18 marzo 2016

PIERO DELLA FRANCESCA e i suoi moderni allievi



Una mostra a Forlì con 250 opere. I capolavori di Piero della Francesca e quelli di altri maestri della sua epoca come Beato Angelico, Filippo Lippi. Paolo Uccello, Domenico Veneziano.
Antonio Pinelli
Il genio del '400 diventato icona di modernità
La grande mostra — circa 250 opere — che apre i battenti domani s'inserisce nel solco della fresca ma già consolidata tradizione del magnifico complesso museale forlivese in cui si svolge ( Piero della Francesca. Indagine su un mito, Forlì, Musei di San Domenico, fino al 26 giugno, sotto la direzione generale di Gianfranco Brunelli). Come spiega in catalogo Antonio Paolucci, presidente del nutrito e autorevole comitato scientifico che l'ha concepita, questa rassegna affronta l'argomento Piero della Francesca, analizzando il ruolo che il grande pittore di Borgo Sansepolcro ha ricoperto nella storia dell'arte italiana, anche alla luce del mito che la Modernità otto-novecentesca ha costruito attorno a lui.
Da una parte, dunque, si mette a fuoco uno snodo decisivo di quella vicenda della civiltà prospettica del Quattrocento, che è già stata protagonista delle non dimenticate esposizioni forlivesi dedicate a Melozzo e a Marco Palmezzano. Dall'altra, ci si riallaccia all'ancor più nutrito ciclo di mostre dei Musei di San Domenico su temi e protagonisti della modernità, passando in rassegna un amplissimo ventaglio di testimonianze figurative che dimostrano quanto abbia inciso sulle vicende artistiche dei due secoli scorsi, dopo almeno altrettanti di oblio, la riscoperta di Piero operata da artisti d'avanguardia e storici dell'arte, in un gioco di specchi tra critica e produzione artistica.
Il duplice campo d'indagine della mostra è stato già affrontato un quarto di secolo fa da rassegne memorabili, concepite e realizzate tra il 1991 e il 1992 in occasione del quinto centenario della morte di Piero della Francesca. Ma l'inevitabile enfasi con cui viene sottolineata la novità dell'odierno evento non è ingiustificata, perché mai l'argomento era stato sviluppato congiuntamente e con una simile ampiezza di sguardo, anche perché si è potuto trar profitto dalle scoperte messe a segno nel frattempo dalla ricerca.
Il borgo dell'Alta val Tiberina, in cui Piero nacque intorno al 1415, derivava il suo nome dall'antica presenza di un oratorio che custodiva reliquie del Santo Sepolcro portate dalla Terra Santa e possedeva una sua importante rilevanza strategica e commerciale in quanto snodo vitale per il transito delle merci che attraversavano l'Appennino, collegando i porti del Tirreno a quelli dell'Adriatico. Figlio di un mercante di pellami, che aveva l'esclusiva sul commercio del guado, un'erba pregiata da cui si ricava l'indaco per tingere le stoffe, Piero mosse i primi passi come pittore in ambito locale, per poi approdare a Firenze, dove nel 1439 è documentato al fianco di Domenico Veneziano. Già l'anno dopo, però, pur continuando a mantenere un legame indissolubile con il borgo natìo, dove investì accortamente i propri guadagni e portò avanti l'esecuzione di opere memorabili (per non parlare del suo massimo capolavoro, il ciclo di affreschi in san Francesco ad Arezzo, non lontano da casa), lo troviamo a Modena, il primo dei tanti centri dell'Emilia-Romagna in cui sostò, lasciando saggi della sua maestria: tutti perduti, salvo il celebre affresco "araldico" nel Tempio Malatestiano di Rimini, da lui firmato nel 1451.
Per illustrare la cultura pittorica fiorentina tra gli anni Trenta e Quaranta la mostra, facendo perno su una Madonna con il Bambino, che è l'opera più giovanile ascrivibile a Piero giunta fino a noi, esibisce opere di Domenico Veneziano, Beato Angelico, Filippo Lippi, Paolo Uccello e Andrea del Castagno, esponenti di punta della pittura post-masaccesca e protagonisti di quella ricerca prospettica che Piero eleverà a pietra angolare del suo linguaggio figurativo, divenendone anche il più compiuto teorico. Ma giustamente, esponendo un affresco staccato dal chiostro della Badia fiorentina, opera del portoghese Giovanni di Consalvo, si è voluto dar conto dei primi riflessi della pittura fiamminga con cui il giovane Piero poté misurarsi.
Gli spostamenti dell'artista tra Modena, Bologna, Rimini, Ferrara e Ancona nel quinto decennio del secolo determinano l'affermarsi di una cultura pierfrancescana nelle opere di artisti emiliani come Marco Zoppo, Francesco del Cossa, Ercole de' Roberti, Bartolomeo degli Erri, Lorenzo e Cristoforo da Lendinara, quest'ultimo indagato non solo per le ben note tarsie prospettiche, ma anche per l'attività più squisitamente pittorica. Peccato che l'assenza del San Girolamo di Berlino impedisca di confrontare quel piccolo ma indubitabile capolavoro di Piero, forse commissionato da Girolamo Ferretti, con la lunetta dell'anconetano Nicola di Maestro Antonio, la cui adesione ai modi del maestro borgigiano è la conferma che la presenza di Piero nel settembre 1450 ad Ancona in casa Ferretti, recentemente documentata da Matteo Mazzalupi, incise nel tessuto artistico locale.
    Beato Angelico, Imposizione del nome al Battista
Il raggio d'influsso marchigiano di Piero, ribadito dalla sua presenza nella Urbino di Federico da Montefeltro, trova riscontro in altri artisti, tra cui Fra Carnevale e Giovanni Angelo da Camerino, mentre il riflesso della sua attività in patria e ad Arezzo è esemplificata da opere mirabili di Luca Signorelli, Bartolomeo della Gatta e Perugino, mentre esempi eloquenti di Melozzo e di Antoniazzo Romano testimoniano l'impatto che ebbero nella città pontificia gli affreschi, poi inesorabilmente ricoperti da Raffaello, che Piero eseguì tra l'inverno del 1458 e la primavera del 1459 nell'appartamento di Pio II. Qualche anno prima aveva avviato, interrompendola bruscamente, la decorazione di una cappella in Santa Maria Maggiore per il cardinale d'Estouteville. Purtroppo della sua produzione romana sono rimasti solo due pallidi lacerti nella volta della cappella, un San Luca e un San Marco.
La quasi totale scomparsa dei lavori romani di Piero resta uno dei maggiori ostacoli alla dimostrazione del ruolo determinante che la sua «sintesi prospettica di forma-colore», per usare l'aurea formula coniata da Roberto Longhi nella capitale monografia del 1927, ebbe nella costruzione di una lingua figurativa italiana che coinvolse anche la Scuola veneta. Un capitolo quest'ultimo, che è ben esemplificato in mostra, da opere di Antonello da Messina, Giovanni Bellini e del veronese Francesco Benaglio, che fa perno sull'unico dipinto di Piero tuttora nella città lagunare: il San Girolamo e un devoto delle Gallerie dell'Accademia.

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Fabrizio D'Amico

Da Hopper a Morandi tutti i suoi allievi degli ultimi due secoli


L'esposizione rende omaggio alle personalità che furono fortemente influenzate dallo stile e dal colore del "monarca della pittura"
A fianco delle opere di Piero e di coloro che (prima che un secolare oblio calasse — inspiegato — sulla sua figura) ne ascoltarono la lezione fino a considerarlo, come scrisse Luca Pacioli nel 1509, il "monarca della pittura", stanno oggi a Forlì le opere dei due secoli che, in Italia e in Europa, ne riscoprirono la grandezza: il XIX e il XX. Ed è molto ampio, concettualmente non meno che cronologicamente, l'arco indagato. Il reingresso, cioè, del maestro di Sansepolcro nella coscienza degli artisti e della storiografia tutta (dai macchiaioli a Seurat, fino a Balthus e Hopper; e da Cavalcaselle a Berenson, da Adolfo Venturi a Longhi); comprendendo le filiazioni iconografiche e quelle formali, e andando così dalle copie dei "ritrovati" affreschi di Arezzo — quelle dell'archeologo Austen Henry Layard (1855) o del parigino Loyeux, fino ai pastelli di Ferruccio Ferrazzi ispirati dal medesimo ciclo della Scoperta della Vera Croce — alle desunzioni più emozionanti, e talvolta segrete, che riguardano lo spazio e la luce di Piero della Francesca.
Quasi contemporaneamente alle copie eseguite da Loyeux, Silvestro Lega pone mano a uno dei suoi molti capolavori, Il canto di uno stornello; e già vi ripensa forse, nella fissità delle tre giovani attorno al piano, e nella luce quieta e piena che scopre il sentimento che le stringe a una costola di Piero. Una luce analoga staglia le geometrie dei caseggiati nei due Signorini qui esposti, Santa Maria dei Bardi a Firenze e Villa fiorentina, mentre — grosso modo coevi anch'essi — sono i due Puvis de Chavannes ( Le ballon e Le pigeon) provenienti dal d'Orsay di Parigi.
    Balthus, Les Joueurs de cartes

Ma bisognerà scavalcare la prima guerra mondiale per rintracciare più profonda ed esclusiva l'orma di Piero nella pittura italiana, quando tutta l'arte europea agogna ad un ordine "classico". Essa rintocca nitida, ad esempio, nel Guidi più alto, quello del tempo romano, qui rappresentato da alcuni suoi dipinti capitali, che spesso inviava — armato della memoria di Piero e, insieme, di quella di Caravaggio — alle Biennali veneziane. Ed ecco, tra gli altri, il Ritratto della madre, La visita, In tram, il Ritratto di Adriana.
Già quando Casorati presentava poi, nel 1923 a Buenos Aires, il suo Silvana Cenni, il nume di Piero era di nuovo, dopo secoli e ormai saldamente, assiso nell'empireo dei grandi italiani del Tre e del Quattrocento: e, assieme a Giotto e Paolo Uccello, a Masaccio e a Mantegna, era la fonte "antica" cui era quasi d'obbligo rivolgersi. Era, Silvana Cenni, una figura ieratica, stagliata come un'icona muta e immota al centro d'un partito architettonico d'assoluta assialità, che era allora — all'apice del tempo "neoclassico" di Casorati — modo da lui costantemente scelto per dar casa alle sue figure. In quella sua severa giovinetta, nel suo allargare le braccia e distendere le lunghe, gelide mani come a comprendere tutto il mondo dentro il suo abbraccio, si ripete il gesto analogo della Madonna della Misericordia di Piero, «chiusa nell'autosufficiente contemplazione della propria indefettibile perfezione geometrica», come scrive oggi Daniele Benati.
    Campigli, Le cucitrici
Subito dopo l'eco di Piero si sovrappone al Magischer Realismus che Bontempelli va teorizzando in Italia, sulla scorta del pensiero di Franz Roh, e spesso si confonde con esso. Vengono così, negli anni Venti, l'Idolo del prisma di Ferrazzi, Le cucitrici di Campigli, e ancora tanta pittura romana (da Pannagi a Donghi, da Cagli a Gentilini). Fin che non si giunge al vertice qualitativo della colleganza fra Piero e la pittura del Novecento: a quella Natura morta di oggetti in viola di Morandi, che il pittore donò a Longhi, con l'intenzione di rendergli omaggio per la monografia del 1927 sul maestro di Sansepolcro. Monografia che era stata fondamentale per gli studi, e insieme per il diffondersi ulteriore della fama di Piero presso gli artisti. Una «grande, chiara luce», scriverà Arcangeli, bagna i pochi colori della tela morandiana — il bianco, l'ocra e i bruni, l'azzurro: i colori medesimi, e la luce medesima, d'uno dei più seducenti quadri tardi di Piero, la Natività della National Gallery di Londra.


La Repubblica – 12 febbraio 2016




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