06 marzo 2016

C. PAVESE: Cultura americana e cultura democratica




In tempi di americanizzazione selvaggia (vedi l'uso continuo di un inglese maccheronico da parte di politici e giornalisti) lo scritto di Pavese del 1950 su cultura democratica e cultura americana si rivela ancora attuale


Pasquale Briscolini

Cultura democratica e cultura americana”


Anche l’ultimo anno di Pavese - il 1950 - inizia con grande impegno. Avevamo già commentato il fervore creativo dell’anno precedente, che si era concluso con “La luna e i falò” scritto addirittura in due mesi a un capitolo al giorno.

Il nuovo anno non ha la stessa creatività artistica, poesie o romanzi per intenderci, ma l’impegno è ancora molto intenso e positivo nel lavoro editoriale ad esempio; basti pensare alla fitta corrispondenza con i collaboratori esterni. In particolare con Ernesto De Martino, al quale comunica il fitto programma di Einaudi che prevede la pubblicazione di un testo al mese della “Collana Viola” per tutto il 1950.

E poi c’è, in particolare,  una riflessione “sulla cultura”:

“La cultura deve cominciare dal contemporaneo e documentario, dal “reale”, per salire – se è il caso – ai classici. Errore umanistico: cominciare dai classici. Ciò abitua all’irreale, alla retorica, e in definitiva al disprezzo cinico della cultura classica – tanto non ci è costata niente e non ne abbiamo visto il valore (la contemporaneità al loro tempo).”

E’ il 18 febbraio del ’50 quando annota sul Diario questa considerazione. Sta riflettendo sul significato di “Cultura”, di “Cultura classica” e di “Cultura popolare”. Infatti il 26 febbraio scrive ancora, sempre sul Diario:

“Giro Toscana-Emilia. Pensato al saggio sulla poesia e cultura popolare. Pensato soprattutto al rapporto fra paese e cultura, alle radici contadine (botaniche e minerali) dell’arte. A Firenze (Rovezzano)  e in Val Pesa, Elsa ecc. – Siena – “sentito” come da quella terra è nata un’arte. Campagna che divenne “grazia” fiorentina e senese. Ma quando una civiltà non è più contadina quali saranno i rapporti radicali della sua cultura? Siamo ormai fuori dall’influsso botanico, minerale, stagionale del paese sull’arte? Parrebbe.”

Due giorni dopo, il 28 febbraio, queste riflessioni si concretizzano in un saggio, “Cultura democratica e cultura americana”, che uscirà nel numero di  “Rinascita” dello stesso mese:

“Tutti siamo d’accordo che la rivista “Selezione” offre un bell’esempio di come non vada fatta la diffusione della cultura. Il pretenzioso volumetto, colorato e luccicante come una confezione di sigarette o di calze, diffonde un evidente sentore di stanza da bagno in materia plastica, neon e metallo cromato, che lo fa subito riconoscere per quello che è: uno specchietto della propaganda “americanistica”. La sua materia oscilla infatti tra l’esaltazione pedante di sempre nuove faccette del “sogno americano” e la denuncia di sempre nuove iniquità del mondo socialista. Ma sbaglierebbe il lettore italiano che si fermasse a condannare in “Selezione” il chiaro programma propagandistico antisocialista. Ciascuno fa la propaganda che può, ma non è detto che il pepe antisocialista sia tra gli ingredienti del piatto il più gustato dai molti palati italiani che se ne cibano. Allo stato attuale dei fatti, noi arriviamo anzi a temere che se, per assurda ipotesi, si desse in Italia una “Selezione” di propaganda pseudo socialista, compilata con gli stessi criteri, essa avrebbe lo stesso successo.”

Se questo è vero, si tratta di capire perché una tesi e quella opposta avrebbero lo stesso successo. Vorrebbe dire che c’è qualche altro elemento in grado di arrivare alla gente “prima” del “ragionamento” che conduce alla tesi. Pavese pensa, a questo proposito,  che quello  che fa il danno più grave è una falsa idea di cultura:

“A farla breve, secondo noi, la colpa di “Selezione” non è tanto di difendere un capitalismo volgare quanto di arrivarci avvilendo, nel modo più volgare, il concetto di cultura. O meglio, speculando su una diffusa abitudine di falsa cultura che ha ormai investito tutta la nostra società. Giacché la cultura non è quella cosa facile, di tutto riposo, condensabile tra una barzelletta e una réclame, che sembrano ritenere i redattori di essa rivista.”

Certo, una riflessione sorge spontanea sessantacinque anni dopo queste parole. E’ vero che di barzellette forse non si parla più tanto in questo periodo, ma la banalizzazione si è diffusa in tutta la nostra società. E non parliamo di “reclame”: al tempo di Pavese non c’era neanche Carosello, mentre adesso qualsiasi informazione, in qualsiasi momento e su qualsiasi mezzo, è veicolata su un substrato di pesantissima “propaganda”. Dopo un telegiornale importante, di prima serata, ci sono circa quindici minuti di pubblicità. Poi, finalmente, inizia un programma “serio”: la presentatrice compare elegantissima, presenta gli ospiti e il titolo dell’argomento in discussione poi, senza alcun pudore, aggiunge: “dopo la pubblicità”. Qualsiasi ascoltatore di buon senso viene colto da un sentimento contrastante, tra l’allibito e il rassegnato: ma come? Non c’è stata fino adesso, la pubblicità?

E’ anzi il venditore di un qualsiasi prodotto che ci paga l’informazione. Più alto e interessante è il punto di un ragionamento impegnativo o l’emozione di un evento, ad esempio sportivo, o il momento angosciante di un film, più conviene interromperlo, in barba ad ogni etica o al rispetto che sarebbe dovuto all’ascoltatore-persona.

Per non parlare della banalizzazione che si induce con la presunta “partecipazione” sui social network. Intendiamoci: non possiamo e non dobbiamo dire che tutto è male, perché l’innovazione tecnologica ha reso alla portata di tutti cose impensabili solo qualche decennio fa, ma la banalizzazione di sicuro non fa bene.  “Saremo anche in più a pensare!”, diceva con l’ottimismo della ragione un vecchio amico, ma il “pensare” è anche il  prodotto di un certo tipo di cultura della società, ed è difficile ottenerlo se si procede “in direzione contraria” rispetto al buon senso.

Insomma, per Pavese, “una diffusa abitudine di falsa cultura che ha ormai investito tutta la nostra società”. E continua:

“Se così fosse, allora noi dichiariamo di preferire i calendari tipo Chiaravalle o perché no? addirittura la vecchia “Domenica del Corriere”, pubblicazioni meno pretenziose e nella loro banalità non certo prive di un certo provinciale rispetto per la vita vera. Ma farsi una cultura è cosa almeno altrettanto seria e impegnativa che imparare un mestiere, una qualsiasi tecnica; una tecnica non s’impara sfogliando manuali e meno ancora racimolando notizie “condensate” sull’argomento – s’impara creandola, inventandola un’altra volta, producendo cioè lavoro in quel campo determinato. C’è quindi un solo mezzo per popolarizzare la cultura: mettere in grado il popolo, tutto il popolo, di produrre questa cultura, di farsela per suo conto.”
E’ una bella prospettiva (almeno per chi la pensa in un certo modo) ma anche quanto lontana dalla nostra situazione attuale, ammesso che in un qualche momento sia stata un po’ più vicina. Qui si parla di “rispetto per la vita vera”; della serietà dell’impegno nell’imparare un mestiere, di imparare una tecnica addirittura re-inventandola producendo lavoro. Quale nobiltà e dignità nella parola “lavoro” intesa in questo modo! Ancora:

“E’ chiaro che ciò suppone un grosso rivolgimento e il discorso muta piano. Nei limiti del tempo presente e di queste considerazioni, accontentiamoci di ribadire il concetto che la serietà della cultura di un uomo si misura dalla mole e dalla finitezza del lavoro ch’egli sa produrre nel suo particolare campo tecnico. Ciò è come dire che le più svariate e peregrine cognizioni (tanto peggio se “condensate”) non fanno cultura se non in quanto diventano carne e sangue di un mestiere, di una tecnica di lavoro in cui ciascun uomo fa consistere la sua giornata e la sua dignità. Una cultura che non costi fatica, che non sia, vale a dire, lavoro vivo, non significa nulla.”

Ecco distrutta “la cultura del bla-bla”, perché la serietà della cultura di un uomo “si misura dalla mole e dalla finitezza del lavoro ch’egli sa produrre nel suo particolare campo tecnico”. Le “cognizioni” “non fanno cultura se non …”. E, per ciascun uomo, la sua giornata di impegno e la sua dignità.

E’ proprio difficile se non impossibile riassumere i concetti espressi, perché le singole parole di Pavese sono incastonate in modo insuperabile per esprimere il concetto stesso. Risulta così chiaro che la “cultura” del mio vecchio zio - che aveva una grande passione nella cura delle viti e negli innesti delle piante da frutto tanto da essere considerato lo specialista in tutta la campagna – era certamente di alto livello, “per la finitezza del lavoro ch’egli sapeva  produrre nel suo particolare campo tecnico”.

Naturalmente, lo specifico “campo tecnico” può anche essere quello della “cultura” comunemente intesa:

Un tempo esisteva in Italia una “cultura” umanistica che diede lavoro e dignità alla classe che l’aveva promossa nel corso della sua costituzione in classe dirigente. A questa cultura, signori, ecclesiastici, nobili e infine borghesi credettero come a un comune ideale. Le “humanae litterae” rappresentarono un campo di lavoro che significò ragione di vita per questa gente. Esse sono tuttora la base della cosiddetta scuola classica, ma oserà qualcuno affermare che gli attuali borghesi – come classe, e cioè imprenditori, agrari, professionisti, impiegati, nel loro insieme – credano in questo ideale di uomo colto per adeguarvi l’esistenza, trovarvi una ragione di lavoro e di progresso? Tranne pochi specialisti, e forse un certo numero di ecclesiastici, chi riesce più oggi, nei nostri mutati rapporti di classe, a proporsi nella vita come serio, come utile, come esauriente, l’ideale dello studio umanistico, dell’ “uomo umanistico”? Eppure esso è il termine ideale della cultura che s’impartisce nelle nostre scuole. Ma quanto decaduto e, come tutte le cose inutili, incarognito! Non è difficile dimostrare che proprio gli elementi umanistici di questa sua ormai superficiale cultura furono l’addobbo festaiolo che permise alla borghesia italiana di ritrovarsi e compiacersi nella baracca del fascismo.”

Certo, le “humanae litterae” hanno rappresentato molto, finché ci si è creduto. Ma oggi, dice Pavese, “chi crede più in quell’ideale di uomo colto?”. Specie dopo la sua decadenza verso una “ormai superficiale cultura”, che ne ha fatto “l’addobbo festaiolo” della “baracca del fascismo”. E invece purtroppo, dice ancora Pavese, quello “dell’uomo umanistico” è ancora  “il termine ideale della cultura che s’impartisce nelle nostre scuole”.

Ma allora, si dovrebbe solo imparare mestieri e tecniche? Pavese non la pensa così:

“E’ quindi chiaro che, secondo noi, la nuova cultura democratica e popolare non dovrà nutrirsi di “cognizioni” umanistiche (e nemmeno scientifiche) di tipo volgarizzativo. Dovrà allora l’attuale fervore culturale acceso nelle masse italiane limitarsi alla perfetta acquisizione del singolo mestiere, della singola tecnica, e abbandonare la cosiddetta alta cultura ai vari specialisti accreditati? Questa è in fondo – malgrado la volgarizzazione interessata dalle prelodate Selezioni – la prospettiva americana. Inutile dire che un solo aggettivo conviene a questa prospettiva: reazionaria. Essa tende a creare addirittura delle caste.”

Anzi: lui dice che quella di “limitarsi alla perfetta acquisizione del singolo mestiere, della singola tecnica …”  è proprio la prospettiva americana, mentre noi avremmo un’altra ambizione, “una diversa concezione dell’uomo”:

“Noi crediamo invece che in mezzo al sangue e al fragore dei giorni che viviamo vada articolandosi una diversa concezione dell’uomo. Tecnicamente specializzato ma radicato in una società il cui ideale non può non essere la sempre maggiore consapevolezza di ciascuno – il che significa la massima efficienza del lavoro di ciascuno, ma consapevole del lavoro di tutti – l’uomo nuovo sarà rimesso in grado di vivere la propria cultura e cioè di crederci e di produrla anche per gli altri, non in astratto ma in uno scambio quotidiano e fecondo di vita. Inutile dire che questa società sarà quella socialista, e i suoi sviluppi futuri saranno nel senso di un sempre più profondo e consapevole socialismo.”
Insomma: a tendere, si dovrà realizzare la massima efficienza del lavoro di ciascuno nella consapevolezza del lavoro di tutti. E ancora: vivere la propria cultura credendoci e vivendola in uno scambio quotidiano di vita, “nel senso di un sempre più profondo e consapevole socialismo”.

Che dire. Pavese aveva fatto uno sforzo che è poi risultato per lui insopportabile, insieme con tutti gli altri suoi pesi personali, ovviamente. Aveva prima cercato -  quasi da solo - spazi di libertà nella cultura americana quando da noi era buio; aveva poi continuato a ragionare sull’ “uomo nuovo” di una società da costruire e ne aveva scritto pagine accorate e lucidissime. Per sentirsi dire “P. non è un buon compagno” proprio da “quelli che più ti stanno a cuore”.

Quanta acqua è passata sotto i ponti da quel lontano 1950! Anche le parole non sono più le stesse: Pavese usa l’aggettivo “democratica” riferita a “cultura” nel senso che si sforza di precisare: una cultura non volgare, che produce consapevolezza di ciascuno e di tutti, in cui si può credere, che “produce” anche per gli altri, in uno scambio quotidiano – e fecondo – di vita. Ed usa l’aggettivo “democratica” in alternativa ad “americana”.

Ormai si usa la parola “democrazia” quasi come sinonimo di “America”, e qualcuno la vorrebbe come quella che si esporta con le armi. E di “socialismo” (nel senso di Pavese) chi parla più? Forse qualcuno che è contrario all’idea e che vuole screditare qualche avversario ricordandogli i crimini del “socialismo reale”.
  Cosa è successo della “nuova cultura” che Pavese indicava? E’ successo che la sua costruzione si è rivelata oltremodo difficile, ammesso che qualcuno la volesse costruire davvero  (nonostante le belle Costituzioni …). Poi, ad un certo punto e quasi simultaneamente, sono arrivati liberismo economico, finanza, automazione e globalizzazione a cambiare il volto al lavoro e alla società. E adesso siamo in mezzo al guado.

Naturalmente, non dobbiamo arrenderci, e per fare questo abbiamo bisogno di energie nuove. Dobbiamo “rubare gli occhi” ai ragazzi e ai bambini per vedere il mondo (anche) con il loro sguardo. Mai come in questo caso è profetica la frase di Don Milani, da intendere in un senso ancora più ampio del suo significato originario: “il ragazzo è perciò da un lato nostro inferiore perché deve obbedirci e noi rispondiamo di lui, dall’altro nostro superiore perché decreterà domani leggi migliori delle nostre”.

Insomma, guardare con gli occhi dei ragazzi per vedere più in là. Anche se così incappiamo in un’altra bella grana di questo “tempo di mezzo”: il problema educativo. Ma tant’è.

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