In
tempi di americanizzazione selvaggia (vedi l'uso continuo di un
inglese maccheronico da parte di politici e giornalisti) lo scritto
di Pavese del 1950 su cultura democratica e cultura americana si
rivela ancora attuale
Pasquale Briscolini
Anche l’ultimo anno di
Pavese - il 1950 - inizia con grande impegno. Avevamo già commentato
il fervore creativo dell’anno precedente, che si era concluso con
“La luna e i falò” scritto addirittura in due mesi a un capitolo
al giorno.
Il nuovo anno non ha la
stessa creatività artistica, poesie o romanzi per intenderci, ma
l’impegno è ancora molto intenso e positivo nel lavoro editoriale
ad esempio; basti pensare alla fitta corrispondenza con i
collaboratori esterni. In particolare con Ernesto De Martino, al
quale comunica il fitto programma di Einaudi che prevede la
pubblicazione di un testo al mese della “Collana Viola” per tutto
il 1950.
E poi c’è, in
particolare, una riflessione “sulla cultura”:
“La cultura deve
cominciare dal contemporaneo e documentario, dal “reale”, per
salire – se è il caso – ai classici. Errore umanistico:
cominciare dai classici. Ciò abitua all’irreale, alla retorica, e
in definitiva al disprezzo cinico della cultura classica – tanto
non ci è costata niente e non ne abbiamo visto il valore (la
contemporaneità al loro tempo).”
E’ il 18 febbraio del
’50 quando annota sul Diario questa considerazione. Sta riflettendo
sul significato di “Cultura”, di “Cultura classica” e di
“Cultura popolare”. Infatti il 26 febbraio scrive ancora, sempre
sul Diario:
“Giro Toscana-Emilia.
Pensato al saggio sulla poesia e cultura popolare. Pensato
soprattutto al rapporto fra paese e cultura, alle radici contadine
(botaniche e minerali) dell’arte. A Firenze (Rovezzano) e in
Val Pesa, Elsa ecc. – Siena – “sentito” come da quella terra
è nata un’arte. Campagna che divenne “grazia” fiorentina e
senese. Ma quando una civiltà non è più contadina quali saranno i
rapporti radicali della sua cultura? Siamo ormai fuori dall’influsso
botanico, minerale, stagionale del paese sull’arte? Parrebbe.”
Due giorni dopo, il 28
febbraio, queste riflessioni si concretizzano in un saggio, “Cultura
democratica e cultura americana”, che uscirà nel numero di
“Rinascita” dello stesso mese:
“Tutti siamo d’accordo
che la rivista “Selezione” offre un bell’esempio di come non
vada fatta la diffusione della cultura. Il pretenzioso volumetto,
colorato e luccicante come una confezione di sigarette o di calze,
diffonde un evidente sentore di stanza da bagno in materia plastica,
neon e metallo cromato, che lo fa subito riconoscere per quello che
è: uno specchietto della propaganda “americanistica”. La sua
materia oscilla infatti tra l’esaltazione pedante di sempre nuove
faccette del “sogno americano” e la denuncia di sempre nuove
iniquità del mondo socialista. Ma sbaglierebbe il lettore italiano
che si fermasse a condannare in “Selezione” il chiaro programma
propagandistico antisocialista. Ciascuno fa la propaganda che può,
ma non è detto che il pepe antisocialista sia tra gli ingredienti
del piatto il più gustato dai molti palati italiani che se ne
cibano. Allo stato attuale dei fatti, noi arriviamo anzi a temere che
se, per assurda ipotesi, si desse in Italia una “Selezione” di
propaganda pseudo socialista, compilata con gli stessi criteri, essa
avrebbe lo stesso successo.”
Se questo è vero, si
tratta di capire perché una tesi e quella opposta avrebbero lo
stesso successo. Vorrebbe dire che c’è qualche altro elemento in
grado di arrivare alla gente “prima” del “ragionamento” che
conduce alla tesi. Pavese pensa, a questo proposito, che quello
che fa il danno più grave è una falsa idea di cultura:
“A farla breve, secondo
noi, la colpa di “Selezione” non è tanto di difendere un
capitalismo volgare quanto di arrivarci avvilendo, nel modo più
volgare, il concetto di cultura. O meglio, speculando su una diffusa
abitudine di falsa cultura che ha ormai investito tutta la nostra
società. Giacché la cultura non è quella cosa facile, di tutto
riposo, condensabile tra una barzelletta e una réclame, che sembrano
ritenere i redattori di essa rivista.”
Certo, una riflessione
sorge spontanea sessantacinque anni dopo queste parole. E’ vero che
di barzellette forse non si parla più tanto in questo periodo, ma la
banalizzazione si è diffusa in tutta la nostra società. E non
parliamo di “reclame”: al tempo di Pavese non c’era neanche
Carosello, mentre adesso qualsiasi informazione, in qualsiasi momento
e su qualsiasi mezzo, è veicolata su un substrato di pesantissima
“propaganda”. Dopo un telegiornale importante, di prima serata,
ci sono circa quindici minuti di pubblicità. Poi, finalmente, inizia
un programma “serio”: la presentatrice compare elegantissima,
presenta gli ospiti e il titolo dell’argomento in discussione poi,
senza alcun pudore, aggiunge: “dopo la pubblicità”. Qualsiasi
ascoltatore di buon senso viene colto da un sentimento contrastante,
tra l’allibito e il rassegnato: ma come? Non c’è stata fino
adesso, la pubblicità?
E’ anzi il venditore di
un qualsiasi prodotto che ci paga l’informazione. Più alto e
interessante è il punto di un ragionamento impegnativo o l’emozione
di un evento, ad esempio sportivo, o il momento angosciante di un
film, più conviene interromperlo, in barba ad ogni etica o al
rispetto che sarebbe dovuto all’ascoltatore-persona.
Per non parlare della
banalizzazione che si induce con la presunta “partecipazione” sui
social network. Intendiamoci: non possiamo e non dobbiamo dire che
tutto è male, perché l’innovazione tecnologica ha reso alla
portata di tutti cose impensabili solo qualche decennio fa, ma la
banalizzazione di sicuro non fa bene. “Saremo anche in più a
pensare!”, diceva con l’ottimismo della ragione un vecchio amico,
ma il “pensare” è anche il prodotto di un certo tipo di
cultura della società, ed è difficile ottenerlo se si procede “in
direzione contraria” rispetto al buon senso.
Insomma, per Pavese, “una
diffusa abitudine di falsa cultura che ha ormai investito tutta la
nostra società”. E continua:
“Se così fosse, allora
noi dichiariamo di preferire i calendari tipo Chiaravalle o perché
no? addirittura la vecchia “Domenica del Corriere”, pubblicazioni
meno pretenziose e nella loro banalità non certo prive di un certo
provinciale rispetto per la vita vera. Ma farsi una cultura è cosa
almeno altrettanto seria e impegnativa che imparare un mestiere, una
qualsiasi tecnica; una tecnica non s’impara sfogliando manuali e
meno ancora racimolando notizie “condensate” sull’argomento –
s’impara creandola, inventandola un’altra volta, producendo cioè
lavoro in quel campo determinato. C’è quindi un solo mezzo per
popolarizzare la cultura: mettere in grado il popolo, tutto il
popolo, di produrre questa cultura, di farsela per suo conto.”
E’ una bella
prospettiva (almeno per chi la pensa in un certo modo) ma anche
quanto lontana dalla nostra situazione attuale, ammesso che in un
qualche momento sia stata un po’ più vicina. Qui si parla di
“rispetto per la vita vera”; della serietà dell’impegno
nell’imparare un mestiere, di imparare una tecnica addirittura
re-inventandola producendo lavoro. Quale nobiltà e dignità nella
parola “lavoro” intesa in questo modo! Ancora:
“E’ chiaro che ciò
suppone un grosso rivolgimento e il discorso muta piano. Nei limiti
del tempo presente e di queste considerazioni, accontentiamoci di
ribadire il concetto che la serietà della cultura di un uomo si
misura dalla mole e dalla finitezza del lavoro ch’egli sa produrre
nel suo particolare campo tecnico. Ciò è come dire che le più
svariate e peregrine cognizioni (tanto peggio se “condensate”)
non fanno cultura se non in quanto diventano carne e sangue di un
mestiere, di una tecnica di lavoro in cui ciascun uomo fa consistere
la sua giornata e la sua dignità. Una cultura che non costi fatica,
che non sia, vale a dire, lavoro vivo, non significa nulla.”
Ecco distrutta “la
cultura del bla-bla”, perché la serietà della cultura di un uomo
“si misura dalla mole e dalla finitezza del lavoro ch’egli sa
produrre nel suo particolare campo tecnico”. Le “cognizioni”
“non fanno cultura se non …”. E, per ciascun uomo, la sua
giornata di impegno e la sua dignità.
E’ proprio difficile se
non impossibile riassumere i concetti espressi, perché le singole
parole di Pavese sono incastonate in modo insuperabile per esprimere
il concetto stesso. Risulta così chiaro che la “cultura” del mio
vecchio zio - che aveva una grande passione nella cura delle viti e
negli innesti delle piante da frutto tanto da essere considerato lo
specialista in tutta la campagna – era certamente di alto livello,
“per la finitezza del lavoro ch’egli sapeva produrre nel
suo particolare campo tecnico”.
Naturalmente, lo
specifico “campo tecnico” può anche essere quello della
“cultura” comunemente intesa:
Un tempo esisteva in
Italia una “cultura” umanistica che diede lavoro e dignità alla
classe che l’aveva promossa nel corso della sua costituzione in
classe dirigente. A questa cultura, signori, ecclesiastici, nobili e
infine borghesi credettero come a un comune ideale. Le “humanae
litterae” rappresentarono un campo di lavoro che significò ragione
di vita per questa gente. Esse sono tuttora la base della cosiddetta
scuola classica, ma oserà qualcuno affermare che gli attuali
borghesi – come classe, e cioè imprenditori, agrari,
professionisti, impiegati, nel loro insieme – credano in questo
ideale di uomo colto per adeguarvi l’esistenza, trovarvi una
ragione di lavoro e di progresso? Tranne pochi specialisti, e forse
un certo numero di ecclesiastici, chi riesce più oggi, nei nostri
mutati rapporti di classe, a proporsi nella vita come serio, come
utile, come esauriente, l’ideale dello studio umanistico, dell’
“uomo umanistico”? Eppure esso è il termine ideale della cultura
che s’impartisce nelle nostre scuole. Ma quanto decaduto e, come
tutte le cose inutili, incarognito! Non è difficile dimostrare che
proprio gli elementi umanistici di questa sua ormai superficiale
cultura furono l’addobbo festaiolo che permise alla borghesia
italiana di ritrovarsi e compiacersi nella baracca del fascismo.”
Certo, le “humanae
litterae” hanno rappresentato molto, finché ci si è creduto. Ma
oggi, dice Pavese, “chi crede più in quell’ideale di uomo
colto?”. Specie dopo la sua decadenza verso una “ormai
superficiale cultura”, che ne ha fatto “l’addobbo festaiolo”
della “baracca del fascismo”. E invece purtroppo, dice ancora
Pavese, quello “dell’uomo umanistico” è ancora “il
termine ideale della cultura che s’impartisce nelle nostre scuole”.
Ma allora, si dovrebbe
solo imparare mestieri e tecniche? Pavese non la pensa così:
“E’ quindi chiaro
che, secondo noi, la nuova cultura democratica e popolare non dovrà
nutrirsi di “cognizioni” umanistiche (e nemmeno scientifiche) di
tipo volgarizzativo. Dovrà allora l’attuale fervore culturale
acceso nelle masse italiane limitarsi alla perfetta acquisizione del
singolo mestiere, della singola tecnica, e abbandonare la cosiddetta
alta cultura ai vari specialisti accreditati? Questa è in fondo –
malgrado la volgarizzazione interessata dalle prelodate Selezioni –
la prospettiva americana. Inutile dire che un solo aggettivo conviene
a questa prospettiva: reazionaria. Essa tende a creare addirittura
delle caste.”
Anzi: lui dice che quella
di “limitarsi alla perfetta acquisizione del singolo mestiere,
della singola tecnica …” è proprio la prospettiva
americana, mentre noi avremmo un’altra ambizione, “una diversa
concezione dell’uomo”:
“Noi crediamo invece
che in mezzo al sangue e al fragore dei giorni che viviamo vada
articolandosi una diversa concezione dell’uomo. Tecnicamente
specializzato ma radicato in una società il cui ideale non può non
essere la sempre maggiore consapevolezza di ciascuno – il che
significa la massima efficienza del lavoro di ciascuno, ma
consapevole del lavoro di tutti – l’uomo nuovo sarà rimesso in
grado di vivere la propria cultura e cioè di crederci e di produrla
anche per gli altri, non in astratto ma in uno scambio quotidiano e
fecondo di vita. Inutile dire che questa società sarà quella
socialista, e i suoi sviluppi futuri saranno nel senso di un sempre
più profondo e consapevole socialismo.”
Insomma: a tendere, si
dovrà realizzare la massima efficienza del lavoro di ciascuno nella
consapevolezza del lavoro di tutti. E ancora: vivere la propria
cultura credendoci e vivendola in uno scambio quotidiano di vita,
“nel senso di un sempre più profondo e consapevole socialismo”.
Che dire. Pavese aveva
fatto uno sforzo che è poi risultato per lui insopportabile, insieme
con tutti gli altri suoi pesi personali, ovviamente. Aveva prima
cercato - quasi da solo - spazi di libertà nella cultura
americana quando da noi era buio; aveva poi continuato a ragionare
sull’ “uomo nuovo” di una società da costruire e ne aveva
scritto pagine accorate e lucidissime. Per sentirsi dire “P. non è
un buon compagno” proprio da “quelli che più ti stanno a cuore”.
Quanta acqua è passata
sotto i ponti da quel lontano 1950! Anche le parole non sono più le
stesse: Pavese usa l’aggettivo “democratica” riferita a
“cultura” nel senso che si sforza di precisare: una cultura non
volgare, che produce consapevolezza di ciascuno e di tutti, in cui si
può credere, che “produce” anche per gli altri, in uno scambio
quotidiano – e fecondo – di vita. Ed usa l’aggettivo
“democratica” in alternativa ad “americana”.
Ormai si usa la parola
“democrazia” quasi come sinonimo di “America”, e qualcuno la
vorrebbe come quella che si esporta con le armi. E di “socialismo”
(nel senso di Pavese) chi parla più? Forse qualcuno che è contrario
all’idea e che vuole screditare qualche avversario ricordandogli i
crimini del “socialismo reale”.
Cosa è successo della
“nuova cultura” che Pavese indicava? E’ successo che la sua
costruzione si è rivelata oltremodo difficile, ammesso che qualcuno
la volesse costruire davvero (nonostante le belle Costituzioni
…). Poi, ad un certo punto e quasi simultaneamente, sono arrivati
liberismo economico, finanza, automazione e globalizzazione a
cambiare il volto al lavoro e alla società. E adesso siamo in mezzo
al guado.
Naturalmente, non
dobbiamo arrenderci, e per fare questo abbiamo bisogno di energie
nuove. Dobbiamo “rubare gli occhi” ai ragazzi e ai bambini per
vedere il mondo (anche) con il loro sguardo. Mai come in questo caso
è profetica la frase di Don Milani, da intendere in un senso ancora
più ampio del suo significato originario: “il ragazzo è perciò
da un lato nostro inferiore perché deve obbedirci e noi rispondiamo
di lui, dall’altro nostro superiore perché decreterà domani leggi
migliori delle nostre”.
Insomma, guardare con gli
occhi dei ragazzi per vedere più in là. Anche se così incappiamo
in un’altra bella grana di questo “tempo di mezzo”: il problema
educativo. Ma tant’è.
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