29 marzo 2016

C. BENEDETTI SULLA MORTE DI PASOLINI

Pasolini con sua madre


Pasolini, Cefis e la macchinazione

Carla Benedetti




Consiglio di vedere il bel film di David Grieco La macchinazione:
a tutti coloro che credono che Pasolini sia morto da “frocio”;
a tutti coloro che non pensano possibile una matrice politico-criminale di quell’orribile massacro;
ai tanti che chiedono con forza e con sgomento un po’ di verità su quella vicenda vecchia di quarant’anni, certamente lontana nel tempo, ma che resta tuttora una ferita aperta nel nostro paese ad alto tasso di corruzione, di segreti di Stato e di ingiustizia;
ai tanti che oggi giustamente pretendono una verità sull’omicidio di Giulio Regeni, mentre le autorità egiziane tentano di nasconderla dietro la versione di comodo di un rapimento a scopo di lucro, nonostante gli evidenti segni di tortura impressi sul suo corpo. Anche l’omicidio di Pasolini ha avuto fin da subito la sua versione di copertura, e non meno piena di contraddizioni. Solo che, a differenza di quella su Regeni, la versione ufficiale dell’omicidio di Pasolini ha convinto quasi tutti ed ha retto per decenni.
Molti hanno creduto alla sceneggiata del frocio che va in giro di notte a suo rischio e pericolo, ucciso da un ragazzino e da qualche altro balordo fascista e omofobo. Vi hanno creduto per disinformazione, per indifferenza, per automatismo, qualcuno anche per paura. Nemmeno le ultime indagini, conclusesi qualche mese fa con una richiesta di archiviazione, hanno osato sfiorare la verità, depistata da tanti anni, lasciando ancora una volta nel buio moventi, mandanti e esecutori.
E anche a tutti quei letterati, scrittori, giornalisti, politici e esponenti del movimento gay che negli ultimi anni hanno sposato dogmaticamente la versione ufficiale dell’omicidio di Pasolini, tappandosi gli occhi sulle sue evidenti contraddizioni, mettendo a tacere i propri scrupoli di verità, consiglio di vedere questo film. Certo non cambieranno posizione, ma forse perderanno un po’ di baldanza nel mostrarsi così privi di dubbi.
So bene che non basta un film a fare definitivamente chiarezza su un delitto che per quarant’anni è stato inquinato da depistaggi, connivenze e paura di parlare (e non per opera di autorità egiziane, ma delle nostre, quelle di un paese democratico!). Un film però può dare consistenza di immagini e di racconto a un’altra ricostruzione dell’omicidio, altamente plausibile, certamente più plausibile di quella ufficiale, ormai smentita da tanti fatti, indizi e testimonianze che sono venuti a galla negli ultimi anni. La macchinazione riesce a farlo bene, perché è molto accurato nella ricostruzione delle circostanze, ed è soprattutto un film riuscito.
Poiché è stato detto da qualche recensore che il film di Grieco è un’interpretazione fantasiosa dell’omicidio di Pasolini, elenco qui innanzitutto ciò che il film ci mostra di ormai accertato, in contrasto con la versione ufficiale (quella sì davvero fantasiosa!). E dirò man mano anche qualcosa sulla felice sceneggiatura, sulle soluzioni filmiche adottate, sulla forza di alcune immagini.
Prima fra tutte quella che chiude il film: una schiera di carri armati-trivelle, dotati di potenti fari, che spuntano all’orizzonte nella notte, e avanzano lentamente verso il corpo martoriato e ormai senza vita di Pasolini, ripreso in primo piano, nel buio. Un recensore lo ha considerato un espediente filmico da quattro soldi, a me è parso molto efficace – tra l’altro a pochi mesi da un referendum che chiede di fermare l’arrivo di altre trivelle.
Dunque, primo dato. Il film ci mostra che Pasolini e Pelosi già si conoscevano da qualche mese, avevano una specie di relazione, una frequentazione abituale. Invece, la versione ufficiale sostiene che Pasolini quella notte rimorchiò uno sconosciuto alla stazione Termini.
Secondo dato. Il film ci mostra che Pasolini, la notte in cui è stato ucciso, doveva incontrare dei ricattatori. Che si era recato all’appuntamento con qualche milione di lire sotto il tappetino della sua auto, da consegnare ai ladri, in cambio della restituzione di alcune pellicole di Salò, a cui stava allora lavorando, e già in fase di montaggio. Le bobine erano state rubate dagli stabilimenti romani della Technicolor. Questo dato, accertato, e che immediatamente fa pensare a un agguato – Pasolini attirato in una trappola con la scusa della restituzione dei negativi – non viene menzionato nella versione ufficiale, secondo la quale Pasolini quella notte andava in cerca di ragazzi per incontri sessuali mercenari.
Terzo dato - ed è questo a mio parere il maggior pregio del film sul piano documentario - Grieco mette bene in evidenza il rapporto tra l’omicidio e ciò che Pasolini scriveva in quegli anni, in particolare nel romanzo Petrolio, rimasto incompiuto.
Pasolini è stato ucciso mentre stava scrivendo qualcosa che la morte ha interrotto. Se avessero ucciso un giornalista oppure un magistrato che stava conducendo un’inchiesta, sarebbe venuto a chiunque lo scrupolo di controllare se in ciò che stava preparando, e che gli è stato impedito di portare a termine, non ci fosse per caso qualcosa che desse fastidio a qualcuno di molto potente. Invece questo scrupolo non è venuto agli inquirenti all’epoca dei primi processi. Non solo, non è venuto nemmeno ai tanti critici e letterati che negli anni hanno studiato quel libro, e che anzi spesso e volentieri lo hanno interpretato come un “documento” della “patologia” sessuale del suo autore. Il primo ad avere avuto questo scrupolo non è stato né uno dei filologi che hanno editato le carte di Pasolini, né un critico letterario, né un giornalista. E’ stato un magistrato, il sostituto procuratore pavese Vincenzo Calia, mentre stava indagando sull’omicidio di Mattei.
Nella sua richiesta di archiviazione, del 2003, contenente una documentazione importantissima quanto meno per la verità storica, Calia inserisce una pagina di Petrolio. Del resto il titolo stesso non può non richiamare l’attenzione di chi sta indagando sull’omicidio del presidente dell’Eni. Calia si accorge che in quel romanzo Pasolini era già arrivato, molti anni prima di lui, alle sue stesse conclusioni, additando in Eugenio Cefis (successore di Mattei alla presidenza dell’Eni, poi presidente della Montedison, nonché fondatore della P2, secondo un’informativa del Sismi) uno dei possibili mandanti dell’omicidio di Mattei.
Cefis è in effetti un personaggio-chiave del romanzo, che Pasolini prende a rappresentante del nuovo potere criminale-mafioso-finanziario che si stava affermando in Italia, e che reggeva le fila di stragi e omicidi, oltre che di immensi affari. Di Cefis Pasolini parla più volte anche nei suoi ultimi scritti corsari e giornalistici - in altre parole lo prende di mira. In Petrolio inserisce addirittura tre suoi discorsi, che tiene nella cartella assieme alle informative che i Sevizi segreti mandavano ogni mattina a Cefis, i cosiddetti “mattinali”, pubblicati da “l’Espresso” il 4 e l’11 agosto 1974.
Tra le carte di Petrolio c’erano anche le fotocopie di uno strano libro, subito ritirato dalla circolazione e all’epoca introvabile, intitolato Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente(oggi ripubblicato da Effigie). Questo libro, scritto probabilmente da un nemico di Cefis che si nascondeva dietro lo pseudonimo di Giorgio Steimez, rivelava le “malefatte” del successore di Mattei, ne svelava l’immenso impero economico privato accumulato con fondi pubblici, con indicati con precisione i nomi delle aziende e i relativi prestanomi, e accennava infine anche alla sua responsabilità nell’omicidio di Mattei. Pasolini riversa tutti questi materiali nel romanzo. Non solo, ma scrive anche (o progetta di scrivere) un capitolo intitolato “Lampi sull’Eni” di cui nell’edizione postuma di Petrolio resta solo il titolo e una pagina bianca, in cui si sarebeb dovto parlare dell’ambiguo passato partigiano di Cefis.
Tutte queste relazioni tra l’opera di Pasolini e il suo omicidio, che il film ha il merito di riportare in primo piano, sono state occultate per tanto tempo: non solo tenute fuori dalle indagini di polizia e magistratura, ma persino da quelle dei critici e dei filologi che si sono occupati delle edizioni e dell’interpretazione di Petrolio.
Sì, occultate, è il verbo giusto. Innanzitutto Petrolio è stato tenuto nascosto per ben diciassette anni dopo la morte di Pasolini, tanti ce ne sono voluti perché gli eredi si decidessero a darlo alle stampe nel 1992, quando ormai le indagini e i processi si erano chiusi da tempo.
Ma c’è di più. Nell’edizione postuma, uscita nel 1992 a cura dell’erede Graziella Chiarcossi e di Maria Careri, con la supervisione del filologo Aurelio Roncaglia, i discorsi di Cefis non sono stati inseriti. E così anche nelle edizioni successive. Eppure Pasolini aveva indicato chiaramente negli appunti di Petrolio che quei discorsi, che stavano lì, tra le sue carte, accessibilissimi ai curatori, erano parte integrante del romanzo. Aveva persino indicato il punto esatto in cui intendeva inserirli, cioè tra la prima e la seconda parte, a dividere in due il libro «in modo perfettamente simmetrico ed esplicito».
Se a questo si aggiunge l’assenza del capitolo “Lampi sull’Eni”, di cui resta solo il titolo e una pagina bianca (non sappiamo però con certezza se sia stato sottratto o se Pasolini non abbia fatto in tempo a scriverlo, avendolo però progettato), la lacuna nell’edizione di Petrolio diventa ancor più significativa. Quando il romanzo fu finalmente pubblicato, diciassette anni dopo la morte di Pasolini, tra le tante recensioni negative che il libro ebbe, spesso puntate sul solo aspetto “erotico”, ve ne fu anche una che parlò “di un immenso repertorio di sconcezze d’autore, di un’ enciclopedia di episodi ero-porno-sadomaso, di una galleria di situazioni omo ed eterosessuali, come soltanto dall’autore di Salò ci si può aspettare” (Nello Ajello). E’ chiaro che se Petrolio fosse uscito con i discorsi di Eugenio Cefis al centro del romanzo, in modo “perfettamente simmetrico e esplicito”, come voleva Pasolini, una simile chiave di lettura, fuorviante e occultante, sarebbe stata molto più ardua da sostenere.
La macchinazione riporta in primo piano proprio questi contenuti del romanzo, per tanto tempo occultati da inquirenti, eredi, filologi e critici. Riporta in primo piano le accuse che Pasolini muoveva a Cefis riguardo alle sue responsabilità nell’omicidio di Mattei, nelle stragi e nella creazione di un potere politico criminale mafioso all’ombra delle multinazionali – cose che Pasolini intendeva far esplodere nell’opinione pubblica, con la forza della sua notorietà e della sua autorevolezza. Grieco usa a questo scopo un felice espediente di finzione. Fa incontrare Pasolini con Giorgio Steimez, li fa dialogare in tre incontri successivi, che in realtà non sono mai avvenuti (per lo meno non ci sono prove). È questa la “fantasia” che il regista si è concesso, una felice finzione che permette al film di portare in scena in modo efficace e senza pesantezze ciò che Pasolini apprende da quel libro su Cefis, nonché il quadro dell’Italia del tempo. I due attori, Roberto Citran (Steimez) e Massimo Ranieri (Pasolini) danno qui il meglio della loro interpretazione.
Quarto dato. La versione ufficiale, così piena di contraddizioni, era una messinscena pensata a tavolino in tutti i suoi dettagli, come in un copione. E proprio un copione diventa nel film. Pelosi viene scritturato da un improbabile regista per recitare in un finto film in cui gli è riservata la parte di un ragazzo che uccide un omosessuale che cerca di violentarlo. Si vede Pelosi intento a studiare la parte… che sarà quella che dovrà poi recitare davanti alla polizia al momento dell’arresto. Anche questa è fantasia. Ma è una finzione efficace che riesce a rendere concreta e cinematograficamente fruibile una verità: il fatto cioè che la versione ufficiale dell’omicidio di Pasolini sia stata costruita come un copione. Non era che una sceneggiata, quella a cui si è creduto per tanti anni! Nel film Pelosi fa leggere il copione a Pasolini che intuisce ciò che gli stanno preparando.
Quinto dato. Esecutori e mandanti. Questo è stato mi pare il punto più criticato del film, il fatto cioè che il regista metta in campo troppi personaggi, i cui rapporti sono di difficile comprensione per lo spettatore. In effetti sono molti i personaggi. Ma tanti sono quelli che effettivamente hanno preso parte, a diversi livelli, all’agguato e all’omicidio, come risulta da diverse inchieste e testimonianze. Ormai è certo che sul luogo del delitto ci fossero almeno altre cinque persone oltre a Pelosi e Pasolini, e che tra queste ci fossero sicuramente i fratelli Borsellino (i due che nel film si spostano con la moto), Antonio Pinna (è l’uomo che viene indotto a passare con l’auto, simile a quella di Pasolini, sopra la vittima ancora agonizzante), e Sergio Placidi (lo spacciatore di cocaina). Lo schema seguito per l’agguato, il pestaggio e l’omicidio risulta comunque abbastanza chiaro nel film. Nel delitto hanno in effetti operato tre livelli: quello dei ragazzi di borgata, tra cui lo stesso Pelosi, piccoli criminali, ladri, ma ignari fino all’ultimo di ciò che stanno preparando ai danni di Pasolini. Poi il livello dei criminali veri, che si stanno organizzando in quella che sarà poi conosciuta come la Banda della Magliana. E infine il livello più alto, quello dei mandanti, che si può solo inferire, perché le prove ancora mancano, e a cui il film giustamente non dà un volto preciso (basta l’allusione a un imprecisato onorevole a colloquio con uno dei criminali a far intuire lo schema a tre livelli).
Sesto dato. Perché Pelosi si fa complice della sceneggiata, e addirittura si autoaccusa? L’avvocato di Pelosi è Rocco Mangia, legato alla P2, messo lì per difendere il ragazzo, in realtà per fargli dire quello che deve dire, senza contraddirsi, senza dire di più di quello che gli è stato ordinato, e anche per minacciarlo quando occorre. Nel film vediamo l’avvocato dire a Pelosi di aver preso “sotto custodia” la sua famiglia. Del resto versa al padre delle somme di denaro. Paga il suo silenzio e il suo “disonore” di vedere il proprio figlio su tutti i giornali, non solo omicida ma anche marchettaro che va con un frocio (questo è ciò che più lo disturba).
E a proposito di disonore, come mai coloro che hanno parlato e ricamato per anni sulla “bella morte di Pasolini”, sulla sua “morte sacrificale”, sulla “bella morte omosessuale” non si sono mai resi conto che si trattava anche di una morte infamante? Quella sceneggiata riservava a Pasolini oltre che una morte atroce fatta di calci, percosse, corpi contundenti, e di una lenta agonia durata parecchi minuti (la scena finale della Macchinazione ce la racconta come non è mai stata raccontata in nessun altro film, nemmeno in quello di Abel Ferrara, che si ferma proprio a quel punto, nel momento in cui Pasolini è fatto scendere dall’auto e va incontro agli assassini), ma anche una morte disonorevole: Pasolini doveva morire mentre tentava di violentare un minorenne, ucciso da quest’ultimo per legittima difesa. La delegittimazione di Pasolini come personaggio pubblico, già tentata in vari modi quando era in vita (processi a non finire, persino uno per tentata rapina a un distributore) prosegue anche nell’omicidio, nel tipo di allestimento che hanno scelto per farlo morire “da frocio”.







pubblicato da c.benedetti nella rubrica cinema il 29 marzo 2016  http://www.ilprimoamore.com
  



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