Stefano Vilardo oggi
Agli smemorati che hanno dimenticato quando eravamo noi a cercare una vita migliore:
Tutti dicono Germania Germania
e se ne riempiono la bocca
come fosse la manna del cielo
a me non ha portato che sfortuna
ma io sono cocciuto come un mulo
e andrò in Germania fino a quando crepo
I primi giorni tutto mi va bene
trovo lavoro casa
e guadagno che non mi posso lamentare
poi il diavolo ci mette la coda
e vado a finire in ospedale
come quella volta che mi cadde addosso
un sacco di cemento
e mi ruppi tre costole che ne risento ancora
Parlano della Germania come fosse il paradiso
come se i soldi te li regalassero
invece se non ti sfianchi di lavoro
per dieci dodici ore al giorno
a casa non manderesti che pidocchi
Ultimamente le cose mi andarono bene
e misi da parte un buon gruzzoletto
a Delia mi dissi
che il Natale mi aspetta
Me lo fece fare certo il diavolo
Ero tranquillo
ora sono nei guai
ché sopra il treno litigai con un disgraziato
e sono tutto foruncoli per lo spavento
ché il sangue mi diventò acqua
quando quello voleva spararmi
Non faccio che andare dai medici
e pago le visite di sacchetta mia
perché ho dimenticato in Germania
il grandsciai internazionale
che è come il libretto della mutua
Ho scritto ad un cugino
ché me lo faccia rilasciare dalla ditta dove lavoravo
ma ancora non ho visto niente
intanto i soldi se ne vanno come fave
In Venezuela non trovai lavoro
facevo giornate intere di cammino
i piedi pieni di piaghe
c'è travaho
ma quale travaho niente travaho
allora mi misi a vendere gelati per le strade
la campanella in mano
facevo più rumore di una chiesa
Poi finalmente trovai lavoro ii un cantiere
e comincia a guadagnare qualche pesos
dopo cinque anni mi stancai
ché non era vita da potersi fare
dalla mattina alla sera col piccone in mano
e mia moglie che non finiva mai di scrivermi perché tornassi
Aveva ragione poveretta
ché l'avevo lasciata dopo cinque mesi di matrimonio
e ogni santo vuole la sua festa
siamo tutti fatti di sangue
e dormire soli non è bene
Mi feci liquidare dalla ditta il mio avere
e me ne ritornai
stetti a Delia tre anni
ma non potevo tirare avanti la vita
intesi della Germania
e ritornai ad emigrare
A Manaim mi imbocciai in un baostello
lavoro quarantatré ore la settimana
e me la passo bene
manco il paragone con il Venezuela
La gente mi rispetta
Se uno si fa i fatti suoi
e non va in cerca di donnacce
non frequenta le cantine non si ubriaca
non gli capita niente di male
sano va e sano torna salvo qualche disgrazia
che può capitare ad ogni figlio di mamma
Abito in una stanzetta con quattro paesani
siamo una famiglia
mai una parola
facciamo la spesa un giorno ciascuno
e viviamo d'amore e d'accordo
Ma una cosa ho da dire
ho quarantasei anni
una buona metà l'ho passati all'estero
privo della famiglia e di ogni conforto
che i figli manco mi conoscono
E' cosa giusta domando ai nostri governanti
questa vita di cani randagi
ché se loro dovessero campare
lontani dalle mogli dai figli
disperati
in cerca di un pezzo di pane in terre straniere
non avrebbero una faccia così soddisfatta
quando appaiono alla televisione
a raccontarci minchiate
Stefano Vilardo in Tutti dicono Germania Germania
Del gran libro di Stefano Vilardo abbiamo parlato e scritto più volte anche in questo blog. Torniamo a farlo oggi, alla vigilia del 94° compleanno del nostro maestro e amico, per sottolineare la straordinaria attualità del suo capolavoro che, nel 1975, venne introdotto con queste parole da Leonardo Sciascia:
Prima della Rivoluzione francese -
annotava Gramsci - prima cioè che si costituisse organicamente una
classe dirigente nazionale, c'era un'emigrazione di elementi italiani
rappresentanti la tecnica e la capacità direttiva, elementi che hanno
arricchito gli Stati europei col loro contributo. Dopo la formazione di
una borghesia nazionale e dopo l'avvento del capitalismo si è iniziata
l'emigrazione del popolo lavoratore, che è andato ad aumentare il
plus-valore dei capitalismi stranieri: la debolezza nazionale della
classe dirigente ha così sempre operato negativamente. Essa non ha dato
la disciplina nazionale al popolo, non l'ha fatto uscire dal
municipalismo per una unità superiore, non ha creato una situazione
economica che riassorbisse le forze di lavoro emigrate, in modo che
questi elementi sono andati perduti in grandissima parte, incorporandosi
nelle nazionalità straniere in funzione subalterna. Sempre così
negativamente operando, la classe dirigente italiana si è data, dopo
l'Unità, a un recupero di tipo sciovinistico delle glorie italiane in
terra straniera, cioè di quegli elementi che nel campo delle invenzioni,
delle scoperte, dell'arte militare avevano contribuito alla grandezza e
ricchezza di altri Stati: e resta esemplare la questione
sull'italianità di Colombo, che ha dato luogo a tutta una letteratura
che Gramsci definisce «completamente inutile e oziosa. Ma un tale
chauvinisme, praticato a livello di un certo giornalismo, di una certa
erudizione, aveva in effetti una funzione: la classe dirigente nazionale
lo dava come una specie di viatico - il solo che fosse capace di dare -
al popolo lavoratore che massiccia mente emigrava. Già Cesare Balbo
aveva auspicato «una storia intiera e magnifica e peculiare all'Italia»
degli italiani, dei grandi italiani, fuori d'Italia; e proprio nel
momento in cui una delle più grosse ondate di emigrazione dall'Italia si
riversava sulle Americhe, sugli Stati Uniti e sull' Argentina in
prevalenza, usciva un Dizionario degli italiani all'estero che partiva
dall'anno 1000. Con lo stesso criterio, negli anni del fascismo si
inaugurava - suggerita da Gioacchino Volpe - una pubblicazione in più
volumi su. L'opera del Genio italiano all'estero: ufficiale,
governativa. La classe dirigente italiana, e la cultura che la
rappresentava, era talmente occupata a cercare le orme del genio (Genio)
italiano in terra straniera, dall'anno 1000 alla Rivoluzione francese,
che non si accorgeva delle centinaia di migliaia di italiani che,
bestialmente stivate, continuavano a lasciare le Itale sponde. Non
voleva accorgersene, cioè non voleva curarsene. Erano italiani senza
genio (Genio): sapevano soltanto lavorare con le braccia, e duramente.
In altro luogo Gramsci osserverà: e perché questa classe dirigente, la
sua cultura, la sua letteratura, dovrebbe occuparsene quando sono
all'estero, dei lavoratori italiani, se nemmeno se ne occupa quando sono
in Italia?
Ma in Italia, bene o male, paternalisticamente o meno, tra scapigliatura e verismo, il popolo lavoratore era entrato nella letteratt!ra. Riguardo all'emigrazione, era però tutt'altro affare. E valga l'ironica osservazione che Dominique Fernandez fa a proposito dei Malavoglia: «Il maggiore dei Malavoglia, sin dal tempo in cui è ancora un bravo ragazzino e sta alla larga dalle osterie, si mette in testa di lasciare Acitrezza e tentare fortuna altrove. L'autore, lungi dall'incoragglarlo in questa sana decisione, l'accusa di voler abbreviare i giorni di sua madre, di abbandonare alla deriva i suoi fratellini, di infischiarsi del focolare domestico, e infine d'essere un ambizioso, un pretenzioso, che sarà punito per aver disprezzato l'onorevole miseria di cui i Malavoglia si sono sempre accontentati... I Malavoglia apparvero nel 1881. Ebbene, in quello stesso anno, l'Europa mandava 85.000 emigranti in America; tre anni dopo 200.000; nel 1900 l'Italia, da sola, 200.000, di cui circa una metà siciliani... Fernandez chiama quella di Verga «une bévue historique de taille», una grossa cantonata storica. E non il solo Verga l'ha presa. Non c'è nella letteratura italiana, infatti, un solo libro che rappresenti la condizione degli emigranti per come è stata, per come è. Solo in questi ultimi anni abbiamo avuto dei documenti diciamo ricreati: le lettere di un emigrante pubblicate da Antonio Castelli in Entromondo; queste storie messe in versi da Stefano Vilardo.
Vilardo è nato a Delia, in provincia di Caltanissetta, e a Delia è vissuto per tanti anni, insegnando nelle scuole elementari. Poeta, per così dire, in proprio (un paio divolumetti pubblicati in edizione limitata: poesie di idillio, poesie d'amore), ad un certo punto si è dato a raccogliere e ricreare queste storie (alcune ne ha pubblicate sul numero 15, luglio-settembre 1969, di Nuovi argomenti). E non è stata un'operazione facile. Per quanto, leggendole, non sembri, la mediazione del poeta c'è stata. La ricreazione, appunto. E che non sembri, è il maggior merito di questo libretto.
Leonardo Sciascia
Ma in Italia, bene o male, paternalisticamente o meno, tra scapigliatura e verismo, il popolo lavoratore era entrato nella letteratt!ra. Riguardo all'emigrazione, era però tutt'altro affare. E valga l'ironica osservazione che Dominique Fernandez fa a proposito dei Malavoglia: «Il maggiore dei Malavoglia, sin dal tempo in cui è ancora un bravo ragazzino e sta alla larga dalle osterie, si mette in testa di lasciare Acitrezza e tentare fortuna altrove. L'autore, lungi dall'incoragglarlo in questa sana decisione, l'accusa di voler abbreviare i giorni di sua madre, di abbandonare alla deriva i suoi fratellini, di infischiarsi del focolare domestico, e infine d'essere un ambizioso, un pretenzioso, che sarà punito per aver disprezzato l'onorevole miseria di cui i Malavoglia si sono sempre accontentati... I Malavoglia apparvero nel 1881. Ebbene, in quello stesso anno, l'Europa mandava 85.000 emigranti in America; tre anni dopo 200.000; nel 1900 l'Italia, da sola, 200.000, di cui circa una metà siciliani... Fernandez chiama quella di Verga «une bévue historique de taille», una grossa cantonata storica. E non il solo Verga l'ha presa. Non c'è nella letteratura italiana, infatti, un solo libro che rappresenti la condizione degli emigranti per come è stata, per come è. Solo in questi ultimi anni abbiamo avuto dei documenti diciamo ricreati: le lettere di un emigrante pubblicate da Antonio Castelli in Entromondo; queste storie messe in versi da Stefano Vilardo.
Vilardo è nato a Delia, in provincia di Caltanissetta, e a Delia è vissuto per tanti anni, insegnando nelle scuole elementari. Poeta, per così dire, in proprio (un paio divolumetti pubblicati in edizione limitata: poesie di idillio, poesie d'amore), ad un certo punto si è dato a raccogliere e ricreare queste storie (alcune ne ha pubblicate sul numero 15, luglio-settembre 1969, di Nuovi argomenti). E non è stata un'operazione facile. Per quanto, leggendole, non sembri, la mediazione del poeta c'è stata. La ricreazione, appunto. E che non sembri, è il maggior merito di questo libretto.
Leonardo Sciascia
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