09 giugno 2013

SENZA PADRI




La crisi della società occidentale è prima di tutto crisi culturale, incapacità di dare senso ai fattori fondamentali della vita. L'incapacità cioè di collocare ciò che ci accade in un quadro organico che  permetta la comprensione/accettazione e dunque in primo luogo il controllo della paura e dell'ansia. Un vuoto culturale che rimanda immediatamente ad un vuoto affettivo/relazionale dovuto all'appannamento di figure fondamentali come quella paterna.


Augusto Romano -­ Telemaco in attesa del padre che non c’è più

Come cambia il “ruolo” educativo nella società moderna col tramonto dei grandi sistemi di interpretazione del mondo.
Una storiella ebraica, riportata da J. Hillman, racconta di un padre che vuole insegnare al figlio ad avere più coraggio. Perciò, lo mette in piedi sul secondo gradino di una scala e gli dice: «Salta, che ti prendo». Il bambino salta e il padre lo accoglie fra le braccia. Il gioco va avanti per un po’ finché il padre improvvisamente si tira indietro e il bambino cade lungo e disteso. Mentre piangente si rimette in piedi, il padre gli dice: «Così impari a non fidarti di nessuno, neanche se è tuo padre».

Se, al di là dell’aneddoto, cerchiamo di cogliere il significato simbolico della storia, ci rendiamo conto che esso è particolarmente pregnante. Il gesto del padre, nella sua apparente crudeltà, rompe la fiducia primaria e il bisogno unitivo e, creando distanza, rende possibile la relazione, la quale implica inevitabilmente la differenza, l’alterità. Inoltre, l’azione paterna apre al figlio il luogo dell’incertezza e della precarietà, la condizione dell’abbandono e dello sradicamento, che sono propri dell’esistenza umana; ma anche, indicando un limite, mobilita le energie volte a fare del limite stesso una opportunità e della solitudine un’occasione di creatività. Mette il figlio a contatto con l’ingiustizia e col non senso e gli affida il compito di elaborarli simbolicamente. In questa operazione trasformativa anche il padre sanguina, e proprio perché sanguina realizza una testimonianza efficace.

Simile in questo ad Abramo, rinuncia al possesso del figlio e lo abbandona pur senza abbandonarlo, giacché lascia in lui il segno del limite; si sacrifica, realizzando in prima persona ciò che addita al figlio; si assume sino in fondo la responsabilità del tradimento, confidando forse nel detto gnostico attribuito a Gesù, che dice: «Se sai quello che fai, sarai salvo; se non lo sai, sarai dannato». Il figlio si ricorderà di lui nelle situazioni limite dell’esistenza, per esempio nei rapporti d’amore, quando dovrà prendere atto della radicale dissimmetria dei soggetti della coppia ed assumersi il fardello (che però è anche uno sporgersi oltre se stesso) di amare nell’altra proprio l’irriducibile alterità.

Questo libro denso e appassionato di M. Recalcati si propone di analizzare la paternità nella società attuale, in cui sono tramontati i grandi sistemi di interpretazione del mondo e il nichilismo ha disvelato il carattere precario e per così dire ipotetico della vita individuale e associata.

Com’è sotto gli occhi di tutti, mancano i padri come quello della nostra storiella, garanti con la loro testimonianza del nesso inscindibile tra limite, sacrificio, creatività e umanizzazione. Accanto a un piccolo drappello di padri tradizionali (padre-padrone, padre-eroe), che credono illusoriamente di essere portatori di una verità da trasmettere, la stragrande maggioranza è fatta di padri assenti e di padri-bambini, compagni di gioco dei loro figli. In questo sperdimento del limite, i figli tendono a loro volta a restare bambini, desiderosi di tutto e subito, insofferenti di ogni frustrazione, privi di orientamento verso scopi. Crescendo manifesteranno, a seconda delle situazioni, il rifiuto radicale dell’idea stessa di paternità e la tendenza compulsiva al godimento come esorcismo contro le responsabilità della vita; o, per contro, la nostalgia del padre della Tradizione, che li sollevi dall’obbligo di scegliere; o anche la chiusura saturnina, l’esigenza di controllo, il cinismo, la riduzione dell’altro a feticcio, la mercificazione dei rapporti: una vita al risparmio, una infelicità senza più desideri.

La coppia Ulisse-Telemaco rappresenta per l’Autore un esempio dell’esigenza che oggi si nasconde sotto l’infelicità, il disordine e la paura di padri e figli: un ritorno del padre che dia testimonianza della consapevolezza che la vita è il luogo di opposizioni logicamente inconciliabili ma esistenzialmente esperibili. Infatti, il discorso di Recalcati si muove sul sottile crinale che separa l’innovazione creativa dalla normatività da un lato, e dalla pura dissipazione energetica dall’altro. A una vita all’insegna dello scialo, inteso come uno spendersi sino in fondo per la realizzazione del significato della propria esistenza, si oppone una vita all’insegna dello spreco, dello smarrimento nella pura fattualità. Gli opposti che vengono costantemente tematizzati sono filiazione/separazione, memoria/oblio, identità/alterità, fedeltà/tradimento, libertà/legge, appartenenza/erranza, caos/cosmo.

Centrale, nel discorso di Recalcati, è il problema dell’attribuzione di senso, che lo porta a parlare dell’inconscio non solo come deposito del rimosso ma anche come «il luogo di ciò che non si è ancora realizzato e che domanda di potersi realizzare». Il che sembra allontanarlo dalla matrice lacaniana cui aderisce per avvicinarlo all’idea junghiana di inconscio «progettante» e alla nozione di simbolo come paradossale tensione di termini opposti, cui è affidata la funzione di rendere possibile la trasformazione interiore. Se si sorvola su qualche vezzo linguistico, il libro è tra quelli che danno da pensare.

(Da: La Stampa-Tuttolibri 8 giugno 2013)




Massimo Recalcati
Il complesso di Telemaco
Feltrinelli, 2013
€ 14

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