tale procedura e rappresentano il 23% dei fallimenti avvenuti nell’insieme di tutti i settori economici.
A Roma?
Le imprese iscritte alla Cassa Edile di Roma erano 11.448 nel 2008 con 63.321 lavoratori, oggi sono ridotte a 9.000 e gli operai sono diminuiti di un terzo. Ventimila posti di lavoro persi in quattro anni, soprattutto fra quelli che lavoravano nell’edilizia abitativa, ma a risentire della crisi è stato anche chi si occupava di manutenzione e di impianti energetici.
In Europa?
Nei paesi europei (EU 15) la crisi del settore ha coinvolto tutti e ha determinato, dal 2008 al 2011, una contrazione degli investimenti in costruzioni del 16,5%. Alcuni paesi per uscire più velocemente dalla crisi hanno utilizzato la leva degli investimenti in costruzioni attraverso l’adozione di mirate politiche settoriali.
In Germania
In particolare la Germania, dove si registrano significativi aumenti del Pil, ha visto una ripresa degli investimenti in costruzioni a partire dal 2010 strettamente collegata ad incentivi rivolti al mercato privato residenziale e a maggiori investimenti nelle infrastrutture. Dopo aver registrato una flessione del 3,6% nel biennio 2008-2009, mostra, nel biennio successivo 2010-2011, un’ inversione di tendenza e il superamento della fase di crisi, con un aumento del livello produttivo pari all’8,1%.
In Francia
In Francia sono state prese una serie di misure volte a sostenere il comparto residenziale (cd. dispositivo “Scellier”), che hanno determinato nel 2011 una crescita degli investimenti in abitazioni, soprattutto destinate all’affitto. Queste misure, in particolare quelle mirate al mercato residenziale, determinano importanti effetti economici ma anche sociali soprattutto con le misure rivolte a migliorare la qualità del luogo in cui si abita (disabili, anziani, famiglie con bambini) ed al contenimento energetico degli edifici.
Nei… PIIGS
Di contro, prosegue la crisi del settore delle costruzioni in Spagna (-8,1%), Portogallo (-11,5%), Grecia (-21,4%) ed Irlanda (-15,9%).
Come si lavora in edilizia?
Il lavoro sommerso in edilizia rappresenta un elemento strutturale. Per lavoro nero intendiamo tutte le forme di lavoro non regolare sotto il profilo legale, che si caratterizza per salari e condizioni di lavoro decisamente al disotto dei livelli minimi contrattuali. Nel settore delle costruzioni i dati Istat lo indicano all’ 11% nel 2006, nonostante le politiche per la sicurezza sul lavoro e per il controllo della regolarità del lavoro nelle imprese. Nell’edilizia il lavoro nero assume forte visibilità perché questo carattere si associa alla pericolosità e all’elevata incidentalità sul lavoro.
Secondo i dati di fonte Inail la maggior parte degli incidenti gravi e delle morti in questo settore si verifica nel primo giorno di lavoro, indice di una pratica diffusa di occupazione irregolare e di registrazione ex post in caso di infortunio.
Sono molti i lavoratori a chiamata, nell’edilizia, nella carpenteria, la manutenzione e la ristrutturazione.
I lavori a chiamata
Il lavoro a chiamata è quella modalità per cui i lavoratori sono davanti alle rivendite di materiali per la costruzione e vengono contattati a giornata, come avviene per i braccianti agricoli. Questi sono rapporti completamente al nero, sprovvisti di qualsiasi forma di sicurezza e tutela, che possono degenerare in situazioni di abuso e di sfruttamento pesante.
La chiamata avviene all’alba, li si può trovare a decine ogni mattina, dalle 5,30 in poi (spesso anche fino a mezzogiorno) in varie zone della città e in particolare davanti agli smorzi, termine con cui a Roma si identificano i centri di vendita di materiali edili: mattoni, piastrelle, sanitari, cemento e calce…. A reclutare questi edili, in maggior parte immigrati, sono privati cittadini, capomastri di imprese edili, caporali ed intermediari.
I datori di lavoro sono medie e piccole imprese edili, costituite da lavoratori che hanno aperto partita Iva, (alla fine del 2007, più di 3000 ex dipendenti della Cassa Edile lo hanno fatto secondo dati Fillea Cgil) che lavorano in un sistema di appalti e sub-appalti.
Per aprire la partita Iva non ci vogliono né specializzazioni, né dichiarazioni di competenza o esperienza. Questo nuovo tipo di imprenditore, spesso immigrato, da operaio in realtà si trasforma non in imprenditore edile ma in caporale, in quanto per poter sopravvivere sul mercato, è costretto ad andare a cercare altre braccia davanti agli smorzi.
In questo modo la catena delle responsabilità si allunga e diventa più difficile individuare il bandolo. In questi casi la prassi di utilizzare lavoratori a giornata dei quali non si sa nulla, sembra ormai essersi consolidata, soprattutto a livelli molto piccoli, livelli ai quali altrimenti non sarebbe possibile operare se non attraverso queste forme di lavoro sottopagato, sfruttato. Spesso i compiti da svolgere per gli ultimi arrivati, sono quelli più pesanti e pericolosi.
L’edilizia è un lavoro per “stranieri”
In Italia un lavoratore edile su cinque è straniero, ma nel 2011 e nel 2012, si è registrato un arresto della crescita dei lavoratori stranieri (dati Fillea Cgil). Nel 2007 si ha la maggiore espansione per i lavoratori edili a Roma e provincia, con la cifra di 56.895 lavoratori, ben 11.614 in più rispetto al 2006. Di questi 25.146 sono presenti nella sola città di Roma. Il settore edile è sempre stato il principale ambito di inserimento lavorativo degli immigrati a Roma, soprattutto per quelli arrivati da poco.
Perdere il lavoro per questi lavoratori significa anche lavorare in condizioni ancora più difficili e pericolose, guadagnare di meno, essere costretto a lavorare in nero, perdere diritti e diventare ancora più ricattabile, dequalificarsi…
I primi ad andare in cassa integrazione…
Significativo anche il ricorso alla cassa integrazione: nel corso del I semestre del 2012 sul totale dei cassaintegrati delle costruzioni il 33% è di nazionalità straniera. E se si rapporta questo dato al 19% che rappresenta la quota di immigrati occupati sul totale dei lavoratori edili, è facile intuire come per i lavoratori stranieri il ricorso alla cassa integrazione sia mediamente più alto che tra gli italiani.
… e ad essere sottopagati
Le buste paga degli stranieri, inoltre, sono sempre più leggere rispetto a quelle degli italiani: nell’edilizia, nel corso degli ultimi quattro anni, la forbice del differenziale retributivo si è ulteriormente allargata passando dal 4,1% del 2009 al 10,5% del 2012. Così gli stranieri guadagnano in media 133 euro mensili in meno dei loro colleghi italiani, con punte di 195 euro in meno per i manovali e di 171 euro in meno per gli imbianchini.
Chi altro sta pagando la crisi
L’industria delle costruzioni coinvolge anche altri settori economici che stanno disgregandosi, e che hanno prodotto dal 2009 la perdita di 380 mila posti di lavoro. Sono i produttori e rivenditori di materiali da costruzione, di cemento, di legname, di elementi di arredo. Indicativo è il calo del consumo di calcestruzzo armato che è diminuito dal 2006 al 2010 del 45%.
Le agenzie immobiliari, ultimo anello della catena,che si stima siano, sul tutto il territorio nazionale, 30 mila hanno risentito del calo delle transazioni immobiliari, diminuite nell’ultimo anno del 25% (330 mila compravendite in meno rispetto al 2011), e della contrazione dell’erogazione di mutui da parte delle banche che ha toccato il 40%, con costi fra i più cari di Europa. Analizzando invece la contrazione avvenuta per acquisti “cash”questa regista una diminuzione del 15,2% .
Con questo scenario quante sono le case che si continuano a costruire?
I dati Istat sull’attività edilizia segnalano una progressiva diminuzione dei permessi rilasciati dai comuni per la costruzione di nuove abitazioni e ampliamenti a partire dal 2006. In quattro anni (2006-2009), infatti, il numero dei permessi è passato dalle 305.706 abitazioni concesse nel picco del 2005 alle 160.454 del 2009, registrando una flessione del 47,5% nell’arco del periodo considerato (la riduzione, in termini di volume, riferita ai fabbricati residenziali, è stata del 43,6%).
Ma, si sta facendo largo un altro dato. È in atto a Milano dove, in attesa dell’operatività del regolamento edilizio del Piano Generale del Territorio rivisitato da Pisapia, alcuni operatori hanno rinunciato a cantieri che erano stati autorizzati per cui avevano già pagato gli oneri di urbanizzazione che l’Amministrazione si è vista così costretta a restituire. Un dato significativo, se si pensa che il comparto privato pesa nell’area metropolitana milanese per il 18% del totale nazionale. Non a caso sono stati i costruttori lombardi il 18 febbraio a depositare un mare di caschetti gialli sulla piazza della Borsa dando vita a quella che hanno voluto intitolare “la giornata della rabbia”. Hanno chiesto (continuano a chiedere) alla banche “ di impegnarsi a contrastare l’avversione al rischio” ovvero continuare a dare soldi (a loro) per continuare a fare quello che hanno sempre fatto, e nel caso di Milano per chiudere le iniziative intraprese.
La città meneghina è “segnata” da 63 aree di trasformazioni urbane che, tutte insieme, produrranno 1,7 milioni di nuovi metri quadri. Un solo cantiere “Porta Nuova” fattura il 10% dell’intero fatturato dell’industria delle costruzioni in Lombardia. Il cantiere viene portato avanti da Hines un gruppo immobiliare del Texas che, proprio in questi giorni, ha visto entrare nell’operazione Qatar Holding (fondo arabo) per una quota pari al 40% (700 milioni circa) dell’investimento. A Porta Nuova è stato messo sul mercato il 50% del progettato a 9mila euro al metro quadro. di questo il 75% risulta esser stato venduto.
È solo questione di soldi e finanziamenti?
Stando alla “giornata della rabbia” o all’Ance, la potente associazione di categoria dei costruttori, sembrerebbe di sì.
Chi costruisce riconosce la crisi, ma trova la soluzione nel rimettere le cose a posto; far tornare tutto come è andato fin’ora: assicurare ai propri associati le solite operazioni di rendita; far coincidere in un unica figura il proprietario dell’area con chi ci costruisce sopra così da far derivare il proprio profitto sommando alla vendita del costruito la valorizzazione economica dell’area.
I costruttori ci mettono le stime…
Si dicono pronti a partire da subito; cioè: a raccogliere finanziamenti garantendo che per ogni miliardo investito in edilizia, secondo le proprie stime, si producono 17mila posti di lavoro.
… solo che i soldi li vogliono dallo Stato
Chiedono appalti o si autocandidano ad interventi per realizzare opere infrastrutturali in project financing. Perché – dicono – noi siamo capaci, ci pensiamo noi in cambio della gestione.
Come mai tanta generosità?
Lo fanno ripartendo i rischi, ma lo fanno a modo loro. A loro quello nullo industriale che sanno bene come contenere (come tenere il cantiere, quali risparmi, quali minimizzazioni, quali materiali, quali margini di guadagno..) allo Stato quello del traffico per cui, nell’impossibilità di conoscere quanti utenti utilizzeranno l’opera realizzata (autostrada,ferrovia…) attraverso la corresponsione di un pedaggio, si ricorre ad una quota forfettaria predefinita.
Un modo sicuro per far continuare, come è avvenuto nelle esperienze ferroviarie, ad occultare in questo modo la crescita del debito pubblico visto che alla fine è lo Stato a ripianare questo rischio (Ponti, Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2013).
Ancora una volta il mattone viene stritolato da chi intende “rilanciarlo” Ancora una volta attraverso proposte che vedono andare a braccetto Ance e Abi, l’associazione delle banche italiane. Per “favorire la domanda di immobili” (9 maggio 2013) ecco ora la proposta dei covered bond (obbligazioni garantite) e l’attacco all’IMU che, a loro detta, avrebbe prodotto “un vero e proprio effetto espropriativo di ogni investimento immobiliare”.  Ancora una volta si pensa a costruire nuove case indicando quale soluzione ciò che in realtà ha prodotto il problema. Ancora una volta si pensa a svendere il patrimonio pubblico delegando il ruolo di killer accalappiatore dei Comuni (che si vuole intanto stroncare con l’eliminazione dell’IMU pretesa da Berlusconi), addirittura alla Cassa Depositi e Prestiti da far funzionare come società di gestione (SGS) di un Fondo Investimenti per la valorizzazione degli immobili comunali (FIV) per mettere sul mercato le proprietà pubbliche delle comunità.
Ancora case che non servono
Facile prevedere la strategia di questo fondo: spolpare i comuni dei pezzi pregiati, valorizzarli e venderli riconoscendo alle amministrazioni, tra l’altro, il solo prezzo stimato in origine dal fondo stesso. Prendo molto e pago nulla.
Ancora case; dove valorizzazione fa rima con dismissione (del patrimonio pubblico). Il Fondo Invimit (Investimenti immobiliari Italia) operativo dal 31 maggio scorso dotato di 2 miliardi di capitale riceverà in questi giorni, dall’Agenzia del Demanio, ulteriori 44 immobili per un valore stimato di 600milioni di euro. Invimit, gestito direttamente da una società interamente di proprietà del Ministero dell’Economia, chiamato “il fondo dei fondi”, ha il compito specifico di azzerare al massimo le procedure burocratiche per alienare il patrimonio il prima possibile. Magari ricorrendo, è l’ultima pensata, alla longe lease ovvero: spostare dai 50 ai 99 anni il periodo in cui ai privati viene concesso il bene in diritto di superficie e la possibilità di utilizzare lo stesso come garanzia bancaria.
Senza neppure grande profitto per i Comuni. Riferendoci, solo, alle dismissioni dei beni militari si stima che le amministrazioni riceveranno dalla vendita una quota non superiore al 25%. Il 30% spetta al Ministero della Difesa; il resto allo Stato.
Nessun servizio e case, incapaci di risolvere l’emergenza abitativa, da inserire nei tessuti urbani esistenti con il loro devastante peso e carico. La seconda fase della strategia immobiliare finanziaria che, dopo aver acquisito la totale e piena disponibilità di un territorio, inizia a muovere i suoi pezzi per ridisegnarlo secondo il profitto.
Agire la trasformazione
Una fase non ancora completamente compiuta che vede proprio lo spazio della città rappresentare una possibile resistenza, ora, che lo statuto della disciplina urbanistica, il suo essere mediazione tra interesse privato e pubblico, è morto.
C’è una possibilità per i movimenti: lavorare all’interno di quel’intercapedine che si interpone tra le uniche risorse disponibili (il risparmio postale tenuto dalla Cassa Depositi e Prestiti) e i progetti di trasformazione urbana (mercato edilizio, densificazione, generazione). È in quest’intercapedine che sono proprio i tanti lavori di chi costruisce.
Basterebbe andare a controllare l’estratto conto della Cassa Depositi e Prestiti al numero 20128/1208 dove si trovano i fondi ex Gescal per trovare 1,68 miliardi di euro di fondi destinati all’edilizia sovvenzionata, cioè sociale (case popolari, studentati, case per categorie deboli), che non vengono spesi (nel Lazio oltre 190 milioni di euro, 135 in Calabria, 345 in Puglia…)
Una possibile grande opera
Non sarebbe una grande opera mettere mano all’emergenza abitativa facendo incontrare questi soldi con le cifre dell’invenduto, con quelle case serrate che pur pesanti e piantate sul terreno risultano di carta? Non potrebbe essere proprio questo un compito delle Regioni: sottrarre al mercato privato, che sembra aver fiutato l’affare “invenduto”, queste case e trasformarle a partire da un percorso economico basato sull’uso invece che sul profitto?
Dove definire come uso non solo l’assicurare un tetto, aprire quelle porte, ma andarci dentro proprio con quei tecnici, con quei lavoratori, con quelle imprese oggi schiacciati dalla crisi per farli diventare, da strumenti per la rendita di pochi, finalmente carpentieri coraggiosi , costruttori dell’abitare dei tanti.
La partita è da giocare subito
Il prossimo giugno a Milano nel corso di Eire, la fiera internazionale del Real Estate (economia immobiliare) sarà lanciata infatti la creazione di una nuova Società di Risparmio per garantire innanzitutto una sponda di rifinanziamento per le banche che si trovano esposte per tanto invenduto. Si vogliono caricare costi e debiti sui futuri utenti ingannandoli con la scusa della finalità di social housing.
Ancora mattoni di carta, come di carta simili soluzioni. Da respingere.
Domani, per l’abitare, sarà un altro giorno solo se saremo capaci di pensare al suo restauro.
L’arte del rammendo
Un nuovo giorno definito subito prioritariamente: dalla messa in sicurezza degli edifici scolastici, dalle opere di riduzione del rischio idrogeologico e costruito anche su di un immaginario basato sulla giustizia sociale e la ridistribuzione del reddito come motore delle trasformazioni.
Un nuovo paesaggio di riferimento fatto dall’Europa dei Comuni, dei territori, delle metropoli. Non da riconquistare, ma da costruire, attraverso il fare comune, i conflitti: i soli a farci capaci di permetterci il pensare insieme, di riappropriarci di quello che abbiamo fin qui dato, del saper gestire le risorse naturali e artificiali, per determinare le condizioni per una vita finalmente piena.
Quando ci opponiamo alle trasformazioni non diciamo che stiamo parlando della sopravvivenza della nostra vita? Dire che vogliamo continuare a vivere e vivere bene è un atto di presunzione? Come diceva Goethe è un atto di presunzione anche fare poesia. Perché dovremmo rinunciare anche a questo? A fare poesia, alla bellezza?
Saranno proprio carpentieri coraggiosi a realizzare “case belle per i più”.





Nessun commento:

Posta un commento