11 marzo 2016

LA SCIENZA DI SHAKESPEARE






Il Cinquecento vide un’intersezione senza precedenti tra scienza, filosofia, letteratura e arte. Le opere di Shakespeare ne sono la più convincente dimostrazione.

Edoardo Boncinelli

«Un nuovo cielo». Anche Shakespeare si ispirò a Galileo

Le ultime settimane sono state tutto un ribollire di furenti discussioni politiche e di anniversari. Solo qualcuno ha ricordato, tra le altre, la ricorrenza della nascita di Galileo (15 febbraio 1546). A riportarmi alla realtà è stata una serie di messaggi su Twitter, che hanno giustamente celebrato l’anniversario della nascita del nostro grande scienziato-filosofo. Mi ha colpito in particolare il riferimento a un libro del 2014 riguardante nientemeno che l’influenza delle scoperte del nostro sulle opere di William Shakespeare. 
Il libro è The Science of Shakespeare. A New Look at the Playwright’s Universe di Dan Falk. Vi si afferma, tra l’altro, che chiunque sia stato, Shakespeare è vissuto in un momento veramente speciale della nostra storia. Nato lo stesso anno di Galileo appunto, definito dall’autore «un padre fondatore della rivoluzione scientifica», e poco prima di Montaigne, Shakespeare è stato testimone di un’intersezione senza precedenti fra scienza e filosofia, nel momento in cui l’umanità cercava affannosamente di dare un senso alla propria esistenza.

Non c’è dubbio che uno degli eventi che allora contribuirono alla rifondazione di un tale senso sia stato lo sviluppo e quasi l’esplosione dell’astronomia osservativa, che portò un nuovo tocco di scientificità all’antica domanda sull’ordine che regna nel firmamento.

«Devi allora scoprire un nuovo cielo, una nuova terra», dice Antonio a Cleopatra nel dramma shakespeariano, e di nuovo cielo e di nuova terra, espressione ripresa dall’Apocalisse, veramente si trattò, allorquando si cominciò ad aprire gli occhi sulla struttura del cosmo, fino ad allora inattingibile palcoscenico di entità iperuranie, schermo fisso di realtà visibili come le stelle, ma sfolgorante indizio di verità «superiori», a noi celate.

Non possiamo ignorare, d’altro canto, le illuminanti parole di Giordano Bruno, un altro grande di cui si è celebrata la ricorrenza in questi giorni. «Non è che, rispetto all’universo, tu possa dire di essere più al centro che in qualsiasi altro luogo; perché è evidente che tutto all’intorno, ugualmente, da qualunque parte, si apre uno spazio infinito, che contiene infiniti astri e mondi», dice Bruno nel De immenso et innumerabilibus , e continua: «Considera come l’orizzonte, osservato da un’altra torre, mostri che il convesso continua il piano; quando sia impossibile correre oltre con lo sguardo, sarà come se la natura progenitrice si sia eretta una muraglia dinanzi; ma se, al contrario, sarà possibile superare ogni confine, si potrà vedere, allora, intrecciarsi ciò che è e ciò che non è».

Il pensiero filosofico era quindi pronto al gran salto, ma occorreva trovare qualcosa di concreto che ci mostrasse «la potenza dei cieli» come una cosa quasi terrena. Occorreva cioè portare il cielo sulla terra, come fecero vari scienziati fra cui Galileo a quei tempi, e Isaac Newton qualche tempo dopo, nonché Albert Einstein ancora dopo, in una vicenda appassionante che ci fa oggi parlare di onde gravitazionali, come se le vedessimo o addirittura le potessimo «cavalcare».

È noto che sulla natura della forza che teneva la Terra avvinta al Sole — e le mele sempre sull’orlo di cadere dal ramo — Newton non si volle esprimere. «Hypotheses non fingo», non faccio ipotesi, affermò a tal proposito con la ostinata e ostentata sobrietà dello scienziato. Ebbene, in questi giorni abbiamo appreso che la forza di cui sopra viaggia come un’onda dello spazio-tempo impiegando ad esempio poco più di otto minuti per raggiungere il nostro pianeta partendo dal Sole. Come dire che le forze gravitazionali viaggiano nel cosmo come onde, impegnando secondi, minuti, ore, anni o miliardi di anni, secondo i casi. Detto così, sembra un raccontino per ragazzi, ma consideriamo quanto tempo, quanto ingegno e quanti sforzi materiali ci sono voluti per raggiungere una tale consapevolezza! «Eppur si muove!», è il caso di esclamare con Galileo. In tutto l’universo qualcosa si muove, e le azioni dei corpi che lo popolano richiedono tempo per raggiungere i loro obbiettivi. Niente viaggia a velocità infinita, anche se tanti si sciacquano continuamente la bocca con la parola «infinito». Ognuno fa la sua parte nel cosmo; ciò che è miracoloso e eccezionale è che noi lo stiamo comprendendo e descrivendo, talvolta minuziosamente.

Questo è il clima inaugurato da Galileo e respirato anche da Shakespeare e dai suoi contemporanei, almeno alcuni. Stupore, ansia di infinito, senso e superamento del limite e, nello stesso tempo, immanente trascendimento dell’umano, figurano fra i temi portanti delle sue opere, e non si può negare che descrivere le frenesie e le bassezze, ma anche le magnanimità, ha un altro sapore e un altro valore prospettico se le gesta dei protagonisti vengono proiettate contro una realtà fisica così prepotentemente dilatata.

Dan Falk nel suo libro esplora la connessione fra l’arte del famosissimo drammaturgo e lo spirito della rivoluzione scientifica, concludendo che il Bardo stesso fu significativamente influenzato dal progresso scientifico, e in particolare dall’astronomia dell’epoca. Una delle osservazioni più interessanti è quella che egli fa a proposito della commedia romantica Cimbelino . Riferendosi in particolare a una strana scena, altamente simbolica, dell’ultimo atto del dramma, dove il protagonista vede in sogno gli spiriti dei quattro membri defunti della sua famiglia aleggiare intorno a sé dormiente, si chiede se i quattro spiriti che gli volano intorno non possano essere un riflesso, magari inconsapevole, delle quattro lune che ruotano intorno al pianeta Giove, lune appassionatamente studiate e descritte da Galileo. Per fare una tale affermazione, l’autore cita, ovviamente, un certo numero di testimonianze sulle quali non possiamo soffermarci, ma basti dire che il dio Giove figura effettivamente nella commedia in questione, ed è l’unica volta che questi compare in un’opera di Shakespeare.

Possiamo concludere con una citazione dallo stesso dramma. Iachimo, gentiluomo italiano, dice, rivolgendosi alla figlia di Cimbelino: «Grazie,/ bellissima signora. Ma sono forse pazzi gli uomini?/ Dalla natura hanno avuto gli occhi per contemplare/ la volta celeste e l’inesauribile ricchezza/ della terra e del mare, per distinguere/ i globi di fuoco lassù dalle pietre indistinte/ sparse lungo le spiagge, e non riescono/ con lenti tanto perfette a distinguere/ il bello dal brutto?». O il bene dal male. Parecchi decenni più tardi Maria Mitchell, una pioniera dell’astronomia moderna, ebbe a dire: «C’è un particolare bisogno d’immaginazione nella scienza. Non è tutta matematica, né tutta logica, ma è piuttosto un’esperienza di bellezza e di poesia». 

Il Corriere della sera – 6 marzo 2016

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