Una mostra a Forlì
con 250 opere. I capolavori di Piero della Francesca e quelli di altri
maestri della sua epoca come Beato Angelico, Filippo Lippi.
Paolo Uccello, Domenico Veneziano.
Antonio Pinelli
Il genio del '400
diventato icona di modernità
La grande mostra —
circa 250 opere — che apre i battenti domani s'inserisce nel solco
della fresca ma già consolidata tradizione del magnifico complesso
museale forlivese in cui si svolge ( Piero della Francesca. Indagine
su un mito, Forlì, Musei di San Domenico, fino al 26 giugno, sotto
la direzione generale di Gianfranco Brunelli). Come spiega in
catalogo Antonio Paolucci, presidente del nutrito e autorevole
comitato scientifico che l'ha concepita, questa rassegna affronta
l'argomento Piero della Francesca, analizzando il ruolo che il grande
pittore di Borgo Sansepolcro ha ricoperto nella storia dell'arte
italiana, anche alla luce del mito che la Modernità
otto-novecentesca ha costruito attorno a lui.
Da una parte, dunque, si
mette a fuoco uno snodo decisivo di quella vicenda della civiltà
prospettica del Quattrocento, che è già stata protagonista delle
non dimenticate esposizioni forlivesi dedicate a Melozzo e a Marco
Palmezzano. Dall'altra, ci si riallaccia all'ancor più nutrito ciclo
di mostre dei Musei di San Domenico su temi e protagonisti della
modernità, passando in rassegna un amplissimo ventaglio di
testimonianze figurative che dimostrano quanto abbia inciso sulle
vicende artistiche dei due secoli scorsi, dopo almeno altrettanti di
oblio, la riscoperta di Piero operata da artisti d'avanguardia e
storici dell'arte, in un gioco di specchi tra critica e produzione
artistica.
Il duplice campo
d'indagine della mostra è stato già affrontato un quarto di secolo
fa da rassegne memorabili, concepite e realizzate tra il 1991 e il
1992 in occasione del quinto centenario della morte di Piero della
Francesca. Ma l'inevitabile enfasi con cui viene sottolineata la
novità dell'odierno evento non è ingiustificata, perché mai
l'argomento era stato sviluppato congiuntamente e con una simile
ampiezza di sguardo, anche perché si è potuto trar profitto dalle
scoperte messe a segno nel frattempo dalla ricerca.
Il borgo dell'Alta val
Tiberina, in cui Piero nacque intorno al 1415, derivava il suo nome
dall'antica presenza di un oratorio che custodiva reliquie del Santo
Sepolcro portate dalla Terra Santa e possedeva una sua importante
rilevanza strategica e commerciale in quanto snodo vitale per il
transito delle merci che attraversavano l'Appennino, collegando i
porti del Tirreno a quelli dell'Adriatico. Figlio di un mercante di
pellami, che aveva l'esclusiva sul commercio del guado, un'erba
pregiata da cui si ricava l'indaco per tingere le stoffe, Piero mosse
i primi passi come pittore in ambito locale, per poi approdare a
Firenze, dove nel 1439 è documentato al fianco di Domenico
Veneziano. Già l'anno dopo, però, pur continuando a mantenere un
legame indissolubile con il borgo natìo, dove investì accortamente
i propri guadagni e portò avanti l'esecuzione di opere memorabili
(per non parlare del suo massimo capolavoro, il ciclo di affreschi in
san Francesco ad Arezzo, non lontano da casa), lo troviamo a Modena,
il primo dei tanti centri dell'Emilia-Romagna in cui sostò,
lasciando saggi della sua maestria: tutti perduti, salvo il celebre
affresco "araldico" nel Tempio Malatestiano di Rimini, da
lui firmato nel 1451.
Per illustrare la cultura
pittorica fiorentina tra gli anni Trenta e Quaranta la mostra,
facendo perno su una Madonna con il Bambino, che è l'opera più
giovanile ascrivibile a Piero giunta fino a noi, esibisce opere di
Domenico Veneziano, Beato Angelico, Filippo Lippi, Paolo Uccello e
Andrea del Castagno, esponenti di punta della pittura post-masaccesca
e protagonisti di quella ricerca prospettica che Piero eleverà a
pietra angolare del suo linguaggio figurativo, divenendone anche il
più compiuto teorico. Ma giustamente, esponendo un affresco staccato
dal chiostro della Badia fiorentina, opera del portoghese Giovanni di
Consalvo, si è voluto dar conto dei primi riflessi della pittura
fiamminga con cui il giovane Piero poté misurarsi.
Gli spostamenti
dell'artista tra Modena, Bologna, Rimini, Ferrara e Ancona nel quinto
decennio del secolo determinano l'affermarsi di una cultura
pierfrancescana nelle opere di artisti emiliani come Marco Zoppo,
Francesco del Cossa, Ercole de' Roberti, Bartolomeo degli Erri,
Lorenzo e Cristoforo da Lendinara, quest'ultimo indagato non solo per
le ben note tarsie prospettiche, ma anche per l'attività più
squisitamente pittorica. Peccato che l'assenza del San Girolamo di
Berlino impedisca di confrontare quel piccolo ma indubitabile
capolavoro di Piero, forse commissionato da Girolamo Ferretti, con la
lunetta dell'anconetano Nicola di Maestro Antonio, la cui adesione ai
modi del maestro borgigiano è la conferma che la presenza di Piero
nel settembre 1450 ad Ancona in casa Ferretti, recentemente
documentata da Matteo Mazzalupi, incise nel tessuto artistico locale.
Beato Angelico, Imposizione del nome al Battista
Il raggio d'influsso
marchigiano di Piero, ribadito dalla sua presenza nella Urbino di
Federico da Montefeltro, trova riscontro in altri artisti, tra cui
Fra Carnevale e Giovanni Angelo da Camerino, mentre il riflesso della
sua attività in patria e ad Arezzo è esemplificata da opere
mirabili di Luca Signorelli, Bartolomeo della Gatta e Perugino,
mentre esempi eloquenti di Melozzo e di Antoniazzo Romano
testimoniano l'impatto che ebbero nella città pontificia gli
affreschi, poi inesorabilmente ricoperti da Raffaello, che Piero
eseguì tra l'inverno del 1458 e la primavera del 1459
nell'appartamento di Pio II. Qualche anno prima aveva avviato,
interrompendola bruscamente, la decorazione di una cappella in Santa
Maria Maggiore per il cardinale d'Estouteville. Purtroppo della sua
produzione romana sono rimasti solo due pallidi lacerti nella volta
della cappella, un San Luca e un San Marco.
La quasi totale scomparsa
dei lavori romani di Piero resta uno dei maggiori ostacoli alla
dimostrazione del ruolo determinante che la sua «sintesi prospettica
di forma-colore», per usare l'aurea formula coniata da Roberto
Longhi nella capitale monografia del 1927, ebbe nella costruzione di
una lingua figurativa italiana che coinvolse anche la Scuola veneta.
Un capitolo quest'ultimo, che è ben esemplificato in mostra, da
opere di Antonello da Messina, Giovanni Bellini e del veronese
Francesco Benaglio, che fa perno sull'unico dipinto di Piero tuttora
nella città lagunare: il San Girolamo e un devoto delle Gallerie
dell'Accademia.
*****
Fabrizio D'Amico
Da Hopper a Morandi tutti i suoi allievi degli
ultimi due secoli
L'esposizione rende omaggio alle personalità che
furono fortemente influenzate dallo stile e dal colore del "monarca
della pittura"
A fianco delle opere di Piero e di coloro che (prima
che un secolare oblio calasse — inspiegato — sulla sua figura) ne
ascoltarono la lezione fino a considerarlo, come scrisse Luca Pacioli
nel 1509, il "monarca della pittura", stanno oggi a Forlì
le opere dei due secoli che, in Italia e in Europa, ne riscoprirono
la grandezza: il XIX e il XX. Ed è molto ampio, concettualmente non
meno che cronologicamente, l'arco indagato. Il reingresso, cioè, del
maestro di Sansepolcro nella coscienza degli artisti e della
storiografia tutta (dai macchiaioli a Seurat, fino a Balthus e
Hopper; e da Cavalcaselle a Berenson, da Adolfo Venturi a Longhi);
comprendendo le filiazioni iconografiche e quelle formali, e andando
così dalle copie dei "ritrovati" affreschi di Arezzo —
quelle dell'archeologo Austen Henry Layard (1855) o del parigino
Loyeux, fino ai pastelli di Ferruccio Ferrazzi ispirati dal medesimo
ciclo della Scoperta della Vera Croce — alle desunzioni più
emozionanti, e talvolta segrete, che riguardano lo spazio e la luce
di Piero della Francesca.
Quasi contemporaneamente alle copie eseguite da
Loyeux, Silvestro Lega pone mano a uno dei suoi molti capolavori, Il
canto di uno stornello; e già vi ripensa forse, nella fissità delle
tre giovani attorno al piano, e nella luce quieta e piena che scopre
il sentimento che le stringe a una costola di Piero. Una luce analoga
staglia le geometrie dei caseggiati nei due Signorini qui esposti,
Santa Maria dei Bardi a Firenze e Villa fiorentina, mentre — grosso
modo coevi anch'essi — sono i due Puvis de Chavannes ( Le ballon e
Le pigeon) provenienti dal d'Orsay di Parigi.
Balthus, Les Joueurs de cartes
Ma bisognerà scavalcare la prima guerra mondiale
per rintracciare più profonda ed esclusiva l'orma di Piero nella
pittura italiana, quando tutta l'arte europea agogna ad un ordine
"classico". Essa rintocca nitida, ad esempio, nel Guidi più
alto, quello del tempo romano, qui rappresentato da alcuni suoi
dipinti capitali, che spesso inviava — armato della memoria di
Piero e, insieme, di quella di Caravaggio — alle Biennali
veneziane. Ed ecco, tra gli altri, il Ritratto della madre, La
visita, In tram, il Ritratto di Adriana.
Già quando Casorati presentava poi, nel 1923 a
Buenos Aires, il suo Silvana Cenni, il nume di Piero era di nuovo,
dopo secoli e ormai saldamente, assiso nell'empireo dei grandi
italiani del Tre e del Quattrocento: e, assieme a Giotto e Paolo
Uccello, a Masaccio e a Mantegna, era la fonte "antica" cui
era quasi d'obbligo rivolgersi. Era, Silvana Cenni, una figura
ieratica, stagliata come un'icona muta e immota al centro d'un
partito architettonico d'assoluta assialità, che era allora —
all'apice del tempo "neoclassico" di Casorati — modo da
lui costantemente scelto per dar casa alle sue figure. In quella sua
severa giovinetta, nel suo allargare le braccia e distendere le
lunghe, gelide mani come a comprendere tutto il mondo dentro il suo
abbraccio, si ripete il gesto analogo della Madonna della
Misericordia di Piero, «chiusa nell'autosufficiente contemplazione
della propria indefettibile perfezione geometrica», come scrive oggi
Daniele Benati.
Campigli, Le cucitrici
Subito dopo l'eco di Piero si sovrappone al
Magischer Realismus che Bontempelli va teorizzando in Italia, sulla
scorta del pensiero di Franz Roh, e spesso si confonde con esso.
Vengono così, negli anni Venti, l'Idolo del prisma di Ferrazzi, Le
cucitrici di Campigli, e ancora tanta pittura romana (da Pannagi a
Donghi, da Cagli a Gentilini). Fin che non si giunge al vertice
qualitativo della colleganza fra Piero e la pittura del Novecento: a
quella Natura morta di oggetti in viola di Morandi, che il pittore
donò a Longhi, con l'intenzione di rendergli omaggio per la
monografia del 1927 sul maestro di Sansepolcro. Monografia che era
stata fondamentale per gli studi, e insieme per il diffondersi
ulteriore della fama di Piero presso gli artisti. Una «grande,
chiara luce», scriverà Arcangeli, bagna i pochi colori della tela
morandiana — il bianco, l'ocra e i bruni, l'azzurro: i colori
medesimi, e la luce medesima, d'uno dei più seducenti quadri tardi
di Piero, la Natività della National Gallery di Londra.
La Repubblica – 12 febbraio 2016
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