18 giugno 2013

GIOTTO E GLI ANTICHI EGIZI






Uno studio incrociato dei sarcofagi conservati nei Musei Vaticani e delle Tavole del Trecento ha dimostrato che dall'Egitto del primo millennio a.C. agli albori del Rinascimento la tecnica di pittura sul legno restò sostanzialmente invariata. Un'ulteriore dimostrazione, se vogliamo, che la storia materiale si svolge su tempi lunghi che spesso travalicano i confini delle civiltà.

Lauretta Colonnelli - Così Giotto «copiò» gli egizi

Giotto «copiava» i pittori vissuti al tempo dei faraoni. La tecnica dei suoi dipinti su tavola è identica a quella usata dagli artisti che nel primo millennio avanti Cristo decoravano i sarcofagi in legno realizzati sulle rive del Nilo per accompagnare nell'aldilà i corpi dei sacerdoti di Amon. Come è possibile? Si sapeva che le conoscenze degli egizi erano passate ai greci e poi ai romani. Ma non c'erano prove che quelle conoscenze fossero arrivate praticamente intatte fino alle botteghe del Medioevo. Eppure il procedimento era lo stesso: si stendeva con le mani sul supporto ligneo un fondo composto da argilla e gomma arabica, si passava con il pennello una mano di colore a base di orpimento (giallo d'arsenico) per garantire l'effetto della doratura, si tracciava il disegno preparatorio con la sanguigna, si eseguivano le campiture di colore con pigmenti minerali e leganti vegetali, infine si copriva tutto con una vernice trasparente per proteggere il dipinto.

Perfino il significato simbolico dei fondi in oro era stato tramandato lungo i secoli: aveva la funzione, sia nell'antico Egitto sia nell'Europa del Medioevo, di divinizzare le immagini. Se i pittori cristiani raffiguravano con i volti circonfusi d'oro la divinità e i santi della Chiesa, quelli egizi avvolgevano in un alone dorato il corpo del defunto ritratto sul coperchio del sarcofago e ne illuminavano di giallo le mani e il volto per trasformarlo in un dio e avviarne il processo di rigenerazione.

La prova del legame tra Giotto e gli artisti di tremila anni fa arriva adesso dal laboratorio di diagnostica dei Musei Vaticani, dove la pittura dei sarcofagi è stata analizzata e ha rivelato una stratigrafia identica a quella della pittura su una tavola del Trecento. «Le immagini di queste stratigrafie, messe a confronto, sembrano due copie della stessa fotografia», conferma Ulderico Santamaria, direttore del laboratorio. Del modo di dipingere su tavola al tempo di Giotto è rimasta la testimonianza di Cennino Cennini, che a cavallo fra Trecento e Quattrocento scrisse Il libro dell'arte, ancora oggi il più famoso trattato sulle tecniche artistiche che ci sia stato tramandato. Cennini, che celebra Giotto come il maestro che «rimutò l'arte del dipingere dal grecho in latino e ridusse al moderno», descrive per la prima volta le tecniche di esecuzione fino allora probabilmente tramandate di bottega in bottega: dalla tavola preparata con uno strato di gesso alla finitura con la vernice trasparente. «Ora — ribadisce Santamaria — abbiamo trovato nella pittura dei sarcofagi il riscontro di queste tecniche teorizzate all'interno delle corporazioni medievali».

Le recenti scoperte sulla tecnica pittorica dei sarcofagi verranno presentate alla First Vatican Coffin Conference, ai Musei Vaticani dal 19 al 22 giugno, davanti a centocinquanta egittologi provenienti da tutto il mondo. La conferenza segna la prima tappa del Vatican Coffin Project, avviato nel 2008 e diretto da Alessia Amenta, che cura il Reparto antichità egizie dei musei del Papa. Scopo del progetto a cui hanno aderito anche il Louvre di Parigi e il Rijksmuseum van Oudheden di Leida: studiare i sarcofagi lignei policromi del cosiddetto terzo periodo intermedio (1070-712 a.C.). «Fino a oggi non si conosceva in maniera approfondita la tecnica della pittura egizia su legno», racconta Amenta. «L'idea della ricerca è nata quasi per caso, mentre ci apprestavamo ad affrontare una campagna di restauro dei ventitré sarcofagi custoditi in Vaticano.

Si tratta di veri e propri capolavori di pittura su tavola: raffinati nel dettaglio, eleganti nella composizione e nella scelta cromatica, complessi nella scelta iconografica». Il lavoro è iniziato sui sarcofagi di cui si avevano maggiori notizie: i cinque provenienti dal nascondiglio di Bab el-Gasus (la porta dei sacerdoti) a Luxor. Il 5 febbraio 1891, il francese Eugène Grébaut e il suo assistente Georges Daressy trovarono l'ingresso di una tomba ancora sigillata, dove erano stati nascosti, perché si salvassero dai saccheggi, 153 sarcofagi lignei, appartenenti ai sacerdoti di Amon vissuti durante la XXI dinastia (primo millennio a.C.). In soli nove giorni la tomba fu svuotata, i sarcofagi caricati su imbarcazioni e spediti sul Nilo verso il Cairo. Ma il museo della città non era in grado di ospitare una così grande quantità di reperti, arrivati tutti insieme. Il governo egiziano decise perciò di donare ai diciassette Paesi che avevano partecipato alla festa per l'incoronazione del nuovo Khedivè altrettanti lotti di sarcofagi. Il Vaticano ricevette il lotto numero 17. Un'altra parte dei ritrovamenti fu destinata al mercato antiquario. Oggi queste opere sono disperse in almeno trenta musei del mondo.

Ricorda Amenta che i sarcofagi di Bab el-Gasus appaiono particolarmente ricchi di decorazioni perché appartengono al momento storico che segue il cosiddetto Nuovo Regno (1550-1070 a.C.), quello in cui il faraone Ramesse II aveva trasformato il Paese nella superpotenza del Vicino Oriente. Al tempo di Ramesse II anche le tombe erano dipinte magnificamente. La gravissima crisi economica che incombeva sull'Egitto all'inizio del primo millennio a.C. non permetteva più simili lussi. Le tombe diventarono di tipo familiare, l'apparato decorativo fu ridotto e trasferito dalle pareti della sepoltura alle superfici sia esterne che interne dei sarcofagi in legno, che oggi rappresentano «un dizionario enciclopedico della religione egizia», secondo la definizione dell'archeologo Gaston Maspero.

Ma chi realizzava questi oggetti? Come era organizzato il lavoro degli artigiani coinvolti? C'era un maestro pittore? C'erano delle botteghe? E dove? Chi sceglieva l'apparato testuale e quello iconografico? Dove si acquistavano i pigmenti? Come ci si procurava il legno in una regione dove gli alberi hanno sempre scarseggiato? I ricercatori del Progetto Vaticano stanno inseguendo le risposte. Sono convinti che i sarcofagi racchiudano una miniera enorme di informazioni.

Alcune sono già venute alla luce. Il legno usato era di fico sicomoro, acacia nilotica, tamerice: piante locali che fornivano assi lunghe e molto leggere. I falegnami cercavano di non sprecarle, recuperando anche i frammenti, utilizzati spesso per realizzare gli ushabti, le statuine dei servitori rinvenute nei corredi funebri.

Santamaria, con l'aiuto di Fabio Morresi, ha scoperto che l'effetto dorato dei sarcofagi dei sacerdoti era talvolta ulteriormente accentuato dalla presenza di pigmento giallo nella vernice. Si tratta di polveri minerali come l'orpimento (tra l'altro usato in abbondanza anche da Giotto) e impiegato dai pittori egizi per le mani e il volto dei sarcofagi a imitazione della pelle dorata degli dei. Lo studioso ha infine riprodotto nei laboratori dell'Università della Tuscia, a Viterbo, un campione del leggendario blu egizio, profondo e luminoso come nessun altro. Anche la ricetta di questo pigmento, prodotto artificialmente dagli artisti dei faraoni, era stata tramandata attraverso greci, etruschi e romani fino a Giotto. Il blu egizio scomparve a partire da Masolino e Masaccio, sostituito dai più banali blu smalto e azzurrite e dal prezioso blu lapislazzuli. Nei secoli successivi si cercò invano di ricrearne la formula esatta.


(Da: Il Corriere della Sera del 16 giugno 2013)

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