05 marzo 2016

CI VORREBBERO TANTI DON MILANI OGGI


L’uomo del futuro

Eraldo Affinati sostiene che spesso per distinguere il buono dal cattivo maestro, basta vedere negli occhi dei suoi scolari: se brillano, oppure restano spenti. Due anni fa gli occhi dello scrittore brillavano, quando nel corso di un’intervista accennò alla personale ricerca di don Lorenzo Milani, suo riferimento culturale fondamentale. La visione e le gambe per camminare, assumendo il senso del limite: «don Milani continua a essere inafferrabile: è una domanda inevasa, la spina nel nostro fianco, un pensiero in movimento. Non ci lascia un’opera, una filosofia, un sistema, un progetto, ma energia allo stato puro. L’inquietudine che c’è prima dell’azione. Come se non fosse possibile tenerlo fermo per esaminarlo, sfugge a qualsiasi definizione», scrive Affinati.
Da qualche giorno nelle librerie è arrivato L’uomo del futuro (Mondadori, 177 pagine, 18 euro): dieci capitoli in seconda persona nei luoghi e nel fuoco della controversia accesa dal priore, e altrettanti capitoli per i diari di viaggio dal Gambia a Volgograd in soggettiva sulle tracce dello spirito di Barbiana. Con la scelta della seconda persona l’autore sembra mettersi di fronte a sé stesso, però a corta distanza, nel tentativo di fondere azione e riflessione. È un testimone della propria esperienza: «Un amico mi ha detto che in questo modo è come se avessi fatto un esame di coscienza. Per me scrivere e leggere significa anche questo. Ecco perché nei miei testi c’è spesso una bibliografia: serve a lasciare le tracce del cammino che ho compiuto», spiega. Barbiana oggi si propone in chiave multiculturale con la questione posta da Milani con radicalità: l’uguaglianza delle posizioni di partenza, che non assomiglia neanche un po’ all’egualitarismo e al solidarismo retorico.
Affinati ci illustra ancora una volta la propria idea di letteratura che vive sull’esperienza e in cui la scrittura rappresenta l’elaborazione, il momento ultimo. Come credi possibile che una terza persona, per di più esterna, quale sei tu, possa riuscire a percepire, se non a raccogliere un lascito incredibile?, si domanda. E risponde: «D’istinto quasi schiacci il pulsante interiore dei tuoi vent’anni: la letteratura serve a questo, altrimenti non avrebbe senso né leggere, né scrivere».
Stavolta la traccia è un’esistenza che non è scomparsa. Ridefinisce la sconcertante attualità del carisma pedagogico di don Milani: «Non vuoi ammettere che ogni cosa finisce in polvere? No, altrimenti non potresti trovare la forza di scrivere». Ritroviamo la sintassi di Romoletto, lo spirito primigenio de La città dei ragazzi e quell’urgenza di paternità mai sopita. La solitudine della propria adolescenza, che ancora interroga, quella dello scrittore, impastate nella coralità vivificata dalla scuola di Barbiana. Il lavoro che più lo appassiona, ce lo ripete: «Cercare i rapporti, ricucire gli strappi; mettere in relazione libri e destini».
Questo testo, che non percorre la scorciatoia del romanzo, commuove dopo la lettura non solo Aldo Bozzolini, il più piccolo fra gli allievi del priore, ma chiunque sia nato o abbia deciso di rinunciare al privilegio per condividere il cammino sul lato polveroso della strada, della vita. Il maestro, scrittore, politico, educatore; prete ribelle e rispettosissimo rinunciò innanzitutto ai privilegi della propria estrazione sociale alto borghese, senza sostituire l’aristocrazia materiale con quella morale. Lacerare i tessuti, rovesciare i banchi del tempio: è la necessità per immaginare di poter guardare chi non è come te, per guardare dentro a Il quartiere di Vasco Pratolini.
«Certe fotografie del piccolo Lorenzo fanno impressione: le camicette immacolate, le scarpette bianche, i capelli ben pettinati. Egli, sin dalla più tenera età, sentì tutto questo come una zavorra insopportabile, altrimenti non avrebbe chiesto al fattore di Montespertoli, dove la sua famiglia aveva una lussuosa residenza, di far entrare in quel giardino dorato i bambini poveri», racconta Affinati. Non fu dunque una conversione sulla via di Damasco, ma già percepibile nelle stagioni dell’infanzia e dell’adolescenza.
Visitando la Tenuta La Gigliola, casa di campagna della famiglia Milani, distante dieci chilometri da Firenze, si sofferma sul campo da tennis posto accanto alla villa padronale, dove Lorenzo pare che spingesse a giocare a pallone i suoi amici. Qui evoca un confronto con Giorgio Bassani e il Giardino dei Finzi Contini: «Sì, mi ha procurato una serie di risonanze emotive e culturali sulle quali ho lavorato. Insomma la rivoluzione bisogna farla prima dentro noi stessi: ecco cosa ci dice il priore».
Quando uno liberamente regala la sua libertà è più libero di uno che è costretto a tenersela, scrisse Milani alla madre. Per essere veramente liberi s’incarna un limite, quale nucleo di ogni vera tensione pedagogica. Andare oltre l’efficacia; a scuola si cerca l’efficacia prima della giustizia.
Quando anche la vostra rivoluzione avrà trionfato, scrive nella lettera a Pipetta, il comunista di San Donato di Calenzano, il mio posto sarà sempre al fianco degli assetati e degli affamati della giustizia. Il senso della sconfitta storicizzata del mito novecentesco dell’uguaglianza non è ragione sufficiente per smettere di essere una spina nel fianco del privilegio che fa scandalo.
Ci emancipa dallo stereotipo di don Camillo e Peppone. Nella prefazione di Esperienze pastorali l’Arcivescovo di Camerino, Giuseppe D’Avack, evidenzia come: «La doverosa e urgente difesa dai pericoli del comunismo ateo ha trascinato molti nella politica in senso tecnico, o addirittura in senso deteriore. Talvolta ci si è convinti che oggi la cosa a cui occorre dare ogni energia, a cui occorre tutto coordinare e subordinare e perfino sacrificare, è la questione elettorale, e la politica; e per far questo efficacemente è necessario – si dice – prendere le difese del governo e della DC e del suo operato, e dei suoi uomini. E Lei ci dice che tutto questo occorre abbandonarlo!» Affinati riporta una frase di don Milani: «Abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, coi congressi eucaristici di Franco».
 La pretesa di giustizia milaniana si realizza nel qui e ora, nell’insegnamento della lingua, nel farsi carico dello sguardo dell’altro e nel far entrare nella Storia gli esclusi, rompendo il conformismo didattico. Il priore considerava povertà la mancanza di parole indispensabili per sciogliere i nodi dell’esistenza: «Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi, mentre loro mi hanno insegnato a vivere». Fare scuola ai diseredati vuol dire raddrizzare le strade storte. A Barbiana la scuola riguadagnava il senso del tempo. Dodici ore al giorno, 365 giorni all’anno. Nella nota Lettera ai Giudici leggiamo:
«La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c’era solo una scuola elementare. Cinque classi in un’aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati. Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa. Così da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola. Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell’orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico. La questione appartiene a questo processo solo perché vi sarebbe difficile capire il mio modo di argomentare se non sapete che i ragazzi vivono praticamente con me. Riceviamo le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale, la posta. Scriviamo insieme». Tutto si legava dentro la vita del maestro e dei suoi allievi, piccoli montanari da non tradire. Era un modo nuovo di vivere. Stare giù in basso, alla maniera di Simone Weil quando lavorava nelle officine Renault di Boulogne Billancourt, scrive Affinati.
 Un’alleanza senza confondere i ruoli. «Quella non è una scuola, è una pubblica piazza. Ognuno tira per la sua strada disinteressandosi del prossimo. Vi siete forse illusi di poter fare una scuola democratica? È un errore. La scuola deve essere monarchica assolutista ed è democratica solo nel fine, in quanto il monarca che la guida costruisce nei ragazzi i mezzi della democrazia». Così Milani si rivolse al professore Marcello Inghilesi, che aveva organizzato una proiezione di Roma città aperta, invitando gli allievi di Barbiana. Non gli era piaciuto il rumore di sottofondo degli studenti delle medie.
 Lo scrittore insegnante non imbalsama colui che chiama profeta. La perfezione inaridisce, l’elogio dell’errore come quello del ripetente alimenta i don Milani inconsapevoli sparsi per il mondo. I beni non spesi perdono valore. Affinati scrive quel che sa, quello che sperimenta alla Scuola Penny Wirton con i ragazzini egiziani sperduti, che nella lingua rincorrono un orientamento. Gettarsi nella mischia, ferirsi, prima dei registri, prima dei voti. «La scuola ha un problema. I ragazzi che perde», argomentava Milani. Respiriamo a polmoni aperti, sottraendoci alla logica binaria scuola od officina.
La rivoluzione è aspettare i ritardatari: un’utopia? Andare a cercarsi i ragazzi uno per uno, far scattare una scintilla, essere autentici, fare sul serio: non salverà il mondo, ma dona vite. «C’è un punto in cui l’educatore accetta la propria impotenza, esce dal tribunale della storia e torna alla lavagna chinando il capo. Fu in seminario che Lorenzo cominciò a capire come si dovrebbe sentire chi insegna agli adolescenti difficili: un po’ sconfitto, un po’ vittorioso. Non significa forse questo essere padri?»
Illuminano in questo senso gli appunti del viaggio nei bassifondi dell’ex Berlino est. All’Arca di Marzahn l’incontro tra lo scrittore, in visita presso la struttura fondata da un pastore metodista per adolescenti feriti, e Manfred, dipendente dalla droga, figlio di una prostituta, senza padre, si conclude con un emozionante: «Adios papa».
Nell’ottobre del 1941 Lorenzo aveva fatto domanda d’iscrizione all’Accademia di Brera. Si sottrasse alla condizione dell’artista isolato per un’opera collettiva. Affinati percorrendo le pagine di Lettera a una professoressa aggredisce i nodi tuttora irrisolti. Il babbo di Gianni a 12 anni andò a lavorare da un fabbro e non finì neanche la quarta. A 19 anni andò partigiano. Non capì bene quello che faceva. Ma certo lo capì meglio di voi. Sperava in un mondo più giusto che gli facesse eguale almeno Gianni. Gli ostacoli che l’articolo tre dovrebbe rimuovere lui ce li ha addosso.
Poi c’è Pierino, l’alter ego del priore. Il dottore e sua moglie sono gente in gamba. Leggono, viaggiano, ricevono gli amici, giocano col bambino, hanno il tempo di stargli dietro. La casa è piena di libri e di cultura. A cinque anni Gianni maneggia la pala con maestria. Pierino il lapis. «Pierino non veniva mai respinto. Passava sempre, anche senza studiare. Sarebbe dovuto diventare un professore. Questo era, ed è ancora oggi, il destino di tutti i Milani, in senso lato: cattedratici, scienziati, eruditi, mantenuti dai loro stessi inservienti. Gente che non si sporca le mani. Quelli che prima lavorano gratis, raffinato sistema per escludere chi non se lo può permettere, poi salgono in cattedra, come se fosse un podio, quindi si sposano e tirano su altri figli uguali a loro. Più Pierini che mai.» Chi spezza il circolo dell’esclusione?
Dall’ateismo al seminario, dall’agiatezza alla povertà. Consacrato sacerdote nell’ottobre 1947 a San Donato di Calenzano, capire don Milani significa anche contestualizzare l’unicità nel clima del cattolicesimo fiorentino pre e post conciliare di padre Ernesto Balducci, don Giulio Facibeni e Giorgio La Pira. Conciliarista ante litteram, Milani, come asserisce Affinati, getta scompiglio nel rapporto con le istituzioni ecclesiastiche senza tradire un solo principio sul quale si fondava la comunità. Nella Lettera ai Giudici, sulla quale torneremo più avanti, conosciuta anche come L’obbedienza non è più una virtù, Milani risalta proprio una delle conquiste conciliari, rispetto alla non violenza che non era ancora la dottrina ufficiale di tutta la Chiesa: «Il Concilio invita i legislatori ad avere rispetto per coloro i quali o per testimoniare della mitezza cristiana, o per riverenza alla vita, o per orrore di esercitare qualsiasi violenza, ricusano per motivo di coscienza o il servizio militare o alcuni singoli atti di immane crudeltà cui conduce la guerra».
Monsignor Mario Tirapani, insegnante di Sacre scritture al seminario, nelle vesti di vicario generale dell’arcidiocesi, lo fece trasferire nella chiesetta sperduta di Sant’Andrea a Barbiana. La periferia avrebbe dovuto condannare all’oblio anche quel “pretino di famiglia mezza ebrea” dallo spirito indipendente, dal gran temperamento che non si lasciava certo irretire dall’indecisione. Inconsapevolmente il monsignore gli aveva aperto una distanza strepitosa da coprire, al contempo minima e sterminata, fra la cupola del Brunelleschi, fra una capitale della cultura e il terzo mondo della collina di Barbiana senza strade, luce, acqua e telefono. Il sottoproletariato agricolo destinato a estinguersi nell’agglomerato indistinto della città rivelò invece tutte le potenzialità inespresse.
È interessante, in questo senso, la recensione di Luciano Bianciardi su Esperienze pastorali citata nel testo: «Un moralismo che noi non accettiamo nei suoi fondamenti dottrinari, ma che tuttavia auspichiamo di veder emergere fra chi accetta la dottrina cristiana, e con il quale siamo certi di poter discutere con reciproco frutto». All’epoca la Congregazione all’Arcivescovo di Firenze suggerì di ritirare dal commercio per ragioni di prudenza, di non ristampare o tradurre il libro di don Milani, scritto nel 1954 e pubblicato nel 1957. Le parole di Ernesto Balducci ne sintetizzano la portata: «Venuto dal di fuori aveva colto subito il punto di inerzia che intercettava e falsificava i contatti tra chiesa e mondo e ne fece un’analisi spregiudicata nel suo primo libro, Esperienze pastorali». Balducci lo definisce radicalismo illuministico: «La qualità di quelle pagine mette allo scoperto gli assunti di un apparato in cui le intenzioni ideali e le pratiche reali riuscivano a convivere in tranquillissima contraddizione». Discorso e testimonianza coincidono in Milani, che si considerava «parte viva della Chiesa, anzi suo ministro», malgrado l’incomprensione di quest’ultima.
Incarnare un limite, oggi più che mai questo aspetto dello spirito milaniano potrebbe esserci utile di fronte alla deflagrazione del desiderio cui assistiamo, dice Affinati. «Esperienze pastorali è un’inchiesta straordinaria su un paese, l’Italia, tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e il “miracolo economico”. Non ha niente da invidiare a nessuna inchiesta sociologica contemporanea e successiva. Ha il vantaggio di una necessità che viene dagli scopi che l’autore si proponeva: di conoscenza e riflessioni attive finalizzate a un intervento religioso e sociale. È probabilmente l’opera più ricca del suo autore piena di indicazioni la cui attualità è andata crescendo. È esplosa nella nostra società che ha fatto dello spettacolo, del divertimento, del tempo libero il proprio fulcro ideologico e, attraverso i media, il principale strumento in mano alle classi dirigenti per la propria perpetuazione e per il controllo delle coscienze», scrive Goffredo Fofi (La Ricreazione, e/o). Giuseppe D’Avack elogiò l’utilizzo della statistica da parte di don Milani, che caratterizzerà anche Lettera a una professoressa.
Solo nel 2014 è stato tolto dalla Chiesa il veto alla ristampa di Esperienze pastorali: «Torna a diventare un patrimonio del cattolicesimo italiano e in particolare della Chiesa fiorentina, un contributo alla riflessione ecclesiale da riprendere in mano e su cui confrontarsi. La valorizzazione della persona e dell’opera di don Milani è iniziata nella Chiesa da tempo, e un particolare ruolo lo ha svolto quella stessa Civiltà cattolica da cui era uscita la voce più critica subito dopo la pubblicazione di Esperienze pastorali. Sull’Osservatore Romano è apparso un articolo di grande evidenza nel quale si esaltava la figura di don Lorenzo Milani quasi a contraltare dell’articolo che invece nel 1958 metteva in guardia dalla lettura di Esperienze pastorali», ha dichiarato nell’aprile 2014 il cardinale Betori a Toscana Oggi.
A quasi cinquant’anni dalla morte di don Milani, Affinati ci ricorda il fuoco espressivo delle sue lettere. Un patrimonio straordinario del quale si nutre L’uomo del futuro: «Come si fa a negare valore letterario, per fare un solo esempio, alla Lettera ai Giudici? Solo un pregiudizio di marca crociana potrebbe impedirci di collocare Milani fra i più notevoli scrittori del suo tempo, di stampo epistolare, nel solco più puro della letteratura italiana. Con una differenza essenziale: che lui, non ricopiando in bella, gettava un’ombra lunga sull’autonomia dell’opera, conferendole valore intoccabile. Anche in questo senso è stato un profeta. Uno fra i più misteriosi scrittori italiani fra quelli che si sono nascosti dietro il proprio talento per cause di forza maggiore, ha negato sé stesso con pervicacia degna dell’ultimo Tolstòj».
Sull’altura del Mamajev Kurgan, dove si riuniscono i soldati russi in licenza dalla Cecenia, Affinati ha incontrato Ivan, che ha smarrito le ragioni, l’euforia della scelta di arruolarsi. Lo scempio di Groznyj, che Anna Politkovskaya ci raccontava, l’ha reso antimilitarista. L’obiettore Ivan affronterà la cella. Si appellerà all’articolo 59.3 della Costituzione. Un taccuino di viaggio che ci rivela ancora l’attualità di don Milani. Il 12 febbraio del 1965 una minoranza, autoproclamatasi maggioranza, dei Cappellani militari in congedo della Toscana redasse un comunicato, diffuso poi da La Nazione, nel quale sostanzialmente si associò l’obiezione di coscienza a un insulto alla patria. Né le autorità religiose, né quelle civili avevano reagito al testo. Circa venti giorni più tardi Milani pubblicò una lettera di risposta, stampata in mille copie, e successivamente, nel mese di marzo, ripresa da Rinascita.
Reclamò, tra l’altro, contro l’uso distorto del concetto di patria: «Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia patria, gli altri i miei stranieri».
A Barbiana giunsero insulti e minacce di stampo fascista. Un gruppo di ex combattenti denunciò Milani e la rivista per apologia di reato. Impossibilitato a recarsi in tribunale, a causa della malattia che poi lo spense, preparò una Lettera ai giudici, che sta lì dove stanno le stelle da rimirare. In che modo un cittadino può reagire all’ingiustizia?
«È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione). La tragedia del vostro mestiere di giudici è che sapete di dover giudicare con leggi che ancora non son tutte giuste. In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate».
Lui a scuola aveva esclusivamente figlioli di contadini e di operai. Lo Stato la luce elettrica a Barbiana l’aveva appena portata, ma le cartoline di precetto arrivavano a domicilio fin dal 1861. Ai giudici scrive che si è impegnato, si è sforzato nel cercare sui libri di storia la categoria di guerra giusta, tuttavia non l’ha trovata in regola con l’articolo 11 della Costituzione italiana:
«Ci è stato però di conforto tenere sempre dinanzi agli occhi quei trentuno ragazzi italiani che sono attualmente in carcere per un ideale. Vi ho dunque dichiarato fin qui che se anche la lettera incriminata costituisse reato, era mio dovere morale di maestro scriverla egualmente. Ma è poi reato? L’assemblea costituente ci ha invitati a dar posto nella scuola alla Carta costituzionale “al fine di rendere consapevole la nuova generazione delle raggiunte conquiste morali e sociali”. Una di queste conquiste è l’articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”.
Noi gente della strada diciamo che la parola ripudia è molto più ricca di significato, abbraccia il passato e il futuro. È un invito a buttar tutto all’aria: all’aria buona. La storia come la insegnavano a noi e il concetto di obbedienza militare assoluta come la insegnano ancora. A Norimberga e a Gerusalemme sono stati condannati uomini che avevano obbedito. Condannare la nostra lettera equivale a dire ai giovani soldati italiani che non devono avere una coscienza, che devono obbedire come automi».

Ripreso da   http://www.minimaetmoralia.it/ 

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